Skip to content


Orizzonti e didascalie

Alberto Garutti. didascalia / caption
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Paola Nicolin e Hans Ulrich Obrist
Sino al 3 febbraio 2013

C’è una manieristica vivacità nel contemporaneo. Emerge con chiarezza in questa mostra che ripercorre l’opera di Garutti scultore, architetto, fotografo, performer. Matasse di nylon lunghe quanto le distanze tra i luoghi dove l’artista vive; piante di ficus che dovrebbero segnare la continuità tra l’interno del PAC e il suo esterno-giardino; strati di moquette ritagliati sull’alternarsi dei mobili e del pavimento nella casa di Garutti; statue di madonne che si accendono sino a raggiungere la temperatura del corpo umano. E così via. Un evidente narcisismo, come se il mondo si potesse racchiudere nelle intenzioni dell’artista.
Più oggettive sono le installazioni che dialogano con le città e dedicate agli abitatori delle strade, ai ragazzi che si innamorano in piccoli teatri, ai bambini che nascono e che nascendo producono l’accensione di alcune luci mediante dei pulsanti posti nel reparto maternità di un ospedale.
Le opere più riuscite sono Didascalia -che dà il titolo alla mostra- e Orizzonte.
La prima raccoglie nel corridoio centrale del PAC migliaia di fogli colorati e accatastati, con stampate le didascalie in varie lingue delle installazioni che Garutti ha sparso per il mondo. Il visitatore può prendere tutti i fogli che vuole e portarseli a casa.
Orizzonte occupa una lunga parete con 19 «lastre di vetro di diversi formati e dimensioni, dipinte sul retro, per metà con pittura nera e per metà bianca» (Catalogo/Guida alla mostra, p. 35). L’effetto è lo spazio che si fa ritmo poiché la linea che divide la metà bianca da quella nera di ogni opera è posta sempre alla stessa altezza e sono le due sezioni colorate a scandire come musica la fuga dei quadri. Il moto e il suo divenire sembrano quindi non finire.

Un’inquietudine che si autocelebra

Addio anni 70. Arte a Milano 1969-1980
A cura di Francesco Bonami e Paola Nicolin
Milano – Palazzo Reale
Sino al 2 settembre 2012

Ad accogliere è una semplice cornice dentro la quale è inscritta la parola Gliannisettanta (Alighiero Boetti) . Nella stessa stanza sta la Bariestesia (Gianni Colombo), una serie di scale asimmetriche che vanno percorse per comprendere quanto straniante possa essere lo spazio. Un incipit nel quale l’ordine della parola racconta il disordine dei luoghi e degli eventi. Da qui ci si inoltra in un vero e proprio catalogo, a volte bulimico, degli anni Settanta.
Copie delle edizioni L’erba voglio e di Alfabeta. La dinamica classicità delle sculture di Fausto Melotti. Il Nuovo Realismo nella varietà delle sue forme, tra le quali i piatti e i tavoli sporchi del Restaurant Spoerri. I funerali delle vittime di Piazza Fontana fotografati da Ugo Mulas. Christo che impacchetta il monumento a Vittorio Emanuele II in Piazza Duomo. I ritratti fotografici di Carla Cerati che descrivono altri funerali, i processi più celebri, i personaggi più paradigmatici. L’Orlando Furioso messo in scena da Ronconi in mezzo al pubblico assiepato in piedi. Le superfici acriliche e asettiche di Enrico Castellani. Bernd e Hilla Becher che fotografando gasometri, torri d’acqua e fornaci mostrano tutta la bellezza urbana del paesaggio industriale, da Sironi in poi. John Cage al Teatro Lirico il 2 dicembre 1977. Cesare Colombo e Gianni Berengo Gardin che colgono Milano negli angoli e nei modi di esistere più suoi, mentre Gabriele Basilico si concentra sul proletariato giovanile che la abita. I raduni di questo proletariato, e di chi a proletario si atteggiava, documentati con le immagini e il sonoro. Il tardo e sterile surrealismo di Sergio Dangelo. L’intuizione della Révolution informatique di Simon Nora e Alain Minc. Il narcisismo di Emilio Isgrò che si celebra nella serie di attestati, firmati da lui e da altri, nei quali dichiara di non essere Emilio Isgrò. Le grandi tele colorate di Valerio Adami. Il grigio brechtiano di Emilio Tadini. I meravigliosi Segmenti in bronzo di Arnaldo Pomodoro. Gli Studi di anatomia di Giovanni Testori, espliciti sino al porno. Le metafore materiche di Alik Cavaliere.

Un’inquietudine che si autocelebra, questo è la mostra che Milano ha dedicato a se stessa nel tempo in cui pensava di cambiare il mondo mentre poi fu essa a cambiare, diventando la craxiana capitale della corruzione politica. E questo avvenne -triste a dirlo ma così fu- con la complicità attiva o rassegnata di non pochi fra coloro che volevano, o immaginavano di volere, la Rivoluzione.
Sorpresa-Scandalo-Normalità-Museizzazione. L’inevitabile ciclo di ogni avanguardia e sperimentazione ha in questa mostra una conferma quasi didascalica. La storia (il tempo) davvero tutto tritura, tutto immobilizza. Un Addio malinconico a un decennio che è fallito nelle sue speranze ma che ha vinto nella sua rassegnazione alla legge del più forte. Poiché la città non è riuscita a essere più forte delle banche, ha riconosciuto la loro forza e vi si è sottomessa. Eppure in questo suo quasi funebre autoricordare, Milano mostra di essere ancora la città più critica d’Italia. E questo è parte della sua grandezza, del suo dramma.

Vai alla barra degli strumenti