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L’orizzonte, il dio

Giovanni Chiaramonte. Realismo infinito
Milano  – Museo Diocesano
A cura di Corrado Benigni
Sino al 9 febbraio 2025

Già in due occasioni avevo meditato sulle immagini di Giovanni Chiaramonte (1948-2023). La prima volta  nel 2016 osservando le foto esposte al Monastero dei Benedettini di Catania: E.I.A.E. Et in Arcadia Ego. Fotografie di Giovanni Chiaramonte – Poesie di Umberto Fiori ; la seconda  nel 2017 visitando una mostra al Castello Ursino, sempre a Catania: Ultima Sicilia. Fotografie di Giovanni Chiaramonte.
Al Museo Diocesano di Milano ho ritrovato lo stesso sgomento, la stessa gioia. Lo sgomento di fronte a un’ampiezza dell’orizzonte dentro la quale gli umani si smarriscono; la gioia per l’attimo di luce che la fotografia è capace di cogliere. Nelle 40 immagini esposte a Milano gli umani e gli oggetti abitano sempre insieme, dentro gli spazi, lungo la storia. Gli spazi di Piacenza, Gela, Lisbona, Gerusalemme, Atene, Berlino, Milano, Trapani, Segesta, Geraci Siculo, Venezia. I luoghi di alcuni stati americani come Louisiana, Alabama Florida, Tennessee, California, Texas. Le piazze e gli eventi di Trinidad e Tobago, del Messico, Cuba, Panama, Turchia.
Non è soltanto nelle foto dedicate agli Stati Uniti che si percepisce la stessa solitudine dei dipinti di Edward Hopper. Ovunque infatti in queste immagini emerge l’essere soli degli umani anche quando stanno insieme. Alcune costanti dei vari continenti sono le automobili, il mare, i ponti. E tutti appaiono, insieme ai viventi, come se fossero rinati dopo un’apocalisse quasi dimenticata.
L’immagine di Chiaramonte posta in apertura si intitola Atene, Grecia ed è del 1988. Quella qui sotto ha come titolo Piacenza ed è del 1986.

Al Museo Diocesano di Milano in contemporanea con questa mostra fotografica è possibile – sino al 2 febbraio 2025, a cura di Daniela Parenti e Nadia Righi – mettersi davanti a uno dei capolavori del Rinascimento italiano, l’Adorazione dei Magi di Sandro Botticelli (1475 circa). Per quanto distanti in ogni elemento e imparagonabili, Chiaramonte e Botticelli sembrano condividere lo spazio, le rovine, gli umani in esse, i colori rosso e ocra.

Una piccola sala è dedicata al Retablo dei Magi di Jan II Borman (1460 – 1520) e del suo atelier (a cura di Paola Strada e Alessia Devitini, anch’essa sino al 2 febbraio), una scultura lignea che ha la rara qualità di aver conservato la policromia originaria, nella quale i magi sono ben nove e intorno a essi si vedono astronomi osservare il cielo, Salomé incontrare un’anziana donna, un uomo defecare. È il brulicare della vita mentre i sapienti osservano il bambino.
E al medesimo riconoscimento è dedicata un’opera originale e suggestiva: Il Presepe di carta di Francesco Londonio (1775 ca.), entrata a far parte delle collezioni permanenti del Museo milanese. Qui la tridimensionalità diventa quasi uno di quei giochi con i quali nel Novecento i bambini toccavano, toccavano davvero, il mondo.

Queste tre ultime opere sono dedicate a un mito antico, a una narrazione pagana ripresa dal racconto cristiano: il dio che si svela nelle forme apparentemente indifese ma già potenti del Puer Æternus.

Corpo / Sguardo

Venerdì 12 novembre 2021 alle 18.00 a Caltanissetta terrò una relazione sull’opera fotografica di Franco Carlisi, in particolare -ma non solo- su Il valzer di un giorno. L’evento si inserisce nell’ambito della mostra in corso presso il Museo Diocesano della città.
L’intervento ha per titolo Franco Carlisi. Il corpo come sguardo.
Il cuore profondo dell’Isola costituisce lo spazio e tempo dell’opera di Carlisi, spazio vissuto in uno dei momenti chiave della nostra identità di siciliani: il matrimonio.
Per noi il matrimonio non è soltanto la ratifica -religiosa o civile- di un legame affettivo; non è soltanto la creazione dunque di una istituzione; non è soltanto la ripetizione di un gesto antico che tutte le civiltà, pur se in modi diversi, conoscono. Per i siciliani il matrimonio è lo squadernarsi di un’antropologia.
L’opera di Carlisi trasforma l’intera corporeità in uno sguardo che esprime festa, narcisismo e potenza, che sia il corpo degli sposi, il corpo di coloro che guardano gli sposi, il corpo del fotografo diventato il suo sguardo che coglie, vede, trasmette e documenta l’anima dei siciliani, la solitudine, la malinconia, il nulla. Dentro la festa.

«Movimento, ritmo, spazio»

Inge Morath
La vita. La fotografia

A cura di Brigitte Blüml-Kaindl, Kurt Kaindl, Marco Minuz
Museo Diocesano – Milano
Sino al 1 novembre 2020

Un lungo video, un vero e proprio film di Sabine Eckard, racconta Inge Morath (1923-2002) tornata a New York nel 1991 insieme al marito Arthur Miller. Dalle parole, dai gesti, dalla narrazione emerge la personalità vivace di questa artista, per la quale la fotografia è veicolo di comprensione antropologica ed etnologica. Segnale evidente è il suo voler apprendere e parlare le lingue dei popoli e dei luoghi che fotografa, compreso il russo e il mandarino.
Dalla Venezia quotidiana e povera del 1955 al lama che si sporge in un taxi a New York, dalla stanza da letto che fu di Tolstoj ai beduini che danzano, gli spazi disegnano sempre un equilibrio che trasmette fiducia nelle società umane, nonostante tutto. I ritratti di Malraux, Giacometti, Monroe, Steinberg, Calder, Neruda, Stravinsky, Roth, Pinter e tanti altri, sono sempre intrisi di gioco oltre che di psiche e di mondo. Il bianco e nero dell’Agenzia Magnum, con la quale Morath collaborò a lungo, è parte della storia della fotografia come lavoro da artigiani a caccia dell’istante. Ma non è soltanto storia, società, persone. È anche e sempre forma. Morath consigliava infatti di capovolgere l’inquadratura dei negativi come modo per verificare l’equilibrio e la forza dell’immagine, che diventa così del tutto astratta, pura forma appunto.
Perché la fotografia, dice in un’intervista, è «una combinazione di movimento, ritmo e spazio». Il movimento senza fine degli eventi, il ritmo irreversibile del tempo, lo spazio come puro istante, ancora tempo

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