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Spranghe

Il prigioniero coreano
(Geumul)
di Kim Ki-Duk
Corea del Sud, 2016
Con: Ryoo Seung-Bum (Nam Chul-woo)
Trailer del film

Geumul è la rete con la quale il pescatore nordcoreano Nam Chul-woo cattura i pesci e dà sostentamento a moglie e figlia, gli unici beni della sua vita. La rete si impiglia nel motore e le correnti lo trascinano oltre il confine, verso la Corea del Sud. Portato a Seul, Nam cerca di tenere gli occhi chiusi per non vedere la corruzione della grande città capitalistica. Vede bene, invece, la ferocia e il disprezzo di chi lo interroga e vorrebbe trasformarlo a tutti i costi in una spia. Interrogatori e violenze analoghe, se non identiche, a quelle praticate nella Corea del Nord. Ciascuno è ostaggio dell’autorità ed è prigioniero soprattutto dei propri Affetti, Princìpi, Memorie e Nostalgie.
Valori e sentimenti che si dissolvono al fuoco implacabile delle rivelazioni che il divenire ci mostra quando fissiamo gli occhi dentro il disordine, dentro babilonia. Il prigioniero coreano è metafora dell’essere rinchiusi gli umani, i pesci e ogni vivente dentro le «vigorose spranghe del caos» (Pistis Sophia, II, 81, 19), dentro il crepuscolo della materia consapevole di esserci, durare, finire.
Il canto patriottico e folle del carnefice dentro la prigione e la bandiera che avvolge il prigioniero tra le acque proiettano nella sanguinosa farsa della storia l’inevitabile tragedia della vita.

Gnosi

The Turin Horse
(A torinói ló)
di Béla Tarr e Ágnes Hranitzky
Ungheria, Francia, Svizzera, Germania, USA, 2011
Con: János Derzsi (Ohlsdorfer, il vetturino), Erika Bók (la figlia di Ohlsdorfer), Mihály Kormos (Bernhard,  il conoscente), Ricsi (il cavallo)
Musica di Mihály Vig
Trailer del film

«La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini. Non la si può afferrare in altro modo»
(Vangelo di Filippo, 67, 10)

«Del cavallo si sono perse le tracce» è detto nel prologo. Il cavallo è quello che Nietzsche avrebbe abbracciato il 3 gennaio 1889 a Torino. Un episodio probabilmente spurio, ma questo non ha importanza. Il cavallo ritorna con il suo padrone a casa, dove li attende la figlia. La campagna, brulla e affaticata, è battuta da un vento che mai posa nei sei giorni in cui si dipana il racconto. Padre e figlia ripetono i gesti della terra e della miseria. Vivono nel silenzio e in una luce d’argento che illumina e ferisce. La prima sera il padre nota che dopo tanti anni non si sentono più i tarli. Il giorno dopo Ricsi, il cavallo, si rifiuta di incamminarsi verso la città. Città che forse non esiste più, come racconta Bernhard -un amico venuto a comprare liquori- in un monologo colmo di tragedia, di energia, di accuse nei confronti di un dio incapace e complice del male, nei confronti dell’arconte la cui «creazione è la cosa più orribile che si possa immaginare», nei confronti degli umani la cui lotta «è subdola e meschina», tanto che «tutto quello che toccano, e loro toccano tutto, viene avvelenato. […] Va avanti così da secoli. Sempre così. Sempre e solo questo». Passa un carro con degli zingari, che attingono al pozzo e regalano alla figlia un libro sacro. Ricsi si rifiuta di mangiare. Il pozzo si prosciuga. Il vento continua, come la luce. Sino a che al sesto giorno d’improvviso cessa. Insieme al vento si spegne la luce nel cielo, nelle lampade, nelle braci. «Che cosa sta succedendo, papà? Non lo so». Ombre distinguibili a fatica. Una lampada arde ancora. Poi il buio.
Il cavallo di Torino ha la sapienza di un mito gnostico e la potenza di un affresco medioevale. Nessuna immagine è gratuita o superflua. Lo spazio/ambiente si amplia a poco a poco illuminando gli angoli. Le ore scorrono nella ripetizione. Davanti alla finestra padre e figlia osservano l’esterno e reclinano i significati. Dappertutto fluisce la dissoluzione. Il vento è sentito in ogni trama: regolare, furente, senza posa. Un vento che è magnifica e luttuosa metafora del tempo che tutto intride, penetra, vince, disgrega, in un contrappunto incessante di tenebra e di luce.
Questo film disegna la condizione umana, il suo modo e il suo andare, il suo tramontare per i singoli e per l’intero. Una condizione che secondo il Vangelo di Filippo è simile a quella dell’asino che girando intorno a una mola, «fece cento miglia; quando fu sciolto, si trovò ancora allo stesso posto. Certi uomini camminano molto, ma non arrivano mai da nessuna parte; quando per loro giunge la sera non vedono né città né villaggio né creazione né natura né forza né angelo. Miserabili, hanno sofferto invano»1.
The Turin Horse sembra intuire «quel mistero che sa perché sono sorte le tenebre, e perché è sorta la luce»2. In questo film si dispiega dunque la conoscenza gnostica, la quale «ora avendo il dominio osserva la luce, / ora precipitata nelle miserie piange […] Ora nasce / e infelice non avendo scampo dai mali / vagando entra nel labirinto. […] Cerca di fuggire il caos amaro / e non sa dove passare. / Per lei mandami, Padre della Luce: / avendo i sigilli scenderò, / traverserò distese infinite di tempo / rivelerò gli enigmi / mostrerò le figure degli dèi. / L’arcano del cammino sacro, / chiamandolo gnosi, rivelerò»3.
Lo splendido bianco e nero dell’opera e la sua lentezza non possono essere apprezzati in televisione o su un computer. Il grande schermo della Cineteca Italiana/Spazio Oberdan di Milano ha invece permesso di immergersi nella sua struttura gnostica.
La musica di Mihály Vig pervade il film e ne scandisce l’Aδράστεια, l’Inevitabile.

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/05/Vig_Turin_Horse.mp3]

Note

1 Trad. di Luigi Moraldi, 63, 10.2, in I Vangeli gnostici, Adelphi 1991, p. 58.

Pistis Sophia, a cura di Luigi Moraldi, Adelphi 1999, II, 91, 10, p. 177.

3 Salmo dei Naasseni sulla ψυχή, in Ippolito, Confutazione V 10, 2, in Testi gnostici in lingua greca a latina, a cura di Manlio Simonetti, Fondazione Valla / Arnoldo Mondadori Editore 1993, pp. 85-87 (con modifiche nella traduzione).

Pistis Sophia

Sangue del mio sangue
di Marco Bellocchio
Italia, Francia, Svizzera – 2015
Con: Pier Giorgio Bellocchio (Federico), Lidiya Liberman (Benedetta), Fausto Russo Alesi (Cacciapuoti), Roberto Herlitzka (Il conte), Filippo Timi (il pazzo), Alberto Cracco (l’inquisitore francescano), Alba Rohrwacher (Maria Perletti), Federica Fracassi (Marta Perletti), Toni Bertorelli (Il dottor Cavanna)

Trailer del film

XVII secolo, Monastero di Bobbio. Benedetta è accusata di essere una strega e aver indotto il suo confessore al suicidio. La violenza, l’ipocrisia, la follia dell’Inquisizione non riescono a farla confessare. Viene murata viva. Dopo decenni, torna a trovarla il fratello del prete suicida, che voleva ucciderla, che forse se ne era innamorato e che ora è un rigido cardinale.
XXI secolo, Bobbio. L’antico carcere sembra abbandonato. Vi abita un uomo che esce soltanto di notte ed è a capo di una fondazione che benefica -in maniera non del tutto legale- gli abitanti del luogo. Il Conte -così lo chiamano- sembra una sorta di saggio vampiro. Una giovane e fiorente donna lo attrae con tutta la forza della vita. La desidera, la segue mentre lei amoreggia con il suo ragazzo.
Due vicende apparentemente lontane nel tempo e nel contenuto ma che invece mostrano l’unità di una metafora gnostica tra le più chiare. L’Inquisizione cattolica e il Conte rappresentano infatti l’espressione tragica e quella benevola di una struttura antropologica intrisa di buio e incapace di riscattarsi nonostante il tentativo di imprigionare la Luce. Anzi, proprio per averla imprigionata. La Grande Chiesa -la Chiesa papista- ha soltanto la forza di tenere separata e segregata la Luce ma non ha la potenza di distruggerla. Come germe sonnecchiante essa tace e subisce, cova la propria purezza che è anche la sua forza, per poi risvegliarsi, ormai libera. Benedetta/Sophia si immerge negli elementi del mondo -l’acqua, il fango, il sangue, il fuoco- li assorbe in sé, oltrepassa la logica dualistica e insensata degli inquisitori, ne rimane incontaminata e alla fine esce dalla sua prigione risplendendo della potenza di una giovinezza che soltanto la conoscenza può offrire.
Non importa, naturalmente, che Bellocchio sappia che cosa è tutto questo. Artista è infatti colui che coglie gli archetipi e ne esprime la forza, anche se ne ignora i contenuti e le forme. E qui si tratta di un archetipo tra i più antichi, che dall’orfismo arriva al presente.
Questo film è dunque un’offerta di riflessioni sulla vita, di stabili intuizioni nello scorrere caotico del mondo e della sua narrazione, da cogliere dentro e oltre il tempo nella trama degli eventi e grazie al loro mutare.

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