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Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Teofrasto

Teofrasto
Metafisica
(Τὰ μετὰ τὰ φυσικά)
Introduzione, traduzione e commento di Luciana Repici
Carocci, 2013
Pagine 337

Tecnico-specialistico, a tratti oscuro e a volte ellittico nella sua sintesi, questo scritto di Teofrasto (371-287) che ci è stato tramandato sotto il titolo di Τὰ μετὰ τὰ φυσικά risponde comunque pienamente alla denominazione che la tradizione gli ha attribuito. Nelle pagine che vanno dalla 50 alla 73 si trova infatti una serrata discussione di filosofia teoretica. Le pagine precedenti e le molte successive costituiscono l’introduzione della curatrice e il densissimo e accurato commento praticamente a ogni riga dell’opera.

Mentre altri editori/curatori a volte dividono il testo in un elenco di paragrafi, Luciana Repici ne evidenzia il carattere unitario, nel quale i periodi e i problemi si susseguono in un ordine ben preciso e argomentato.
A succedersi sono precisamente una serie numerosa ed essenziale di domande, di questioni. Teofrasto fa infatti proprio il metodo aporetico del pensare, quello che non ricerca nella filosofia una serie di risposte certe, definitive e dogmatiche ma privilegia una serie continua di aperture, tesi, controargomenazioni, sviluppi, nuove questioni. È il metodo inventato da Socrate, messo in atto da Platone – molti dialoghi del quale si concludono senza aver risposto alla questione sollevata, in modo appunto aporetico – e pienamente sviluppato da Aristotele. Teofrasto, infatti, intende e utilizza aporia e aporetico non «nell’accezione negativa di problema o difficoltà o ostacolo» ma «nell’accezione propositiva di strumento dialettico di accertamento della verità» (Repici, p. 112).

Con questo metodo Teofrasto studia «il principio di tutte le cose», che è «divino» poiché è grazie a esso che «tutte sono e permangono»  (I 3, 4b14-4b15, pp. 51-53). Meglio sarebbe dire, e Teofrasto infatti lo dice, che non si tratta di un principio unico ma di una molteplicità di principi che la ‘filosofia prima’ indaga nella loro natura, mentre le altre scienze si limitano a utilizzarli per fondare i propri ragionamenti e conseguire i risultati ai quali aspirano.
Si tratta di un pluralismo ontologico – per il quale l’essere e i principi si dicono in molti modi e sono intramati di differenza – e di un pluralismo gnoseologico, per il quale la conoscenza scientifica costituisce una visione unitaria di ciò che è e permane identico nella molteplicità degli enti e del loro incessante divenire: «Il sapere quindi non <sussiste> senza una qualche differenza [’Αλλ ηδε μεν οιονερβατός τις σοφία]. Infatti, una qualche differenza c’è sia nel caso in cui <le cose> sono una diversa dall’altra, sia negli universali, dato che molte sono le cose che ricadono sotto gli universali» (VIII 19, 8b16-19, p. 62).
La differenza è dunque sempre coniugata all’identità e anche questo fa sì che il mondo e gli enti siano caratterizzati da ordine e definitezza; lo è specialmente il cielo che, per Teofrasto come per Aristotele, è  divino, è dunque vivo di una vita superiore, ed è il luogo e la struttura dell’intero, dello ‘smisurato’ rispetto alle dimensioni contenute e modeste di ciò che è soltanto biologicamente vivo: «L’animato è infatti una piccola porzione, mentre smisurato è l’inanimato» (IX 32, 11a-16-17, p. 71).

Contrariamente a quanto spesso si pensa e si legge, la potenza e la perfezione dell’intero non implicano intrinsecamente una struttura teleologica, finalistica: «In vista di che cosa infatti <hanno luogo> l’irrompere e il rifluire del mare, o di che cosa gli avanzamenti o i disseccamenti e le modificazioni, e in generale i mutamenti ora in un senso ora nell’altro. […] Inoltre la grandezza delle corna, come <quelle> dei cervi che da esse sono pure danneggiati […] e altre e non poche cose di questo tipo si potrebbero prendere <ad esempio>» (IX 29, 10b1-16, p. 69). Repici osserva a questo proposito che «non è di Aristotele l’assunto che ogni cosa è in vista di un fine e nulla invano, dato che egli non esclude l’esistenza di cose che accadono accidentalmente e senza un fine. Ciò vuol dire che siamo di fronte non a una teleologia strutturalmente illimitata, ma ad una teleologia compatibile con l’esistenza di una necessità condizionante e limitante» (292).
L’intenzione e la natura oggettiva dello sguardo teofrasteo sul mondo sono confermate dalla distinzione tra l’essere del tutto e lo studio del tutto, con la quale l’opera si chiude: «Bisogna cercare di assumere qualche definizione, sia nella natura sia nell’essere del tutto [φύσει και εν του σύμπαντος ουσια], dell’essere in vista di qualcosa e dell’impulso verso il meglio. È questo infatti il punto di partenza nello studio del tutto [ἀρχὴ της του σύμπαντος θεωρἰας], <cioè> in che cosa <consistano> le cose che sono e come sono reciprocamente disposte» (IX 34, 11b24-12a2, p. 73).

Teofrasto formula anche un interessante accenno, ontologico prima che etico, al fatto che nel tutto non soltanto sono necessari i contrari ma anche «il peggio pareggi quasi il meglio, o piuttosto lo sopravanzi anche di molto» (VII 18, 8a22 – 8a25, p. 62). Più in generale, la sua attenzione alla necessità, alla materia biologica (le piante) e a quella celeste (gli astri) rappresenta anche, come in Aristotele, il tentativo di temperare il matematicismo dell’Accademia platonica con un richiamo costante alla potenza della materia formata.
Dato che «si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte prima, «Della virtù che dona», § 3; trad. di M. Montinari, Adelphi 1979, p. 92), Aristotele ha espresso molta φιλία – amicizia/amore – verso Platone ma una φιλία ancora più grande verso l’ἀλήθεια, verso il modo in cui l’essere si disvela da se stesso e non soltanto attraverso le parole di un maestro. Allo stesso modo Teofrasto mostra di aver ben appreso da Aristotele il rifiuto della auctoritas: la necessità del pensiero rispetto alla semplice ripetizione del già pensato. La sua essenziale e densa metafisica deve infatti molto al filosofo di Stagira ma da lui si distanzia aprendo altre strade. Anche questo è uno dei frutti del metodo aporetico.

Titoli di laurea e dottorato di ricerca

Uno degli inevitabili effetti delle lauree attribuite da parte delle Commissioni universitarie senza alcun merito dei candidati (lauree insomma regalate) è che esse valgono sempre meno.
La situazione si aggrava se si osserva che anche a candidati dal percorso modesto e con una tesi di laurea altrettanto ‘nella norma’ viene sempre più attribuito il voto massimo e la lode. In alcuni Dipartimenti del mio Ateneo – vari corsi di medicina ad esempio – il «110 e lode» è diventato pressoché ‘di default’ e anche in altri settori si va nella stessa direzione.
Un fenomeno inflattivo di questa natura e portata ha l’effetto di cancellare il significato e il valore delle lauree con lode ottenute da chi davvero le merita e, in generale, di svuotare il valore legale del titolo di studio. Effetto che rappresenta una grave ingiustizia sociale e impedisce che l’impegno, lo studio, i risultati ottenuti funzionino anche da ascensore sociale. Tutti laureati con 110 e lode significa infatti nessun laureato con 110 e lode. E subentrano, inevitabili, i privilegi delle condizioni sociali e familiari di partenza.
Una prova evidente di questa perdita di valore legale e sostanziale delle certificazioni di laurea è il bando di concorso di un Premio assai interessante che l’amministrazione della città di Recoaro dedica da quest’anno a uno dei suoi ospiti più famosi: Friedrich Nietzsche.
In un’altra pagina di questo sito ho invitato a partecipare a tale concorso (l’abstract va inviato entro il 30.1.2024). Ma quali studiosi potranno partecipare al concorso? Quali sono i requisiti? Sono due: uno è l’età massima «non superiore ai 40 anni», l’altro è il «possesso del titolo di dottore di ricerca».
E infatti molti studenti hanno cominciato a capire che la laurea magistrale vale sempre meno e si presentano numerosi ai concorsi per entrare in un Dottorato di ricerca, il quale non garantisce comunque nulla né sostanzialmente né giuridicamente sul futuro, una volta conseguito il titolo. E tuttavia il diploma di dottorato viene percepito sempre più come la vera laurea, visto che quella nominale cessa di avere significato e prestigio. I posti disponibili nei dottorati sono però pochi; in ogni caso sono assai meno rispetto alle candidature. E questo produce frustrazione in chi concorre e non accede, pur avendo spesso un’ottima formazione.
Sarebbe stato del tutto naturale, in condizioni normali, aprire ai possessori di una laurea magistrale il concorso dedicato a Nietzsche. Ma tali lauree non garantiscono più l’acquisizione di solide competenze, dato che appunto vengono regalate con facilità dagli Atenei. E vengono regalate anche perché è stato il Parlamento italiano, sono i governi italiani a premere verso tale direzione. Esiste una norma infatti che penalizza Dipartimenti e Atenei che vedono iscritti molti studenti «fuori corso». Penalizza vuol dire che tali Dipartimenti e Atenei ricevono meno finanziamenti dallo Stato. La soluzione più facile per le Università è dare la laurea a tutti gli iscritti (e farlo in fretta), che essi la meritino o meno. Come ha affermato Eugenio Mazzarella, a questo punto sarebbe opportuno dare il certificato di laurea insieme al certificato di nascita (il corso ovviamente a scelta dei genitori), in modo che tutti i cittadini risultino laureati.
Il danno funzionale per la società italiana in termini di competenze dei suoi membri laureati e il danno esistenziale e collettivo in termini di giustizia sociale è enorme. Ma molti studenti e le loro famiglie continuano a festeggiare con spumante, corone d’alloro e botti il conseguimento di un titolo dal valore sempre più insignificante.
Anche questo è un modo per mantenere il corpo sociale in una condizione infantile. Tale dramma educativo conferma che si fa di tutto, davvero todo modo, per non far pensare le persone. Dalla scuola ridotta ad assistenza sociale alla televisione del tutto obbediente e menzognera, alle grandi distrazioni costituite dai social network e da casi di cronaca nera seguiti dai media per settimane e settimane, si opera allo scopo di evitare che le persone diventino libere, competenti, critiche, mature. Questo è sempre stato l’obiettivo dell’autorità ma nel presente esistono mezzi assai efficaci per raggiungerlo (ho parlato in modo più ampio e argomentato di tutto questo in un saggio del 2019 dal titolo La scuola del liberismo e la crisi delle scienze europee).
Questo il testo del bando per chi intende, e può, partecipare al concorso nietzscheano:
Primavera 1881, Nietzsche a Recoaro: la straordinaria bellezza

[L’articolo è stato pubblicato anche su girodivite.it]

Come tutti

Gustave Flaubert
Dizionario dei luoghi comuni – Album della marchesa – Catalogo delle idee chic
(Dictionnaire des idées reçues)
Trad. di J. Rodolfo Wilcock
Adelphi, 1988
Pagine 190

Lavorando a Bouvard et Pécuchet – romanzo, enciclopedia, immondezzaio – Flaubert raccolse una mole imponente di documenti, citazioni, appunti, note, da cui trasse il Dictionnaire des idées reçues. Al Dizionario questa traduzione Adelphi aggiunge altri due testi dello scrittore: un breve catalogo/riassunto delle idee chic e un terrificante Album che raccoglie numerose citazioni dolciastre e patetiche di alcuni anche ammirati scrittori francesi: da Michelet a George Sand, da Balzac a Sainte-Beuve, da Cousin ai fratelli Goncourt. Di Alfred Assolant è una delle citazioni più banali: «La bellezza era il minore dei suoi incanti; ella univa il canto dell’usignolo alla flessibilità del boa constrictor» (p. 124).
Il Dizionario di Flaubert aiuta a comprendere come e perché Emma Bovary  costituisca il suicidio del Romanticismo. L’eccesso del sentimento ci rende infatti sciocchi, incapaci di capire e di ragionare. Per Emma «pensare» – come recita la voce del Dizionario – è «increscioso. Le cose che ci costringono a farlo vengono di solito accantonate» (91).
Se Bouvard et Pécuchet costituisce il romanzo del sapere impossibile è anche perché i due scrivani sono vittime e insieme protagonisti attivi del più integrale conformismo, del luogo comune elevato a metodo, dell’omologazione al pensiero e all’etica dominanti, della rassicurazione che dà il parlare come parlano tutti, il condividere i valori sostenuti dalla maggioranza del corpo collettivo. Vale a dire di ciò che oggi trionfa  in televisione, sui giornali, nella quasi totalità delle pagine di Internet e nel moralismo totalitario che attraversa il corpo sociale.
Per contrasto e paradosso, la libertà che traspare dal Dizionario di Flaubert è invece persino lancinante. Negli sparsi frammenti vince la potenza dell’idiozia ma emerge anche la via d’uscita più immediata: la riflessione, la critica, la sobrietà, il silenzio, la distanza.
«Vedere la stupidità umana e non poter più tollerarla» (Bouvard e Pécuchet, Einaudi, p. 182) è l’impressione che a volte afferra osservando la vita, semplicemente la vita. Bisogna ammettere, con un uomo assai equilibrato e da Nietzsche sino all’ultimo venerato, che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (Jacob Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214).
Una volgarità interiore che è l’altro nome, il nome gemello, il vero nome, della stupidità.

Venerazioni

Based On a True Story
(Titolo italiano: Quello che non so di lei)
di Roman Polanski
Francia, Belgio, Polonia, 2017
Con: Emmanuelle Seigner (Delphine Dayrieux), Eva Green (Lei), Vincent Perez (Francois), Dominique Pinon (Raymond)
Trailer del film

Come tutti i sentimenti umani, anche l’ammirazione, la devozione, la venerazione possono condurre a esiti distruttivi se in essi non vige la misura. Vale per la devozione d’amore (errore assai grave essere in amore senza misura ma che amore è se si pone dei limiti, se ha delle misure?) E vale per l’ammirazione intellettuale. Di solito gli esiti si limitano alla dipendenza da un pensiero, un libro, un autore; alla ripetizione di ciò che altri fanno, scrivono, a ciò che sono; all’imitazione passiva insomma (che è assai lontana da ogni ricezione feconda).
Nella società dello spettacolo a costituire oggetto di ammirazione, devozione, venerazione sono soprattutto i morti viventi che appaiono in televisione (nella miriade di programmi spazzatura che intessono i palinsesti e che non nomino poiché non lo meritano) e gli atleti; da noi soprattutto i calciatori, gli allenatori e le loro squadre, che infatti appena cominciano ad andar male, a non essere all’altezza delle attese dei tifosi, diventano oggetto di rifiuto, disprezzo e violenza (per chi conosce il calcio, nascono allora formule come «Allegriout», «Pioliout» et similia). A volte diventano oggetto di venerazione anche degli scrittori, soprattutto narratori. E la prima reliquia da ottenere è l’autografo sui libri oggetto di stima, magari letti e riletti tante volte.
Così comincia Based On a True Story, titolo ovviamente assai più pregnante della scialba versione italiana. Comincia con una lunga sequela di persone che si rivolgono alla cinepresa con le richieste più appassionate e veneranti. Dall’altra parte della cinepresa c’è Delphine Dayrieux, autrice di un romanzo di grande successo che racconta la vita di sua madre. Tra i lettori in cerca di autografi appare anche Elle, Lei, una giovane donna educata e affascinante. Elle e Delphine si incontrano di nuovo in modi apparentemente casuali. In crisi di ispirazione e in difficoltà esistenziali, Delphine si affida sempre più alla giovane amica, che di mestiere dice di fare anche la ghostwriter, il negro, per altri scrittori e soprattutto per celebrità appunto televisive e cinematografiche. C’è qualcosa di inquietante in questa persona, qualcosa che emerge inesorabile dai racconti della sua vita, dalle sue azioni, dai suoi sguardi. L’esito sarà naturalmente una lotta mortale tra le due donne.
I thriller di Polanski sono questo. Essi accadono nel corpomente prima che nei contesti, quasi sempre del tutto ordinari; nei personaggi, anch’essi comuni; nelle trame, riferite a fenomeni ed espressioni della vita quotidiana. Perché è lì, nei corpimente, che abitano le tensioni, i desideri, la forza e l’orrore.
«Man vergilt einem Lehrer schlecht, wenn man immer nur der Schüler bleibt. Und warum wollt ihr nicht an meinem Kranze rupfen? Ihr verehrt mich; aber wie, wenn eure Verehrung eines Tages umfällt? Hütet euch, dass euch nicht eine Bildsäule erschlage!
Male si ricompensa un Maestro se si rimane sempre soltanto un allievo. E perché non volete strappare la mia corona? Voi mi venerate: ma che cosa accadrebbe se un giorno la vostra venerazione crollasse? State attenti che non sia una statua a schiacciarvi!»
(Nietzsche, Also sprach Zarathustra, parte prima, «Von der schenkenden Tugend», 3; «Della virtù che dona», 3)

Michele Del Vecchio su Disvelamento

Michele Del Vecchio
Recensione a Disvelamento. Nella luce di un virus
in Diorama Letterario n. 375 / Settembre-Ottobre 2023
pagine 39-40

«La copertina del libro che presentiamo riproduce un frammento de La Maddalena del Louvre, un quadro “notturno” di Georges de La Tour, pittore del Seicento francese di ispirazione caravaggesca, di cui ci sono pervenute una trentina di opere. La fiamma di una candela illumina di una potente luce chiara il piano di un tavolo su cui sono posati degli oggetti in forte chiaroscuro: un flagello penitenziale, una croce, due grossi volumi. Il frammento è la traduzione iconografica del titolo del volume: la luce rivela (o disvela) oggetti simbolo di un luogo, di uno spazio interno, di una presenza che avvertiamo ma che non vediamo.
L’immagine e il titolo consegnano al lettore le prime sottigliezze interpretative dell’opera: perché “disvelamento”, e perché “nella luce di un virus”? La risposta, in parte, ce la darà l’autore nel capitolo conclusivo di questa sua opera, dove si sofferma a riflettere brevemente sulle caratteristiche di quella luce che ci può illuminare nella comprensione di ciò che accade e che ci sembra inspiegabile, come è avvenuto nei primi mesi di epidemia. In quei frangenti avremmo avuto bisogno, per capire quello che stava accadendo, della “Lichtung, il lampeggiamento, lo spazio luminoso che si apre nell’oscuro di un bosco, lo svelamento dell’accadere mentre ciò che accade sembra inspiegabile”. E quella luce ci servirebbe ancora oggi».

Pascal

Blaise Pascal
Le Provinciali
(Les Provinciales, gennaio 1656-marzo 1657)
Introduzione e traduzione di Giulio Preti
Einaudi 1983
«NUE, 183»
Pagine XXIII-259

L’uso sapiente delle metafore, dell’ironia, dell’invettiva e di ogni sapienza stilistica fa di queste pagine un fluire scintillante di immagini, l’elegantissimo e insieme appassionato discorrere di un dotto. Ma solo comprendendo le ambiguità e il conflitto che albergano in questo libro famoso si può davvero apprezzare l’efficacia del pensare pascaliano.
Le contraddizioni fra l’adesione alla Chiesa Romana e la critica alle sue debolezze, tra lo scetticismo e il fanatismo, fra un’estrema serietà e una costante ironia, convergono e si annullano nel rigore del Sacro di cui Le Provinciali sono intessute. «Sant’Agostino, il più grande dei Padri» (lettera II, pag. 19) ritorna ad affrontare e a sconfiggere Pelagio e la sua idea che «un peccatore potrebbe rendersi degno dell’assoluzione senza nessuna grazia soprannaturale. Ora, non c’è nessuno che non sappia che questa è un’eresia condannata dal Concilio» (let. X, p. 114). È il pelagianesimo dei Gesuiti e del loro teologo Luis de Molina a indurre Pascal a inviare queste lettere ai responsabili della Compagnia di Gesù (pelagianesimo, tra parentesi, al quale sembra molto indulgere l’attuale Pontefice Romano, non a caso un gesuita).
Pascal è del tutto consapevole delle ragioni dei Gesuiti, del loro obiettivo ultimo: non respingere nessuno, offrire a chiunque un mezzo per salvarsi, stemperando il rigore dell’etica evangelica. La lucidità antropologica di Pascal si scontra tuttavia contro questo umanesimo e attribuisce a Dio una severità priva di incertezze:

Infatti, non vediamo che Dio insieme odia e disprezza i peccatori, fino al punto che anche nel momento della loro morte, che è il momento in cui il loro stato è più deplorevole e più triste, la saggezza divina unirà la canzonatura e il riso alla vendetta e al furore che li condannerà ai supplizi eterni? (let. XI, p. 120).

Questa radicalità di Agostino e di Pascal è stata di fatto respinta dalla Chiesa Romana in molte fasi della sua storia, certamente lo è in quella attuale nella quale la dottrina e la prassi delle gerarchie e di molti fedeli mettono in discussione gli stessi fondamenti della fede cattolica. In effetti è Molina ad aver vinto, sono i Gesuiti a continuare a vincere contro Pascal.
Al di fuori dell’ambito legato direttamente alla fede, Pascal è anche altro: su questioni di fatto e su ogni argomento non strettamente dogmatico, egli ritiene necessario non quasi ex autoritate praecipere, sed ex ratione persuadere (let. XVIII, p. 247). Il filosofo distingue nettamente i sensi, la ragione e la fede, assegnando a ciascuna di queste facoltà un proprio non valicabile ambito. Lo scienziato cita ironicamente il caso Galileo, in quanto non sarà un decreto «che proverà che la terra sta ferma» (ivi, p. 251).
La modernità di Pascal è ancora più profonda. È la convinzione illuministica e nietzscheana del valore del singolo rispetto alle masse, del potere degli illuminati sulla canaglia, del significato non democratico che inerisce alla verità quando è tale.
Una psicologia del peccatore in quanto «bambino-viziato» avvicina Pascal a Ortega y Gasset; l’analisi sociologica della massa fa pensare a una versione moralistica di Elias Canetti; il disprezzo verso tutto ciò che è umano, troppo umano, spiega la costante ammirazione di Nietzsche verso questo libro e il suo autore.

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