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Il primo, l’ultimo

Il primo giorno della mia vita
di Paolo Genovese
Italia, 2023
Con: Toni Servillo (Uomo), Valerio Mastandrea (Napoleone), Margherita Buy (Arianna), Sara Serraiocco (Emilia), Gabriele Cristini (Daniele)
Trailer del film

Di fronte alla volontà e alla prassi di un vivente che decide di porre fine alla propria esistenza, credo che debba valere soltanto un silenzio rispettoso e inquieto. Si tratta infatti di un gesto che sembra confliggere in modo clamoroso con il Wille zum Leben, con il desiderio di continuare a vivere che intrama ogni entità biologica, qualunque specie animale e vegetale. E tuttavia è un gesto che accade. E non poi così di rado. Chiedersi ‘perché?’ è insieme ozioso e tracotante, così diverse e così intime e oscure possono essere le ragioni che inducono a spegnere la propria vita. E diverse sono infatti le motivazioni e le modalità che hanno indotto Arianna, Emilia, Napoleone e Daniele a uccidersi. Arianna era una poliziotta che aveva perso la figlia sedicenne; Emilia una grande ginnasta che arrivava sempre seconda e che un incidente ha ridotto in carrozzina; Napoleone era un motivatore di successo, una specie di guru teso a convincere che la vita merita sempre di essere vissuta; Daniele era un ragazzino indotto dal padre a diventare un fenomeno social, nei cui video virali lo si vede divorare in pochi minuti decine e decine di dolci.
Tutti costoro erano o ancora sono? Non è chiaro. Un non meglio precisato personaggio sembra infatti convincerli all’ultimo istante di darsi ancora del tempo, ancora una settimana entro la quale potranno cambiare idea e annullare il gesto che li ha uccisi. Essi esistono dunque in una condizione nella quale nessuno li può vedere ma loro osservano tutto e constatano, tra le altre cose, quanto «vedere la vita senza di noi è doloroso sempre, e non perché è bella o brutta ma perché va avanti, va avanti comunque».
L’uomo che ha provvisoriamente sospeso il loro gesto non si sa chi e che cosa sia. È capace di aprire luoghi e situazioni con grande facilità; di far intravedere qualcosa del loro futuro, nel caso decidessero di averne uno; di mettere in atto alcuni poteri che attribuiremmo senz’altro a un dio ma che sono esercitati certamente da un umano che ha dei limiti oltre i quali non può andare.
Se il suicidio è un “crimine” perché infrange il corso delle cose voluto dalla potenza divina, allora secondo David Hume andrebbe giudicato altrettanto colpevole ogni e qualsiasi intervento sulla natura, le sue leggi, le sue manifestazioni: «Se disporre della vita umana fosse un diritto esclusivo dell’Onnipotente, tanto che fosse una violazione del suo ufficio per gli uomini disporre delle proprie vite, sarebbe ugualmente criminoso agire per la sua conservazione come per la sua distruzione» (Sul suicidio e altri saggi scelti, Villaggio Maori Edizioni, 2008, p. 15). Tra le altre argomentazioni humeane a difesa del suicidio ce n’è una la cui verità è evidente, quella per la quale «nessun uomo abbia gettato via la vita, finché essa era degna di essere conservata» (p. 20).
È questa attenzione alla qualità dell’esistere a essere del tutto disprezzata dal fanatismo e dalla superstizione che vogliono legare gli umani alla sofferenza come se essa fosse un valore da perseguire invece che un male da, sino a che è possibile, evitare. Superstizione che «rende gli uomini timorosi e sottomessi» (p. 24).
A tale superstizione Hume oppone la saggezza dei pagani, ben riassunta nelle parole di Seneca e di Plinio. Il primo ringrazia Dio «quod nemo in vita teneri potest» (Epist. 12), del fatto che nessuno può conservare per sempre la propria vita. Il secondo compiange il divino proprio perché non può, anche se lo volesse, darsi la morte: «Deus non sibi potest mortem consciscere, si velit, quod homini dedit optimum in tantis vitae poenis» (Nat. Hist. II, 5).
Un tema così profondo, delicato e controverso è affrontato in questo film in modo anche geometrico e freddo. Caratteristica che secondo alcuni critici e spettatori lo indebolisce. Io credo invece che sia una delle sua migliori qualità. Con i suoi primi piani e con un narrare sospeso, Paolo Genovese è capace di entrare a fondo nelle vicende umane e nella loro interiorità, come già accadeva in Perfetti sconosciuti (2016)  e soprattutto in The Place (2017).

Tenebrae responsoria

The Place
di Paolo Genovese
Italia, 2017
Con: Valerio Mastandrea (l’uomo), Giulia Lazzarini (la signora Marcella), Sabina Ferilli (Angela), Marco Giallini (Ettore), Rocco Papaleo (Odoacre), Alba Rohrwacher (Suor Chiara), Vinicio Marchioni (Luigi), Silvia D’Amico (Martina), Vittoria Puccini (Azzurra), Alessandro Borghi (Fulvio), Silvio Muccino (Alex)
Trailer del film

Dico subito che The Place è uno dei film più coinvolgenti ed esatti che abbia visto negli ultimi anni. Non vi succede nulla al di là della parola, del narrare che costituisce da sempre una delle ragioni di identità della nostra specie. Qui c’è un uomo che ascolta. Lo fa nell’angolo di un bar, prende appunti su un’agenda mentre persone gli manifestano i propri desideri. Lui è in grado di soddisfarli, purché gli obbediscano. Un patto faustiano che coinvolge un’anziana signora che vorrebbe veder guarire il marito dalla devastazione dell’Alzheimer, un poliziotto recuperare la refurtiva di una rapina, una ragazza diventare più bella, una moglie essere di nuovo voluta dal marito, un cieco riacquistare la vista, una suora ritrovare la fede perduta, un padre salvare il proprio bambino da morte imminente, un meccanico trascorrere la notte con la modella che sorride dai manifesti dell’officina, un figlio liberarsi del padre. A tutti l’uomo garantisce la realizzazione delle loro aspirazioni purché facciano ciò che loro chiede. Che è quasi sempre malvagio o inconsueto o estremo.
Non è lui, naturalmente, a decidere. Sono loro a farlo, in un continuo alternarsi del solista che suggerisce e del coro che risponde. E lo fanno sul crinale della necessità e della pietà, della passione e del calcolo, di un libero arbitrio sempre illusorio e di un demone interiore che li guida, li spinge, li fa volere, li determina. Infatti poiché «ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων» (Eraclito, fr. 119),  «l’uomo fa sempre soltanto ciò che vuole e pure lo fa necessariamente» (Schopenhauer, La libertà del volere umano, Laterza 1988, p. 147) perché noi siamo sì in molte azioni liberi di fare ciò che abbiamo voluto ma non di volere proprio ciò che stiamo volendo.
Siamo dispositivi desideranti e sempre lo rimarremo finché un corpo umano e animale pulserà del desiderio di vita e del suo terrore. Il desiderio, infatti, «ci pervade in ogni momento e nelle forme più diverse. Dalla brama verso gli oggetti alle ambizioni sociali, dalla conquista dei corpi altrui al possesso del loro tempo, dall’aspirazione a vivere ancora alla passione del vivere nella pienezza delle nostre soddisfazioni, il desiderio costituisce il motore sempre acceso della vita che pulsa e non si arresta mai. Essere corpo e vivere nel desiderio sono la medesima espressione della Zoé che ci impregna al di là del bìos delle nostre vite individuali, delle nostre specifiche volontà, della particolare modalità in cui il flusso di aspirazioni che siamo si colloca in un luogo e in un istante particolari» (La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci 2009, p. 260).
La radice di tale struttura è anche ambientale, psichica, relazionale, neuronale ma va oltre, molto oltre. E tocca la condizione di gettatezza del corpomente di ciascuno in un mondo labirintico e ferreo, nel quale le spranghe della necessità ci consegnano a un fantasma di libertà, allo spettro del bene, all’inganno della morale.
Ma il demiurgo malinconico, implacabile e potente di questo film si mostra anch’egli rinchiuso nei confini dell’oscuro, dai quali soltanto un angelo arriva a liberarlo quando tutto sembra essersi compiuto. «Credo nei dettagli» risponde quest’uomo a chi gli chiede in che cosa riponga la sua fede. Il dettaglio di uno spazio incomprensibile e geometrico. The Place è il luogo della Geworfenheit, dell’essere gettati in un mondo costituito di tenebra.

L’ascolto del II mottetto della terza giornata («Sabbato Sancto ad Matutinum») di Tenebrae Responsories di Tomás Luis de Victoria (1585) trasmette la malinconia di ciò che abbiamo perduto, della luce che intravediamo.

Trasparenza

Perfetti sconosciuti
di Paolo Genovese
Italia, 2016
Con: Giuseppe Battiston (Peppe), Anna Foglietta (Carlotta), Marco Giallini (Rocco), Edoardo Leo (Cosimo),Valerio Mastandrea (Lele), Alba Rohrwacher (Bianca), Kasia Smutniak (Eva)
Trailer del film

Quattro coppie di amici a cena. Il quarto però si presenta da solo perché la sua compagna non sta bene. Tra una portata e l’altra, Eva propone il gioco della verità in versione aggiornata, vale a dire lasciare i cellulari sul tavolo, leggere tutti insieme i messaggi e ascoltare in viva voce le chiamate. Qualcuno ha delle perplessità sull’opportunità di un simile esperimento ma, per non dare l’impressione di avere dei segreti, alla fine tutti accettano. Com’era facilmente prevedibile, ciò che emerge via via che arrivano le chiamate e i messaggi è un mondo sconosciuto ai rispettivi partner. Un mondo di sfiducia, ambiguità, tradimenti. Il piano inclinato della verità conduce i personaggi verso il baratro.
I sette attori sono perfettamente calati nella parte e valorizzano una sceneggiatura capace di alternare con abilità e finezza il comico e il drammatico. Il vero protagonista è il cellulare, un’intelligenza artificiale alla quale gli umani affidano tutto di sé: informazioni, legami, desideri, segreti, bassezze. Il telefono è al servizio dei social network -WhatsApp, Twitter, Facebook-, i quali creano i legami, determinano le loro modalità, decretano la loro fine. Il mondo distopico immaginato da molta fantascienza -le macchine che prendono il sopravvento sui loro inventori- non ha bisogno dell’hardware di grandi apparati di silicio e d’acciaio. Questo mondo è in gran parte creato dal software della comunicazione digitale in cui tutti siamo immersi momento per momento. La compulsività con la quale si risponde al profluvio di messaggi che ci arrivano, il bisogno di tali messaggi, il senso di vuoto causato dalla loro assenza, costituiscono non soltanto una immensa fonte di profitto da parte di aziende come Google e Facebook ma vanno trasformando le interazioni umane in qualcosa di nuovo, caratterizzato da immediatezza, dipendenza, labirinti.
Tutto questo è stato immaginato e auspicato più di due secoli fa dal filosofo che è il padre della contemporaneità. Jean-Jacques Rousseau sognava una società nella quale i muri delle case fossero trasparenti, in cui nessuno avesse da nascondere nulla agli altri e la sincerità fosse pervasiva e totale. Ma il segreto è una delle condizioni fondamentali della relazionalità interumana, rimosso il quale rimane la barbarie dell’occhio totalitario del potere, rimane la barbarie di un reciproco dirsi tutto che diventa un reciproco odiarsi. La riservatezza e il silenzio sono due delle condizioni che rendono possibili i legami individuali e collettivi. Se i social network sono un pericolo è anche perché tendono a rimuovere tali condizioni. E ci riescono.
Il finale di questo film mi è sembrato efficace ed emblematico proprio perché ricostituisce quell’armonia che la trasparenza aveva distrutto. L’opacità è condizione stessa dell’umano, della sua finitudine.

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