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«Sator Arepo Tenet Opera Rotas»

Tenet
di Christopher Nolan
USA, 2020
Con: John David Washington (Il Protagonista), Elizabeth Debicki (Kat), Kenneth Branagh (Andrei Sator), Robert Pattinson (Neil), Dimple Kapadia (Priya)
Trailer del film

Un palindromo è il titolo di questo film, vale a dire una parola che può essere letta in entrambe le direzioni. In questo caso è la parola che sta al centro di un’espressione anch’essa palindroma: «Sator Arepo Tenet Opera Rotas». Frase che compone un ‘quadrato magico’ le cui parole possono essere lette non soltanto da destra/sinistra e sinistra/destra ma anche dall’alto in basso e dal basso in alto. Il significato di questa frase è oscuro ma è chiaro che essa è in ogni caso emblema della reversibilità, del poter tornare di tutte le parole e le cose in un ordine esattamente inverso rispetto a quello nel quale si sono presentate.
Se del Protagonista del film si sa soltanto quello che fa e mentre lo fa, Sator è il nome del nemico contro il quale lotta. Un nome che in latino significa colui che semina, coltiva e recide, probabilmente Saturno, Κρόνος, il Tempo. Arepo è nel film il nome di un mercante d’arte che produce dei falsi di Goya ed è un hàpax, una parola presente soltanto nel Quadrato, forse da ἅρπη, vale a dire la roncola, la falce del contadino, del Tempo. Tenet è il verbo –‘guida’, ‘conduce’–. Opera è probabilmente espressione avverbiale –‘con cura’–. Rotas, le ruote, il carro, gli eventi, l’accadere. Le parole possono essere lette in altri modi e ordini, a indicare altri significati. Ma il senso forse più compiuto (e interessante) è qualcosa come ‘il tempo con la sua falce guida in modo necessario gli eventi’.
Ciò che conta, nel film come nel Quadrato, è la reversibilità. Tenet è qui una parola d’ordine «che apre molte porte, alcune delle quali sbagliate», della quale il Protagonista scopre a poco a poco significato e potere durante la sua lotta ‘all’ultimo secondo’ con Sator. La guerra che il film narra non riguarda il controllo di uno spazio ma il dominio del tempo. Nel nostro mondo si sono introdotti infatti ‘oggetti invertiti’, che capovolgono il Secondo principio della termodinamica e fanno sì, ad esempio, che i proiettili non vadano dalla pistola al bersaglio ma dal bersaglio alla pistola. Nel contatto tra enti ed eventi che vanno dal presente al futuro e quelli che accadono dal futuro al presente succede naturalmente di tutto. L’inversione è stata scoperta/voluta in un futuro indeterminato, dal quale gli umani futuri intendono influenzare il passato allo scopo di…Questo, naturalmente, non lo posso dire ma posso aggiungere che l’intero film è un’illustrazione di ciò che in fisica e metafisica si chiama ‘il paradosso del nonno’ e che è ben presente anche in un film del tutto diverso come Ritorno al futuro: se i viaggi nel tempo fossero davvero possibili, che cosa accadrebbe se una persona uccidesse il proprio nonno? Come potrebbe questa persona esistere se il nonno viene ucciso prima di generare il padre di colui che lo uccide?
Una risposta a questo paradosso non esiste, nonostante molte siano state tentate (alcune delle quali sono discusse in I viaggi nel tempo. Una guida filosofica di Giuliano Torrengo) e tutto il film è una prova, probabilmente involontaria, della irreversibilità assoluta del divenire. Gli eventi che in Tenet accadono sono infatti talmente assurdi -nonostante il talento che ha Nolan nel cercare di renderli in qualche modo plausibili- che dalla sua visione si può trarre una conclusione tanto semplice quanto fondamentale: se il tempo fosse reversibile le conseguenze sarebbero così insensate, bizzarre, irrazionali e aberranti da rendere impossibile l’esistenza delle cose; dato che invece noi e tutto il resto esistiamo, questo conferma l’irreversibilità del tempo e la verità del Secondo principio della termodinamica.

Nessuna paura comunque: Tenet non è un film noioso o cerebrale. Qui ho solo cercato di esplicitare (pur se sinteticamente) i fondamenti e le intenzioni filosofiche del film, che sono profonde, che lo rendono un’opera molto significativa e che confermano gli interessi metafisici di Nolan, ben chiari già da Memento [2000], passando per Insomnia [2002], The Prestige [2006], Inception [2010], Interstellar [2014], Dunkirk [2017]. Alcuni di questi film non sono all’altezza dell’ambizione. Tenet è invece un’opera di grande coinvolgimento, capace di coniugare la complessità filosofica con il puro spettacolo. E lo fa con lo strumento proprio del cinema, il Montaggio. Che in Tenet è (quasi) tutto, visto che è la teoria e tecnica del montaggio a rendere possibile la concepibilità stessa e la realizzabilità pratica di un film nel quale gli eventi accadono spesso in modo invertito, dal futuro al presente, dall’effetto alla causa, dal poi al prima.
La coppia filosofia/intrattenimento è molto difficile da incarnare e il Maestro di quest’arte è naturalmente Kubrick. Nolan pende sempre verso lo spettacolo ma qui perviene alla sostanza stessa del mondo, al Destino: «Sator Arepo Tenet Opera Rotas».

Il teatro della storia

L’ultimo metrò
(Le dernier métro)
di François Truffaut
Francia 1980
Con: Catherine Deneuve (Marion Steiner), Gérard Depardieu (Bernard Granger), Heinz Bennent (Lucas Steiner), Andréa Ferréol (Arlette Guillaume), Jean-Louis Richard (Daxiat), Sabine Hadepin (Nadine Marsac)
Trailer del film

Nella Parigi occupata dall’esercito tedesco la compagnia del Théâtre Montmartre cerca di recitare ancora dopo la fuga apparente del proprio direttore, l’ebreo Lucas Steiner. Mentre sua moglie continua a dirigere il teatro, dagli eventi emerge la resistenza che l’arte sempre rappresenta verso la legge del più forte. I sentimenti privati si coniugano alla vicenda collettiva, la nostalgia percorre un tempo nel quale le donne appaiono leggiadre ed eleganti anche nel pieno della catastrofe, la finzione del cinema si sovrappone a quella del teatro e della storia.
Nel narrare apparentemente e anche sostanzialmente classico di questo film, François Truffaut introduce sempre lo scarto di una tensione che non si limita agli eventi ma diventa domanda sul loro senso. E soprattutto costruisce magistralmente un montaggio che è la natura stessa del cinema. I colori saturi trasformano il film in una fiaba. E anche l’algida bellezza della trentenne Catherine Deneuve è quella di una favola.

La carne umana

Dunkirk
di Christopher Nolan
USA, Gran Bretagna, Francia 2017
Con: Fionn Whitehead (Tommy), Aneurin Barnard (Gibson), Jack Lowden (Collins), Tom Glynn-Carney (Peter), Mark Rylance (Dawson), Kenneth Branagh (comandante Bolton)
Trailer del film

La carne umana, come quella di ogni altro vivente, fa di tutto per esistere ancora, per superare gli scogli del tempo e approdare ogni volta all’istante che viene. Durante un’operazione di guerra questo istante, che è sempre precario anche in pace, diventa il tesoro da rabbiosamente difendere rispetto agli eventi e ad altra carne. Che vuole vivere anch’essa. Il tempo si contrae e si dilata in relazione alla possibilità di morire che il corpomente sente avvicinarsi o allontanarsi per lasciare ancora spazio agli eventi. Da tale intuizione, o da qualcosa di analogo, un cultore del tempo come Christopher Nolan in questo film ha tratto tre ritmi.
La spiaggia dura una settimana e raffigura centinaia di migliaia di soldati inglesi e francesi stretti da ogni parte dal ‘nemico’, che li spinge verso il mare e li colpisce dal cielo. Le riprese dall’alto della grande battigia ricordano a volte quelle di Ivan il terribile di Ėjzenštejn
Il molo dura un giorno e descrive i preparativi e l’andare delle barche civili britanniche, sequestrate per portare salvezza ai soldati in trappola al di là della Manica. Il viaggio circadiano si dilata a ritmi più lunghi, a quanto sulla spiaggia precede l’arrivo.
Il cielo dura un’ora ed è la battaglia aerea tra i caccia tedeschi che colpiscono il facile bersaglio sul mare e sulla riva e i velivoli inglesi che cercano di evitare la strage.
L’ambizione ancora una volta assai grande di Nolan è fondere questi tre tempi in uno soltanto. E qui ci riesce, trasmettendo l’energia, l’angoscia, la disperazione, l’immensa tenacia della carne in guerra che non vuole morire e fa di ogni istante il piolo al quale aggrapparsi per salire ancora la vita.
Strumento di tale riuscita è naturalmente il montaggio, cuore e significato del cinema stesso, che dunque si mostra in Dunkirk per quello che è sempre: tempo in immagini e per ciò, come intuisce Deleuze, immagine-movimento.
Quasi sino alla fine il film è questo: pura e magnifica tecnica visiva al servizio di un pensiero profondo. Negli ultimi venti minuti, hélas, si trasforma invece in una banale opera di propaganda patriottica, arrivando a citare ampiamente un discorso di Winston Churchill, della cui gesta a Dresda (13-15 febbraio 1945) aspettiamo ancora che un regista abbia il coraggio storico e civile di parlare, dopo che lo ha fatto Céline: «Parlano mai, ed è un torto, come che i propri fratelli loro, furono trattati arrostiti in Germania sotto le grandi ale democratiche… c’è ritegno, non se ne parla… avevano solo da non stare lí!… è tutto!» (Da un castello all’altro, in «Trilogia del Nord», trad. di G.Guglielmi, Einaudi 2010, p. 205).
«Avevano solo da non stare lí» è quello che certamente passa per la mente dei soldati inglesi a Dunkirk nel maggio del 1940 mentre fanno di tutto per non rimanere più lì, al cospetto della «Furia, del Tumulto, della Morte funesta» (Iliade , XVIII, 535; trad. di G.Cerri, Rizzoli 2003), non rimanere un’ora di più dentro la guerra che dà «a tutti un tremore […] / e si studiava ognuno da che parte sfuggire a morte immediata» (Il., XIV, 506-507).
A dominare ogni istante sono «il lamento e il tripudio degli uomini / che uccidevano ed erano uccisi, grondava di sangue la terra» (Il., IV, 450-451 e VIII, 64-65). Qui gronda di sangue e di carne anche il mare.

La mente, il cinema

Le mépris
(Il disprezzo)
di Jean-Luc Godard
Francia, 1963
Con: Michel Piccoli (Paul Javal), Brigitte Bardot (Camille Javal), Jack Palance (Jerome Prokosch), Fritz Lang (se stesso – il regista), Giorgia Moll (Francesca Vanini), Linda Veras (la sirena)
Trailer del film

«Il nuovo film tradizionale» di Jean-Luc Godard è tornato nelle sale cinematografiche dopo essere stato restituito al suo autore, reintegrato nelle scene, nella colonna sonora, nella varietà delle lingue (francese, inglese, italiano) che la produzione di Carlo Ponti aveva modificato o cancellato sino a distruggerne il significato e a indurre Godard a ritirare la propria firma dall’opera.
Un film che riassume l’εἶδος del cinema, la sua natura, la sua essenza. Che è natura mentale, costruita non sulle riprese ma sul montaggio (come Ėjzenštejn ha mostrato in Teoria generale del montaggio e nell’intera sua opera), vale a dire sul modo in cui la mente umana si muove tra i paesaggi delle proprie ombre, ricordi, idee, figure. Con repentini passaggi, scarti, angosce, brame, sofferenze, euforie, amarezze. E soprattutto con la consapevolezza costante anche se taciuta della propria morte.
Di questa essenza mentale del cinema, Le mépris è una delle incarnazioni più perfette che conosca. La vicenda è tratta da un romanzo di Alberto Moravia, dedicato a uno sceneggiatore incaricato di riscrivere l’Odissea. La bellissima moglie dello scrittore diventa ben presto l’obiettivo del produttore del film. Relazione alla quale il marito non sembra opporsi e da qui nasce il disprezzo della donna verso di lui.
A girare l’Odissea rivisitata è Fritz Lang, che interpreta se stesso con profonda ironia ed eleganza. La vicenda si svolge prima a Cinecittà e poi nella splendida villa di Curzio Malaparte a Capri. L’eros degli affreschi di Pompei intrama le scene. Sullo sfondo le locandine di alcuni dei film più importanti della storia del cinema e dell’epoca. E soprattutto a vegliare sull’opera, sulla vita, sulla mente, stanno gli dèi greci, colorati, potenti e distanti come sempre sono stati.
Magnifiche le due scene iniziali. La prima è costituita dai titoli di testa, che vengono non scritti sullo schermo ma letti da due voci recitanti. La seconda vede Paul e Camille a letto, lei nuda in tutto il suo splendore mentre elenca le parti del proprio corpo e chiede al marito se gli piacciono. Un nudo parlato, quindi, prima ancora che visto. Da qui la mente/cinema inizia a muoversi lungo il mito, la banalità, le passioni, la violenza, la forma, la solitudine, il segreto, l’istante, il sempre. Sino all’inevitabile conclusione della vita e dell’opera umane.
Il trailer è un piccolo capolavoro, come un capolavoro è tutto il film, la cui epigrafe recita: «Le cinéma substitue à notre regard un monde qui s’accorde à nos désirs». È ciò che vorrebbe fare anche la nostra mente.

Bresson / Schopenhauer

Au hasard Balthazar
di Robert Bresson
Francia-Svezia, 1966
Con: Anne Wiazemsky (Marie), François Lafarge (Gerard), Walter Green (Jacques), Philippe Asselin (Padre di Marie), Nathalie Joyaut (Madre di Marie)

Battezzato con il nome di Balthazar dai suoi padroncini, un asino attraversa la vita in un borgo e nelle campagne francesi. Il suo occhio oggettivo assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza,  insensatezza, malvagità. Al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. Il legame più costante di Balthazar è con Marie, una ragazza altrettanto sola e perduta, e con Arnold, un ubriaco che lo picchia e che qualche volta lo protegge.
Ciò che segna questo capolavoro è l’assoluta sobrietà dello sguardo cinematografico, l’oggettività degli eventi -come un piano inclinato, come una legge della materia che va da sé, senza volontà di alcuno-, la sapienza del montaggio capace di trasformare in pensiero un qualunque fotogramma. Il mondo degli esseri umani vi viene descritto per quello che è, per quello che è sempre stato, per quello che sempre sarà: un mondo perduto.
E soprattutto vi appare la distanza e la vicinanza tra l’umano e l’altro animale. Distanza nell’essere l’altro animale libero dal male libero dal bene. Vicinanza nella sciagura che per l’animale rappresenta l’incontro con l’umano.
Proiettato qualche giorno fa al Centro San Fedele di Milano, al film è seguita l’analisi di un filosofo cattolico. Il quale ha accentuato la simbologia cristologica dell’asino -certamente presente in Bresson- ma che ha quasi con disprezzo respinto la dimensione anche animalistica dell’opera. Non c’è niente da fare, ha ragione Schopenhauer:

Si guardino invece le atrocità inaudite che nei paesi cristiani la massa commette contro gli animali, ammazzandoli, ridendo e spesso senza nessuno scopo, mutilandoli e torturandoli, e perfino quando si tratti di animali che direttamente procurano il pane all’uomo, come i cavalli, che anche in vecchiaia vengono strapazzati fino all’estremo delle forze, perché si cerca di tirare l’ultimo midollo dalle loro povere ossa, finché non crollano sotto le bastonate del padrone. In verità verrebbe da dire che gli esseri umani sono i diavoli sulla terra e le bestie le anime torturate. Queste sono le conseguenze di quella ‘scena di insediamento’ nel giardino del paradiso. Infatti soltanto la violenza o la religione possono avere influenza sul volgo: ma per quello che riguarda gli animali il cristianesimo ci pianta vergognosamente in asso. […] Non già pietà, ma giustizia si deve all’animale.
(Parerga e Paralipomena tomo II, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, pp. 488-489)

Queste parole potrebbero ben costituire una summa di Au hasard Balthazar. Le ragioni del vero e proprio accanimento teoretico e pratico del cristianesimo e della sua teologia contro la Natura, e in particolare contro il mondo animale, sono chiare. Esse affondano nell’antropocentrismo biblico, in una cosmologia che fa dell’essere umano il senso e il padrone dell’universo, in una teologia convinta che persino il Dio si sia fatto uomo e sia morto per la nostra specie, in una escatologia che riserva a tutto ciò che non è umano un solo destino: la nientificazione. Sono altri i miti e le religioni che possono aiutarci a riconoscere nello sguardo dell’animale, nell’occhio di Balthazar, un’alterità senza la quale è l’umano a essere niente.

Cinema / Montaggio

Un’ora sola ti vorrei
di Alina Marazzi
Italia, 2002
Con: Luisella Hoepli
Trailer del film

Un-ora-sola-locandinaTra i seminari organizzati dal Med Photo Fest 2013 quello di Stefania Rimini è stato dedicato al cinema di Alina Marazzi. Occasione propizia per conoscere un film drammatico e magnifico come Un’ora sola ti vorrei. Un’opera che assembla, trasfigura e dà senso ai filmati che la famiglia Hoepli ha raccolto dagli anni Trenta del Novecento. La regista è infatti figlia di Luisella Hoepli, una donna molto bella e profonda, che si tolse la vita quando Alina era ancora bambina. Una donna dallo sguardo intensissimo, severo e insieme candido, sorridente e doloroso. Ma una donna che si sentiva inadeguata. Un senso di colpa oscuro e pervasivo la nutriva, alimentato dal sostanziale disprezzo del padre per lei. La diagnosi di depressione equivaleva negli anni Sessanta a quella di follia. Ricoverata in una clinica psichiatrica svizzera, Luisella scriveva lettere struggenti e lucidissime alla famiglia, implorava il marito di tirarla fuori da quel manicomio di lusso perché «se non voglio impazzire, devo uscire da qui».
Un’ora sola ti vorrei è puro cinema perché è puro montaggio. Ore e giorni di girato sono condensati da Marazzi in una scansione che evita ogni piatta cronologia e si fa espressione di una vita densa, breve e tragica. Ma colma di un pensiero sempre consapevole di se stesso e del proprio dramma.
Stefania Rimini ha premesso alla visione del film l’analisi del pensiero di Roland Barthes sull’assenza, la madre, il tempo, sulla fotografia come istante di incrocio di queste dimensioni della vita. La maternità ricevuta e data sta infatti al centro dell’esistenza di Luisella Hoepli. Essere riuscita a dare conto del plesso di morte e maternità evitando ogni caduta melodrammatica e intimistica è il grande merito della regista. Nonostante la dolorosa vicenda che narra, è un film lieve. Come lieve voleva essere al mondo la sua protagonista.

 

Potëmkin

La corazzata Potëmkin
di Sergej Ejzenštejn
Montaggio di Sergej Ejzenštejn, con l’assistenza di Grigorij Aleksandrov
URSS, 1925
Con l’esecuzione della Fantasia per pianoforte e orchestra di Rossella Spinosa
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Rossella Spinosa – Pianoforte
Alessandro Calcagnile – Direttore
Teatro Dal Verme – Milano – 11 settembre 2013

La musica di Rossella Spinosa ha accompagnato, invisibile e dunque rispettosa, l’esecuzione di questo capolavoro. Esecuzione delle immagini, sì, e non soltanto delle note. La corazzata Potëmkin è infatti musica per gli occhi. La narrazione dell’ammutinamento dei marinai a Odessa nel 1905 è soltanto un pretesto ideologico tramite e al di là del quale Ejzenštejn ha inventato il cinema. Il quale non è costituito da un fluire di immagini ma da un fluire di immagini montate secondo l’intenzione, il criterio e gli obiettivi dell’autore. Il cinema è montaggio. È questo, soprattutto questo, che fa la differenza tra un qualunque filmato che riprende un avvenimento e il cinema. Il quale è dunque idea, forma, invenzione.
Per poter comprendere il significato assoluto dell’opera di Ejzenštejn bisogna pensare a che cosa fosse il cinema nel 1925 e a che cosa sia questo film: chiaroscuri, primi piani improvvisi e contorti, riprese in parallelo, ombre, controcampi, scene di massa rigorose elegantissime e imponenti. Una pura costruzione estetica che non documenta nulla ma è invece intrisa di un vero e proprio furore della sperimentazione, di un desiderio di andare sempre al di là dell’illusione storica e realistica, portando invece alla luce i simboli profondi e le geometrie della mente collettiva. Non a caso, dopo l’iniziale sostegno, il potere sovietico e stalinista pose l’artista sotto stretto controllo, sino a far bruciare parte di una sua opera.
A novant’anni di distanza La corazzata Potëmkin rimane una delle testimonianze più efficaci dell’ammutinamento che la forma rappresenta rispetto a qualunque ordine.

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