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Tulipani

Tulip Fever
(Titolo italiano: La ragazza dei tulipani)
di Justin Chadwick
Gran Bretagna – USA, 2017
Con: Alicia Vikander (Sophia Sandvoort), Christoph Waltz (Cornelis Sandvoort), Dane DeHaan (Jan van Loos), Holliday Grainger (Maria), Judi Dench (La badessa), Jack O’Connell (II) (Willem Brok)
Trailer del film

Sempre pessima la consuetudine italiana non soltanto di doppiare sistematicamente i film girati in altra lingua ma anche di modificarne i titoli. In questo caso l’originale Tulip Fever è assai più descrittivo di che cosa il film sia, ponendo al centro non la protagonista umana ma i fiori che nell’Olanda del Seicento crearono una bolla speculativa molto simile alle strutture e ai rischi della finanza del XXI secolo.
Sui tulipani, infatti, si investiva prima ancora che fossero fioriti. La rarità di alcune specie rendeva il bulbo di un singolo fiore più prezioso dell’oro. Sembrava che dai tulipani si generasse una ricchezza senza fine, come per i titoli azionari, i derivati e le altre espressioni contemporanee di una finanza tutta cartacea e drogata, una finanza febbrile appunto. Febbre che si rivelò mortale, portando alla rovina intere famiglie, così come è accaduto negli USA e poi in tutto il mondo con la crisi immobiliare e bancaria del 2007-2009, della quale noi semplici cittadini continuiamo a pagare le conseguenze. Allo stesso modo della Tulip Fever olandese, è stata infatti e continua a essere mortale l’odierna crematistica, presentata invece dai quotidiani e da altri media -finanziati dalle banche- come un modo ovvio di utilizzare il denaro e di moltiplicarlo.
Su questo sfondo del tutto attuale si staglia la vicenda dell’orfana Sophia, del suo anziano marito e commerciante Cornelis, dei vani sforzi di avere un erede, dell’amore tra la ragazza e il pittore incaricato da Cornelis di ritrarli. Una storia d’amore come tante che da un certo momento in poi comincia però a crescere nella inverosimiglianza, negli intrichi e intrighi, in un finale chiaramente artificioso.
Ciò che rimane interessante -e che spiega perché il titolo originale è più esatto- è che tutti i personaggi, compresa la determinata badessa del convento-orfanotrofio di Sophia, si rivolgono ai tulipani nei loro progetti di vita, nei loro sogni d’amore, nelle loro fortune e nelle loro disgrazie.
La messa in scena è sontuosa, soprattutto gli interni, e assai cromatica. I calvinisti olandesi sono sempre quelli descritti da Max Weber: persone convinte che la moltiplicazione del denaro sia un segno quasi certo che il Dio cristiano li ami. Da qui è germinata la profonda ingiustizia della modernità, da questa implacabile visione che coniuga l’esigenza della salvezza con la centralità del denaro. Se i nazareni costituiscono una setta da sempre pericolosa per l’equilibrio del mondo, la loro variante puritana si è mostrata la più rovinosa. Se «li riconoscerete dai loro frutti. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono fa frutti buoni, ma l’albero cattivo fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, né un albero cattivo fare frutti buoni» (Mt., 7, 16-18), il frutto più maturo del calvinismo -gli Stati Uniti d’America- era già tutto dentro l’ossessione olandese per i tulipani e per i favolosi guadagni da essi garantiti.

Deus sive Natura

Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento
(Spinoza. A Life, 1999)
di Steven Nadler
Trad. di Davide Tarizzo
Einaudi, 2009 (2002)
Pagine XV-410

Più l’Olanda del Seicento che Spinoza in questo libro. Per esplicita ammissione del suo autore, l’oggetto è non tanto la filosofia spinoziana quanto la vita e l’epoca, e soprattutto l’ambiente ebraico, alla cui storia, credenze, usi, costumi sono dedicati i primi sei capitoli, vale a dire metà dell’intero libro, la cui tonalità è chiaramente filosemita nel ripetuto tentativo di spiegare e giustificare i rabbini (Mortera, in particolare) e la comunità sefardita di Amsterdam. Giustificarli rispetto all’inaudita violenza del cherem che i capi religiosi e laici della comunità pronunciarono il 27 luglio 1656 contro il ventiquattrenne Spinoza, senza e prima che questi avesse pubblicato alcun testo. «Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera» (p. 141). Una delle ragioni di tanto odio starebbe secondo Nadler nel fatto che un simile bando «oltre ad avere una funzione disciplinare interna, aveva pure il senso di un messaggio diretto alle autorità olandesi: gli ebrei erano una comunità in ordine, che -come previsto dagli accordi presi con la città- non tollerava infrazioni della condotta o della dottrina ebraiche. […] E forse la singolare animosità del bando contro Spinoza si spiega proprio con la volontà del ma’ amad di non dare l’impressione di proteggere individui che negavano non tanto i principî della fede ebraica, quanto quelli della religione cristiana» (167).
Le comunità ebraiche erano comunque abituate all’utilizzo costante e ripetuto delle scomuniche contro i propri membri. Le ragioni potevano essere le più varie e minuziose, visto che erano e sono migliaia i precetti disobbedendo ai quali si commette peccato. Ma è l’intera esistenza quotidiana di tali comunità a essere permeata di un formalismo totale ed esasperante, contro il quale si era infatti già pronunciato l’ebreo fondatore del cristianesimo e nei cui confronti anche Spinoza ritiene che «i seicentotredici precetti della Torah non hanno nulla a che fare con la virtù e la beatitudine» (303).
Dopo la scomunica Spinoza cessò di considerarsi un ebreo e parlò dei suoi antichi correligionari come di un’alterità con la quale nulla aveva a che fare. Non presentò ricorso -come sarebbe pur stato suo diritto- alle autorità civili della città «e neppure chiese aiuto a un’altra congregazione, come fece Prado. In effetti, non domandò neppure alla congregazione di rivedere il proprio giudizio. Abbandonò semplicemente la comunità» (171).
Forse anche per questo il testo di Nadler è percorso da una sottile avversione nei confronti del suo oggetto e verso la stessa filosofia intesa come esercizio di assoluta libertà razionale. Numerose potrebbero essere le conferme. Ad esempio, quasi a giustificare ancora una volta il cherem, «se Spinoza andava a dire cose simili […] e a stranieri per giunta! […] stava davvero giocando con il fuoco» (151-152); «Il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione  della religione e dei suoi concetti […] Perfino l’immortalità dell’anima è considerata niente più che una ‘durata eterna’» (211); «Le parole di Spinoza [nell’Appendice alla I parte dell’Ethica] sono assai pesanti, ed egli non era del resto inconsapevole dei rischi che correva» (258); «Ma nessun altro filosofo ha mai neppure identificato Dio con la Natura» (262), affermazione non rispondente al vero, dato che la concezione immanentistica del divino è un’antica posizione filosofica, pur variamente declinata, e sostenuta qualche decennio prima di Spinoza pure da Giordano Bruno (anch’egli scomunicato e la cui morte rimarrà per sempre uno dei peggiori crimini della chiesa papista).
Le fonti di Spinoza furono assai varie: la mistica ebraica; forse l’eretico (anch’egli bandito con un cherem) Uriel da Costa; il suo maestro di latino e di varia umanità Franciscus Van den Enden; certamente Descartes; Euclide; gli stoici; e anche -è una delle affermazioni più interessanti di Nadler- l’intera comunità della città dove nacque: «Ex gesuiti radicali in politica, collegianti con tendenze sociniane, ebrei apostati, forse persino quaccheri e pensatori libertini -se si dovesse davvero accusare qualcuno di essere stato il ‘corruttore’ di Spinoza forse bisognerebbe a questo punto accusare la città di Amsterdam nel suo complesso, una città liberale, in cui fiorirono di continuo idee eterodosse» (163).
Furono naturalmente il suo carattere e la sua intelligenza a renderlo immune da qualunque tentativo di corruzione -«gli erano stati offerti mille fiorini ‘per fare presenza in sinagoga di tanto in tanto’. Spinoza, a quanto pare, rispose che ‘potevano anche offrirgli diecimila fiorini’ ma lui non avrebbe comunque mai accettato una simile ipocrisia, ‘poiché si preoccupava solo della verità, e non delle apparenze’» (170)-; a farlo vivere con grande frugalità e in profonda coerenza con le proprie idee -rifiutando sia gli onori sia le polemiche- e a rimanere sempre sereno, come testimonia Jean Maximilian Lucas uno dei suoi primi biografi: «A qualunque ora lo si trovava sempre di ottimo umore…Possedeva una grande e penetrante intelligenza, e trasmetteva un senso di appagamento» (218).
Anche alla luce di questo carattere equilibrato e sicuro di sé, la ‘solitudine’ di Spinoza è davvero una leggenda priva di fondamento, come Nadler suggerisce quando sottolinea le ottime relazioni dal filosofo intrattenute con una varietà di soggetti sia in presenza sia per corrispondenza; il suo tornare spesso ad Amsterdam anche dopo essersi trasferito a Rijnsburg prima e all’Aia poi; il grande numero di persone che seguì il suo feretro il 24 febbraio 1677, quattro giorni dopo la morte. «Lungi dall’essere quell’antipatico e misantropo recluso di cui si è tramandata leggenda, Spinoza era invece, una volta messo da parte il lavoro, una persona di compagnia, moderata e piacevole, sempre calma -come ci si poteva aspettare del resto dall’autore dell’Etica. Era gentile e pieno di riguardi, e si divertiva molto in compagnia degli altri così come gli altri si divertivano con lui» (319). Ovunque vivesse, Spinoza venne cercato da molti, o di persona o per lettera. Il suo Epistolario è uno dei filosoficamente più densi che si possano leggere, un vero specchio della mente e del carattere di quest’uomo.
Avversato sino all’odio, giudicato, empio, blasfemo, sovversivo, depravato, pericolosissimo (anche da Leibniz) e persino «di essere un agente di Satana, se non addirittura l’Anticristo in persona» (324), Spinoza ha offerto una delle più plausibili interpretazioni dell’essere e del posto che ogni ente -umani compresi- occupa in esso. Lo fece in tutte le sue opere e nell’Epistolario ma specialmente nel Tractatus Theologico-Politicus, che «è uno dei manifesti più eloquenti che siano mai stati scritti a favore di uno Stato democratico e laico» (315) e nell’Ethica ordine geometrico demonstrata, «un’opera ambiziosa e sfaccettata. Un testo davvero audace per la critica spietata e sistematica cui vengono sottoposte le correnti nozioni filosofiche di Dio, dell’uomo e dell’universo, con tutte le credenze teologiche e morali allegate. Nonostante la scarsità di riferimenti a pensatori del passato, il libro dà prova di una grande erudizione e di una approfondita conoscenza degli autori classici, medievali, rinascimentali e moderni -pagani, cristiani ed ebrei. Platone, Aristotele, gli Stoici, Maimonide, Bacone, Cartesio e Hobbes (tra i tanti) appartengono tutti allo sfondo culturale dell’opera, che rimane comunque, ciononostante, uno dei trattati più originali dell’intera storia della filosofia» (250-251).
Il disincanto sulle vicende umane si coniuga alla certezza di una razionalità invincibile che intride gli eventi. Per Spinoza la filosofia è il tentativo di comprendere questo significato e, una volta compreso, lasciarsene attraversare.

Spinoza

Il problema Spinoza
(The Spinoza Problem, 2012)
di Irvin D. Yalom
Trad. di Serena Prina
Neri Pozza Editore, 2013
Pagine 444

«Il mio professore affermava che Spinoza era l’uomo più intelligente che avesse mai posato il piede sulla terra» riferisce il dottor Pfister, uno dei personaggi del romanzo (pag. 236). Affermazioni come queste sono naturalmente sempre iperboliche ma nel caso di Bento Spinoza si avvicinano molto alla realtà. La figura, l’opera, le idee di questo filosofo hanno costituito sempre “un problema” per ogni individuo e ogni comunità arrancanti dietro un dogma nell’accidentato percorso del vivere. Spinoza, infatti, fu soprattutto un uomo che pose al centro della propria esistenza la libertà dalle verità rivelate e dalle passioni, «la libertà di pensare, di analizzare, di trascrivere i pensieri poderosi che gli echeggiavano nella mente» (108). Obiettivo e modalità di vita del tutto incompatibili con ogni chiesa e ogni religione. Che si tratti di ebraismo (la concezione di vita nella quale venne educato), di cristianesimo, di islamismo o d’altro, «le autorità religiose di tutti i generi cercano di impedire lo sviluppo delle nostre facoltà razionali» pensava Bento (165). Tali autorità cercano infatti di tenere gli umani sotto controllo tramite l’alternarsi di paure e di speranze, paura delle punizioni terrene ed eterne, speranza che il singolo possa sopravvivere per sempre, al di là della sua morte. Spinoza desiderava invece vivere libero da tali emozioni e per questo auspicava «la fine di tutte le tradizioni che interferiscono con il diritto di chiunque di pensare con la sua testa» (248) e si oppose quindi non soltanto ai dogmi dell’ebraismo ma anche al culto idolatrico che gli ebrei rivolgono verso la Scrittura. Il risultato fu il cherem del 27 luglio 1656, una scomunica e una maledizione implacabili, che Yalom riporta per intero alle pagine 200-201. Ne trascrivo qui una parte, con una diversa traduzione:

«In conformità alla decisione degli angeli e al pronunciamento dei santi, secondo l’ispirazione del sommo Iddio e l’approvazione di questa comunità, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e scacciamo Baruch de Espinoza. […] Sia maledetto di giorno e sia maledetto di notte, sia maledetto quando si posa e sia maledetto quando si leva, sia maledetto quando esce e sia maledetto quando entra. Che Dio non lo perdoni mai! Che l’ira e il furore di Dio si infiammino contro quest’uomo e su di lui riversino tutti gli anatemi e le maledizioni che sono iscritti nei libri della Legge. Dio annienterà il suo nome sotto il cielo e lo separerà, per il suo male, da tutta la stirpe d’Israele con tutte le maledizioni del cielo che sono iscritte nei libri della Legge. […]  Noi ordiniamo che nessuno abbia rapporti con lui né orali né scritti, che nessuno gli presti alcun soccorso, che nessuno stia mai insieme a lui sotto un tetto o nel raggio di quattro passi, che nessuno legga mai un’opera scritta e pubblicata da lui».

«Durante la lettura di questa maledizione si sentiva di tanto in tanto cadere la nota lamentosa e protratta di un grande corno; le luci che si vedevano ardere brillanti al principio della cerimonia, vennero spente ad una ad una, a mano a mano che si procedeva, fino a che alla fine si spense anche l’ultima, simboleggiando l’estinzione della vita spirituale dello scomunicato, e l’assemblea rimase completamente al buio»1.
Che cosa scatenò una simile violenza da parte della comunità sefardita di Amsterdam? È anche a tale domanda che cerca di rispondere questo «romanzo di idee», come lo definisce il suo autore (7), strutturato in una trama che alterna l’Olanda del Seicento con la Germania del XX secolo. Yalom prende infatti spunto dall’espressione che si legge nel rapporto steso da un ufficiale nazionalsocialista in occasione della confisca attuata nel 1942 -dai reparti speciali di Alfred Rosenberg- dei 151 volumi della Biblioteca di Spinoza a Rijnsburg, presso la casa-museo dedicata al filosofo. In tale rapporto (siglato nel processo di Norimberga come “documento 17b-PS”) si accenna alla necessità della confisca anche in relazione all’«esplorazione del problema Spinoza» (426 e 439). Da questo accenno Yalom fa partire una storia che ha come protagonista, insieme a Spinoza, l’ideologo del Partito Nazionalsocialista Alfred Rosenberg, il cui totale antisemitismo razziale si immagina essere stato turbato sin dagli studi liceali dal sapere quanto e come Spinoza fosse stato venerato da alcuni dei più grandi filosofi e artisti tedeschi, tra i quali Hegel, Schopenhauer, Nietzsche e soprattutto Goethe, il quale afferma che la lettura dell’Ethica contribuì in modo determinante a restituirgli serenità e fiducia nella razionalità umana. In una pagina di Poesia e verità Goethe riconosce in tutta la sua ampiezza l’influsso esercitato da Spinoza su di lui: «Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo di foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell’Ethica di quest’uomo. Non saprei render conto di quello che ho tratto dalla lettura di quell’opera, di quel che ci ho messo di mio: basti dire che vi trovai un acquietamento delle passioni, e parve che mi si aprisse un’ampia e libera veduta sul mondo sensibile e morale. Ma quel che mi avvinse di più fu lo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni massima. Quelle parole singolari: “Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio a sua volta lo ami” con tutte le premesse su cui si basano, con tutte le conseguenze che ne derivano, riempirono tutta la mia facoltà di riflessione»2.
Yalom suppone che Rosenberg fosse stato tormentato per tutta la vita dalla profonda ammirazione e gratitudine dell’‘ariano’ Goethe verso l’‘ebreo’ Spinoza e su questo inventa una storia plausibile, affascinante e originale nell’alternarsi di epoche, di uomini, di tragedie. Il valore filosofico del romanzo sta nel suo essere intessuto e percorso da moltissime citazioni tratte dai libri di Spinoza. Tra queste ricordo soltanto due brani: nella prefazione alla terza parte dell’Ethica Spinoza afferma che «humanas actiones atque appetitus considerabo perinde ac si quæstio de lineis, planis aut de corporibus esset», vale a dire – come scrive Yalom – che intende «trattare le azioni, i pensieri e gli appetiti umani proprio come se fossero composti di linee, piani e corpi» (275); le parole con le quali si chiude l’Ethica sono queste: «Sed omnia præclara tam difficilia quam rara sunt» che qui diventano «Tutte le cose eccellenti sono difficili, poiché sono rare» (412). Ma il libro, e questo è un suo limite consistente, è anche impregnato di psicoanalisi, la quale può certamente illuminare molte delle ragioni profonde dei sentimenti e dei comportamenti umani ma che qui appare come l’unica capace di pervenire alle loro radici3.
Il pensiero e l’esistenza di Bento Spinoza non possono essere ricondotti a una psicologia del profondo bensì a una metafisica razionalistica che però è ben consapevole della natura umana, per la quale -come sintetizza correttamente Yalom- «solo un’emozione più forte può avere la meglio su un’altra emozione. Il mio compito è chiaro: devo imparare a trasformare la ragione in una passione» (285); la prop. 14 della IV parte dell’Ethica afferma infatti che «vera boni et mali cognitio quatenus vera nullum affectum coercere potest sed tantum quatenus ut affectus consideratur (la vera conoscenza del bene e del male non può impedire nessuna passione in quanto vera, ma soltanto in quanto è considerata come passione essa stessa)». Spinoza riconosce che le passioni costituiscono la potenza più grande e quindi l’uomo saggio trasforma la conoscenza nella passione suprema, l’unica in grado di sottomettere tutte le altre. Parte fondamentale di tale metafisica è la concezione della mente umana come identica alla corporeità -modi diversi della stessa sostanza-, mente la cui potenza consiste anche nel determinare «quello che è spaventoso, privo di valore, desiderabile, inestimabile, e quindi è la mente, e solo la mente, che deve essere modificata» (32).
E Rosenberg? E i nazionalsocialisti? Di fronte a uomini come Spinoza, Goethe, Nietzsche, il manipolo di sedicenti Übermenschen che si raccolsero intorno a Hitler non possono che apparire -non soltanto in questo romanzo ma in ogni ricostruzione storica e biografica- come dei soggetti del tutto ignoranti e ottusi nel loro ripetere all’infinito e in modo ossessivo il mantra della razza; gente capace di semplificare in modo rozzo ogni più complessa questione. Tra costoro Rosenberg fu l’ideologo del regime, le cui astrusità nessuno però prendeva sul serio, neppure il suo Führer, al quale rimase tuttavia fedele sino alla fine, sino a Norimberga e all’impiccagione: «A differenza degli altri imputati, Rosenberg non ritrattò mai. Alla fine rimase l’unico a crederci ancora veramente» (432-433). Esempio chiaro di come ben poco si possa fare quando un coacervo di passioni domina gli umani. Quel coacervo che l’intera filosofia di Spinoza cerca di sciogliere, illuminare, capovolgere in saggezza. È anche per questo, per il modo in cui lo ha fatto, che Spinoza è davvero uno degli uomini più intelligenti e più liberi che siano mai esistiti.

Note

1 Emilia Giancotti Boscherini, Baruch Spinoza 1632-1677, Dichiarazione rabbinica autentica datata 27 luglio 1656 e firmata da Rabbi Saul Levi Morteira ed altri, Roma, Editori Riuniti 1985, pp. 13 e sgg.

2 In F. Mignini, Introduzione a Spinoza, Laterza 1984, p. 194; testo citato in parte da Yalom a p. 58. Nietzsche così ricorda la venerazione di Goethe per Spinoza: «Spinoza, di cui Goethe diceva: “mi sento molto vicino a lui, benché il suo spirito sia molto più profondo e puro del mio”,- chiamandolo talvolta il suo santo» (Frammenti postumi 1887-1888, in «Opere», vol. III/2, 9 [176], p. 91).

3 L’Autore è psichiatra alla Stanford University e già in E Nietzsche pianse (Rizzoli 1993) ricostruiva il pensiero nietzscheano a partire da un incontro immaginario tra Nietzsche e Josef Breuer, di fatto uno dei fondatori/ispiratori della psicoanalisi.

 

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