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Warburg

L’«antico» come dispositivo psichico collettivo
il manifesto
5 gennaio 2023
pagina 11

Il contributo di Aby Warburg alla cultura contemporanea e alla comprensione dell’antico consiste prima di tutto nell’avere infranto ogni barriera accademica e ogni confine disciplinare, aprendo il sapere a sentieri intricati e interrotti ma fecondi, capaci di condurre nel cuore della grecità e nel nucleo del presente attraverso non soltanto libri, analisi, saggi e conferenze ma con l’invenzione di una Biblioteca dalla struttura e dalle intenzioni completamente inedite, una vera e propria «macchina per studiare».
Forse per ragioni di spazio l’articolo uscito sul manifesto manca delle poche righe conclusive, che trascrivo qui:
E in questo modo [Warburg] ha reso plurali il Classico, il Rinascimento, i Greci, gli europei, ha moltiplicato il dionisiaco nei saperi e nel tempo. Warburg è diventato ciò che studiava. E questo rappresenta il culmine della conoscenza.

Una cosmologia sacra

Machu Picchu e gli Imperi d’oro del Perù
In mostra 3000 anni di civiltà dalle origini agli Inca
Mudec, Museo delle Culture – Milano
A cura di Ulla Holmquist e Carole Fraresso
Sino al 19 febbraio 2023

Dal XIII secolo a.e.v sino al 1526 dell’e.v. alcune raffinate e potenti civiltà si susseguirono negli aspri e ricchi territori delle Ande, dalle vette che arrivano a 6000 metri sino alle pianure e alla costa. Al culmine della sua espansione l’impero Inca si estendeva per migliaia di chilometri, dal Perù all’Ecuador occidentale, alla Bolivia, al Cile, all’Argentina centro-occidentale. Lo abitavano 12 milioni di persone, di molteplici e disparati gruppi etnici.
Furono uomini e comunità in profondo accordo con i due elementi che soli possono dare senso alla parzialità umana: gli altri animali e gli dèi. Per i popoli delle Ande tutti gli enti si distribuiscono nei tre mondi che formano l’intero.
Nel mondo superiore, al di là delle cime e delle nuvole, abitano gli dèi.
Gli umani stanno in un qui e ora continuamente cangiante e per sopravvivere devono impetrare l’aiuto divino trasformando continuamente se stessi e gli altri animali in elementi sacri. Cosa che soltanto il sacrificio, solo la morte, può realizzare. I riti, i combattimenti, le feste, i funerali, hanno dunque sempre al centro il sacrificio umano, compreso quello di guerrieri – e quindi membri dei gruppi dominanti – che si sfidano e i cui perdenti si offrono senza incertezze alla morte rituale. L’obiettivo e il senso di tutto questo è infatti che la Terra continui a vivere, con le sue piogge e la sua fecondità, e che il Sole continui a splendere. Anche la morte degli altri animali non avviene nelle anonime e terribili catene di montaggio dei macelli contemporanei ma dentro la gloria della Terra e del Sole.
Nel mondo inferiore abitano gli avi, i morti, coloro che rimangono sempre presenti sia con i loro corpi disseccati e non putrefatti sia dentro la memoria dei vivi.
Si tratta dunque di un universo verticale, il cui strumento sono i gradini – gradini di ogni forma, natura e simbolo – che li attraversano e li uniscono.
Queste civiltà sono animaliste, in un senso assai più profondo rispetto all’attuale significato di tale parola. Gli altri animali infatti esistono, vivono e respirano in totale continuità con l’animale umano. Gli sciamani, incaricati di viaggiare tra la terra, gli inferi e il cielo, diventano felini, giaguari, cervi, serpenti.

«Vedendoci come dei non-umani, è loro stessi (e i loro rispettivi congeneri) che gli animali e gli spiriti vedono come degli umani: si percepiscono come (o diventano) esseri antropomorfi quando sono nelle loro case o nei loro villaggi, e imparano i loro comportamenti e le loro caratteristiche sotto un aspetto culturale: percepiscono il loro cibo come un alimento umano (i giaguari vedono il sangue come la birra del mais, gli avvoltoi vedono i vermi della carne putrefatta come pesce grigliato, eccetera); vedono i loro attributi corporei (pelame, piumaggio, unghie, becchi, ecc.) come ornamenti o strumenti culturali; il loro sistema sociale è organizzato come delle istituzioni umane (con capi, sciamani, metà esogame, riti…) […]. Tutti gli animali, assieme ad altri componenti del cosmo, sono delle persone, intensivamente e virtualmente, perché ognuno di loro può rivelarsi essere (o trasformarsi in) una persona»
(Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale,  trad. di M. Galzigna e L. Liberale, ombre corte, Verona 2017, pp. 43-44).

Questo vortice antropologico ha la sua espressione anche nel moltiplicarsi delle forme che decorano i manufatti, gli oggetti, le produzioni degli Inca: spirali, geometrie, interi cicli narrativi dentro un vaso. Cicli che hanno come protagonista Ai Apaec, l’uomo-dio il cui destino è simile a quello di Eracle.

(Foto di Enrico Moncado)

E soprattutto hanno come protagonisti gli dèi, i quali si uniscono agli umani, come fa la madre terra fecondata in un coito appassionato, e mostrano la vagina, il pene, gli organi e le forze dalle quali sgorgano i viventi e i loro simboli.

(Foto di Enrico Moncado)

Animisti ed eraclitei, questi umani esprimono una forza arcaica, ancestrale, splendente e crudele, fatta di iniziazioni assai dure, che escludono gli inadatti alla vita. Esattamente l’opposto dell’occidente contemporaneo, declinante e tremebondo, che cerca di risparmiare ogni anche pur piccolo ‘trauma’ ai suoi cuccioli, rendendoli in questo modo delle nullità inadatte al travaglio del negativo. E, a proposito di dissoluzioni, pur con tutta la loro violenza queste civiltà non poterono resistere alla ferocia dei cristiani, una delle più implacabili che la storia umana abbia visto.
Come emblema e sineddoche di tanto pensiero sta la città sacra di Machu Picchu (1450-1572), che si vede in apertura di questo testo.
Antropologia? No, cosmologia. Il Sole, la Via Lattea, il Sacro.

Per le differenze

Alain de Benoist
L’impero interiore
Mito, autorità, potere nell’Europa moderna e contemporanea
(L’empire intérieur, 1995)
Trad. di Debora Spini e Marco Tarchi
Ponte alla Grazie, 1995
Pagine 188

Complessi, ritornanti, rizomatici sono i percorsi della storia umana, delle comunità che la vivono, delle idee che la plasmano. Dissolti in Europa gli imperi dopo la Prima guerra mondiale, in particolare con i trattati di Sèvres e di Versailles, l’idea di nazione sembrò vincere e trionfare. In effetti essa ha guidato e costituito la storia contemporanea. Ma se nel XIX la nazione avanzò sullo slancio giacobino e napoleonico – eredi del centralismo delle monarchie assolute, in particolare di quella di Luigi XIV -, nel Ventesimo e Ventunesimo secolo essa sta mostrando sempre più la propria natura oppressiva e reazionaria, non solo nei regimi totalitari dell’Italia fascista e della Germania nazionalsocialista ma anche nell’imperialismo degli Stati Uniti e delle burocrazie europeiste, le quali non condividono nulla dell’idea imperiale, rimanendo invece «nazioni che cercano solamente di dilatarsi attraverso la conquista militare, politica, economica o di altro genere, sino a giungere a dimensioni che eccedono quelle delle loro frontiere del momento» (p. 165). Esempio massimo sono gli USA, che operano indefessamente al fine di «convertire l’intero mondo in un sistema omogeneo di consumo materiale e pratiche tecno-economiche» (166).
L’imperialismo contemporaneo è da ogni punto di vista l’opposto del principio e della struttura imperiali come emergono, ad esempio, nell’Impero romano fondato su un riconoscimento e un rispetto pervasivi delle autonomie locali e delle differenze ideali: di costume, di lingua, di religione. Quest’ultimo elemento costituisce un fattore di civiltà che i monoteismi hanno combattuto, calunniato, dissolto: «L’Impero romano non si richiama a divinità gelose. Ammette quindi gli altri dei, famosi o sconosciuti, venerati dai popoli che riunisce. La tolleranza religiosa è la norma, come del resto in tutto il mondo antico» (145).

Il mito dell’impero si fonda per de Benoist nell’impero del mito. A quest’ultimo è dedicata la prima e densa parte del volume. Attraverso un’ampia disamina filosofica e storica, si argomenta la tesi per la quale «Mythos e Logos sono termini assolutamente interscambiabili» (11), tanto che molte ricerche contemporanee in settori disparati – antropologia, letteratura, filosofia, religioni, logica – mostrano la razionalità del mito. Tra gli studiosi più noti, Kurt Hübner e James Hillman. Il primo sostiene che «il mito, lungi dall’essere ‘irrazionale’ possiede al contrario la sua propria razionalità. […] L’uomo non sperimenta mai il mondo direttamente: ogni sua esperienza, compresa quella scientifica, è necessariamente mediata da un universo mentale significante. Il mito quindi forma la struttura di questo universo e niente può dimostrare che questa struttura sia meno legittima di quella proposta dalla scienza» (62-63); da parte sua, Hillman vede nella «ragione solo un’espressione particolare del mito» (63).
Il mito va molto al di là del religioso e dell’etico. Il dominio sempre più pervasivo e soffocante della morale nel nostro tempo rappresenta un sostituto assai povero di comportamenti che sono di per sé misurati poiché regolati su una misura non soggettivistica, non psicologica, non normativa. Questa misura scaturisce non dal religioso o dall’etico ma dal sacro, che è un legame profondo e immediato con la materia come κόσμος, come totalità e dunque come continuità misurata dell’umano rispetto all’intero del quale è parte. Si tratta del contrario della ὕβρις, della dismisura escludente e individualistica diffusa nel mondo mediterraneo dai monoteismi, in particolare da quello cristiano: «Il mondo a questo punto non può più essere intrinsecamente il luogo del sacro. La relazione immediata non è più quella fra l’uomo e la totalità del reale, ma una semplice relazione con qualcun altro, che associa dei soggetti ormai separati» (36).
Monoteismi che a loro volta costituiscono il frutto e insieme il rafforzamento di alcuni elementi del tutto desacralizzanti: «l’individualismo (anima individuale, salvezza individuale), la dissociazione inaugurale nel dualismo dell’essere creato e dell’essere increato, il rifiuto del tempo circolare o ciclico e l’adesione ad una concezione della storia unilineare e vettoriale» (35).
La dimensione sacrale e mitica, invece, è intessuta di una ripetizione che implica sempre la differenza. E «in questo sta il senso di ogni metafora cosmica, fondata sul regolare alternarsi di opere e giorni, delle età e delle stagioni. Il ritorno periodico della primavera è il ritorno di una forma, ma non di un contenuto: è sempre la stessa stagione, ma è sempre un’altra primavera. L’immagine chiave, in questo caso, non è tanto il cerchio quanto la spirale o la sfera, poiché la possibilità di superare nasce dalla stessa ripetizione; e la rigenerazione del tempo nasce dal ricorso a ciò che è al di là del tempo» (25).
Il principio imperiale ha soprattutto questo in comune con l’ontologia mitica: un gioco senza fine di Identità e Differenza, per il quale che si tratti di dèi o di umani «l’identità degli altri, lungi dall’essere una minaccia per la nostra identità, fa parte di ciò che permette a tutti noi di difendere le nostre rispettive identità contro il sistema globale che cerca di ucciderle» (175).

L’Europa, luogo e spazio di origine di queste dinamiche, potrà sopravvivere alla sua sempre più evidente insignificanza politica e geostrategica soltanto se rispetterà le differenze tra i popoli e le comunità che la compongono e l’identità della loro storia mediterranea, se saprà dunque «tornare nella luce del mito» (74), nel chiarore della filosofia greca.

Eschilo

Eschilo, il fondamento
in Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo
Volume 5 – 2022
Pagine 3-17

Indice
-Radice e fondamento
-Il nomos della terra
-La terra invisibile
-La terra ospitale
-Mortali
-Distruzione e fondazione

Abstract
The paper traces the tragedies of Aeschylus in chronological order, trying to show the founding nature of Mediterranean and European civilization. In Aeschylus, in fact, human energy and inevitable fate, Law and Horror coexist. This is one of the most illuminating explanations of human existence.

In questo saggio ho tentato di andare alle radici e al fondamento della civiltà europea, di cogliere la potenza dell’elemento sacro nella formazione delle comunità umane e nello stesso tempo capire come sia potuto accadere che un piccolo territorio del mondo, prima la Grecia e poi l’Europa intera, si sia affrancato dalla mescolanza assai rischiosa di religione e diritto,  abbia fatto della storia la vibrazione delle vite individuali e di queste vite il senso stesso dell’accadere storico.
Le tragedie di Eschilo (525–456 a.e.v.) permettono di esplorare tale plesso fondativo. Esse ci offrono un dono necessario per capire a fondo la nostra identità e dunque per conservarla e con essa garantire la costanza delle molteplicità su un pianeta e in un tempo che si declinano in forme sempre più monocordi, in espressioni sempre più uniformi, in manifestazioni che in realtà nascondono la profondità delle questioni a favore dello scintillante nulla dello spettacolo.
Spettacolo, certo, sono i testi di Eschilo destinati alla scena. Ma sono uno spettacolo totale e profondo, nel quale la complessità degli eventi e delle anime non si perde. Anzi si raggruma, esprime e trionfa.

Nel numero 5 della rivista/libro Mondi è apparso anche un ampio e denso saggio (pp. 45-67) di Enrico Moncado dal titolo: Note sulla «Einleitung in die Phänomenologie der Religion» di Martin Heidegger.

Sulla scienza

Paul K. Feyerabend
CONTRO IL METODO
Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza
(Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, 1975 by NBL)
Trad. di Libero Sosio
Prefazione di Giulio Giorello
Feltrinelli, 2021
Pagine 263

Contro il metodo è uno dei libri più argomentati che siano stati scritti a favore della conoscenza, a chiarimento della sua natura, a difesa del suo progresso, a spiegazione del suo statuto. Un libro pervaso dalla  consapevolezza che una solida e reale acquisizione di conoscenza è possibile, pensabile e praticabile dove si dà libertà metodologica, dove si permette un pluralismo di itinerari, dove a essere rifiutati sono soltanto i dogmi di qualunque natura.
Uno dei risultati di un simile approccio è che «la scienza non ha un’autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. A ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l’educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili» (p. 244).
La crescita della conoscenza per Feyerabend non deve essere anarchica, è sempre stata anarchica: «Eventi e sviluppi come l’invenzione dell’atomismo nell’Antichità, la rivoluzione copernicana, l’avvento della teoria atomica moderna (teoria cinetica; teoria della dispersione stereochimica; teoria quantistica), il graduale emergere della teoria ondulatoria della luce si verificarono solo perché alcuni pensatori decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ‘ovvie’ o perché involontariamente le violarono» (21). La ricerca più feconda infrange infatti sempre le norme metodologiche stabilite. E questo accade per una serie assai ricca di ragioni.

La prima di esse è che nessuna teoria scientifica o di altro genere è completa e in accordo con tutti i fatti del campo che intende spiegare.
La seconda è che le osservazioni empiriche sono sempre intrise di teoria e non è possibile alcuna teoria che non si riferisca in qualche misura e modalità a delle osservazioni empiriche. «L’apprendimento non va dall’osservazione alla teoria, ma implica sempre entrambi gli elementi. L’esperienza ha origine assieme ad assunti teorici, non prima di essi e un’esperienza senza teoria è altrettanto incomprensibile come (si presume sia) una teoria senza esperienza: se si elimina una parte della conoscenza sensibile di un soggetto senziente si avrà una persona completamente disorientata e incapace di eseguire l’azione più semplice» (137). Il circolo epistemologico tra osservazione e teoresi, tra ‘empirismo’ e ‘razionalismo’ è costante, completo, costitutivo. Esso è stato ben individuato da David Hume, per il quale «le teorie non possono venire derivate da fatti. La richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivino dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria. Perciò la scienza quale noi la conosciamo può esistere solo se lasciamo cadere questa richiesta e rivediamo la nostra metodologia» (55).
L’unione profonda tra fatti e teorie rende necessario un confronto serio e rigoroso con le cosiddette interpretazioni naturali, con il senso comune, con le credenze condivise da un gruppo, una comunità, un’epoca. Nella scienza non si fa mai tabula rasa del passato e nello stesso tempo non si rimane mai ancorati alla tradizione, a ciò che è stato in altre epoche osservato, scoperto, pensato. Anche per questo «l’intenzione di partire da zero, dopo avere eliminato completamente tutte le interpretazioni naturali, è condannata all’insuccesso» (64).
Una terza ragione è che nessun metodo è sicuro e perenne, che «non esiste neppure una regola che rimanga valida in tutte le circostanze» (146-147) e che «tutte le metodologie, anche quelle più ovvie hanno i loro limiti. Il modo migliore per realizzare quest’obiettivo [non sostituire un metodo con un altro] consiste nel dimostrare i limiti e anche l’irrazionalità di alcune norme che vengono di solito considerate fondamentali […] dimostrare quanto sia facile menare per il naso la gente in un modo razionale» (29).
Una quarta ragione è che filosofia della scienza, storia della scienza e storia socio-politica non sono ambiti e saperi tra di loro irrelati ma costituiscono un campo epistemologico all’interno del quale ogni metodologia, ogni ipotesi e ogni legge vanno compresi, utilizzati e interpretati in una prospettiva storica, tanto che «la storia di una scienza diventa parte inscindibile della teoria stessa» (27).

Un esempio di quest’ultima tesi è la vicenda del cannocchiale e in generale il confronto tra astronomia tolemaica e astronomia copernicana, tra dinamica aristotelica e fisica galileiana. La dinamica di Aristotele è molto più generale di quella galileiana e moderna, non limitandosi al solo movimento – al moto locale in ispecie – ma riguardando anche le trasformazioni qualitative, il generarsi e dissolversi degli enti, l’accrescimento e la diminuzione di tutte le componenti in gioco in un fenomeno naturale. Galilei potè procedere all’elaborazione della propria dinamica soltanto circoscrivendo in modo netto questo insieme di linee di ricerca e applicando a quanto rimaneva l’utilizzo di uno strumento che fino ad allora aveva funzionato perfettamente soltanto nell’osservazione terrestre e che potè essere usato in ambito celeste soltanto a condizione di caricare l’osservazione di una densità teorica con la quale cercare di superare «le difficoltà che insorgono quando si cerca di considerare i risultati dell’osservazione telescopica nella loro immediatezza come indicanti proprietà stabili, obiettive, delle cose viste» (102).
Come operò Galilei per convincere i suoi interlocutori e lettori della verità del copernicanesimo rispetto all’aristotelismo tolemaico? Operò come un metafisico e come «un ciarlatano» e questo fu il suo merito, il suo genio, il suo contributo fondamentale all’ampliarsi della conoscenza. Sta qui, in questo giudizio solo apparentemente paradossale, uno dei nuclei fondamentali dell’epistemologia anarchica di Feyerabend. Galilei è Galilei perché non seguì alcun metodo come si pratica una fede religiosa, perché adoperò tutte le risorse e i trucchi retorici nei quali era un vero maestro, perché non si fermò a uno strumentalismo empirista ma ragionò, pensò e scrisse da quel metafisico platonico che era. Quella di Galilei, infatti, «è una nuova idea audace che implica un tremendo salto dell’immaginazione, […] un nuovo genere di esperienza che è non soltanto più sofisticato ma anche assai più speculativo di quanto non sia l’esperienza di Aristotele o del senso comune. Parlando in modo paradossale, ma non sbagliato, si potrebbe dire che Galileo inventa un’esperienza che contiene ingredienti metafisici. Proprio per mezzo di una tale esperienza si realizza la transizione da una cosmologia geostatica al punto di vista di Copernico e di Keplero» (76-77).
Galilei è uno dei massimi esempi della fecondità di risultati e dell’apertura di orizzonti verso i quali conduce il rifiuto dei dogmi più consolidati, ai quali il pisano oppose non un metodo ma una pluralità di metodologie, non l’idolatria dei fatti o delle teorie ma l’invenzione di nuove verità, di altri miti, di una diversa metafisica rispetto alle verità, ai miti e alla metafisica dominanti nel suo mondo. Galilei ci ha aiutato «contro tutti coloro che sono disposti ad accettare un’opinione solo se essa viene espressa in un certo modo e che prestano fede ad essa solo se contiene certe frasi magiche designate come protocolli o rapporti d’osservazione» (24); «Galileo il ciarlatano è un personaggio molto più interessante del misurato ‘ricercatore della verità’ che di solito ci viene additato come esempio da riverire. Infine, solo attraverso giochi di prestigio come questi in tale periodo particolare si poteva far progredire la scienza» (89).

La necessità di un pluralismo metodologico è motivata da numerosi altri fattori. Tra questi, la stretta relazione tra le leggi e i protocolli scientifici e i diversi linguaggi naturali dentro cui leggi e protocolli germinano e dai quali sono resi possibili non come semplice veicolo di conoscenza ma come condizioni stesse di tali conoscenze; circostanza la quale fa sì che non esista alcun linguaggio neutro e universale di osservazione e di interpretazione/resoconto dei dati osservativi ma ogni osservazione abbia senso e formuli i suoi risultati soltanto all’interno di un linguaggio dato, sia esso naturale sia esso scientifico. La questione dell’etere costituisce un caso piuttosto chiaro: «Si dice per esempio che l’esperimento di Michelson e Morley, la variazione della massa delle particelle elementari, l’effetto Doppler trasversale, confutano la meccanica classica e confermano la relatività. […] Se adottiamo il punto di vista della relatività, troviamo che gli esperimenti, che ovviamente saranno descritti ora in termini relativistici, usando le nozioni relativistiche di lunghezza, durata, massa, velocità ecc., sono rilevanti per la teoria, e troviamo anche che sostengono la teoria» (234-235).

In generale, i risultati di un’osservazione vengono espressi e comunicati con i termini e nel linguaggio della teoria che si vuole con essi dimostrare e difendere, quindi in un’altra lingua rispetto a quella delle osservazioni e teorie rivali. Si tratta per Feyerabend di una vera e propria fede linguistica che «non ha perciò alcuna rilevanza obiettiva» e che «continua a esistere esclusivamente come il risultato dello sforzo della comunità dei credenti e dei loro capi, siano questi preti o premi Nobel. È questo, secondo me, l’argomento più decisivo contro qualsiasi metodo, empirico o no, che incoraggi l’uniformità. Qualsiasi metodo del genere è, in ultima analisi, un metodo di inganno. […] Per concludere: l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, per le vittime atterrite o bramose di qualche mito (antico o moderno), e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (38-39).
Ne segue che quello scientifico sia soltanto uno tra i più fecondi linguaggi e strumenti inventati dalle società umane per vivere e sopravvivere nel proprio ambiente. Non è l’unico, non è infallibile e non può pertanto diventare troppo potente, esclusivo di altri linguaggi, aggressivo nelle sue conseguenze politiche e sociali. Come ogni fatto umano, anche la scienza è soggetta all’utilizzo politico, alla propaganda, all’ideologia, senza necessariamente dare un’accezione negativa all’elemento politico, alla propaganda, all’ideologia. Essenziale è però che la scienza non si presenti nelle forme colonialiste che hanno caratterizzato alcune delle sue fasi storiche e sulle quali l’analisi di Feyerabend è molto netta:

La scienza moderna schiacciò i suoi oppositori, non li convinse. La scienza si impose con la forza, non col ragionamento (ciò vale particolarmente nel caso delle ex colonie, nelle quali la scienza e la religione dell’amore fraterno furono introdotte come cosa ovvia, e senza consultarne gli abitanti o discutere con essi la cosa). Oggi ci rendiamo conto che il razionalismo, essendo legato alla scienze, non può darci alcun aiuto nel problema dei rapporti fra scienza e mito e sappiamo anche, da investigazioni di genere completamente diverso, che i miti sono molto migliori di quanto i razionalisti non abbiano osato ammettere. Così noi siamo oggi costretti a sollevare il problema dell’eccellenza della scienza […]
Le tribù non vengono soppresse solo fisicamente ma perdono anche la loro indipendenza intellettuale e sono costrette ad adottare la religione assetata di sangue dell’amore fraterno: il cristianesimo. […] La libertà viene recuperata, vecchie tradizioni sono riscoperte, sia fra le minoranze in paesi occidentali sia fra estese popolazioni in continenti non occidentali. Ma la scienza regna ancora sovrana. Essa regna sovrana perché coloro che la praticano sono incapaci di comprendere, e non disposti ad ammettere, ideologie diverse, perché hanno il potere di imporre i loro desideri, e perché usano questo potere esattamente come i loro predecessori usarono il loro potere per imporre il cristianesimo ai popoli in cui si imbatterono nel corso delle loro conquiste (241-243).

Alla luce di tutto questo, la proposta dell’epistemologo anarchico è di affrancare anche la scienza dal principio di auctoritas, come dovrebbe essere nella sua stessa natura, e separare quindi stato e scienza come sono state separate nell’Europa moderna stato e chiesa. Proposta che costituisce il lungo titolo (come tutti gli altri) del diciottesimo e ultimo capitolo:

La scienza è quindi molto più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Essa è una fra le molte forme di pensiero che sono state sviluppate dall’uomo, e non necessariamente la migliore. È vistosa, rumorosa e impudente, ma è intrinsecamente superiore solo per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente (240).

Una proposta politico-epistemologica così forte si inserisce all’interno di un’analisi – che percorre tutto il libro e gli dà senso – di ciò che chiamiamo scienza e ciò che definiamo non scienza, le quali devono convivere, collaborare, intersecarsi e interagire a favore di un progresso dell’umanità che sia libero dagli schematismi cronologici dell’idealismo e del positivismo, i quali identificano il dopo con il meglio. In realtà, «in tutti i tempi l’uomo si accostò al suo ambiente con i sensi aperti e un’intelligenza feconda, in tutti i tempi fece scoperte incredibili, in tutti i tempi noi possiamo apprendere dalle sue idee» (250).
Nessuno nega i frutti che molte teorie scientifiche hanno conseguito ma deve essere chiaro che lo hanno fatto all’interno di un più ampio campo di conoscenze e di pratiche, senza le quali non avrebbero potuto conseguire alcun risultato, senza le quali non avrebbero potuto esistere. L’astronomia e la dinamica moderne, ad esempio, «non avrebbero potuto progredire senza quest’uso scientifico di idee antidiluviane. […] Innovatori come Paracelso tornarono a idee anteriori e migliorarono la medicina. Dovunque la scienza si arricchisce con metodi non scientifici e con risultati non scientifici, mentre procedimenti che sono stati spesso considerati parti essenziali della scienza vengono tacitamente sospesi o aggirati» (248-249). Ed è per questo che «anche oggi la scienza può e deve trarre profitto da una mescolanza con ingredienti ascientifici» (249).
La separazione del campo epistemologico in elementi tra di loro irriducibili o in insuperabile conflitto rappresenta un ostacolo al progresso della conoscenza: «se desideriamo comprendere la natura, se vogliamo padroneggiare il nostro ambiente fisico, dobbiamo usare tutte le idee, tutti i metodi e non soltanto una piccola scelta di essi. L’affermazione che non c’è conoscenza fuori della scienza – extra scientiam nulla salus – non è altro che un’altra favola molto conveniente» (249).
Si può dunque dire che come la familiarità con l’idea cristiana di verità costrinse Nietzsche a mettere in discussione la verità del cristianesimo, allo stesso modo l’esigenza di rigore della scienza conduce Feyerabend a demistificare la scienza e ad affermare che «c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andar bene» (25). Qualsiasi cosa serva ad ampliare la conoscenza dell’intricato enigma che il mondo sempre rimane e indagare il quale senza illusioni, chiusure, dogmi costituisce lo statuto e l’obiettivo stesso delle scienze.

[Dedico questo testo ai giornalisti ignoranti, alle miserabili virostar televisive, ai presidi e rettori burocrati, ai politici sadici e deliranti che hanno tentato di imporre il totalitarismo sanitario in nome di qualcosa che dichiaravano essere ‘scienza’ e che invece, come si vede, della scienza rappresenta l’opposto, costituendo piuttosto un’infame pratica oscurantista e autoritaria]

Macigni

Dune
di Denis Villeneuve
USA, 2021
Con: Timothée Chalamet (Paul Atreides), Rebecca Ferguson (Lady Jessica), Oscar Isaac (Il duca Leto Atreides), Stellan Skarsgård (il barone Harkonnen), Charlotte Rampling (La reverenda madre Mohiam), Chen Chang (il Dottor Wellington Yueh), Jason Momoa (Duncan Idaho), Javier Bardem (Stilgar), Zendaya (Chani)
Trailer del film

Le aride colline libanesi, il cerchio del tempo, le potenti strutture che si sbriciolano e il pesante rumore dell’acciaio erano alcuni degli elementi di precedenti film di Denis Villeneuve.
Essi convergono in Dune e si aprono alla forma che sempre sottende l’opera di questo regista: il mito. Che qui trova una vertiginosa condensazione di modi e narrazioni. La casa regnante si chiama Atridi; il giovane protagonista appare spesso una sorta di Amleto; la forza fisica si coniuga a possanza interiore; gli animali non umani vengono continuamente evocati: dai topi ai mezzi di trasporto che sono chiaramente delle libellule  meccaniche, da piccoli insetti artificiali e velenosi agli enormi, enigmatici e inquietanti vermi del deserto che scavano le dune al suono ritmato dei corpi o di altre macchine; le potenze malvagie gorgogliano da liquidi e liquami e si sollevano nello spazio in tutto il loro orrore, come ben sanno le più arcaiche fiabe di ogni epoca; le potenze complici dell’Imperatore hanno un nome simile a quello dei collaboratori del funesto Demiurgo gnostico: Harkonnen; le antiche Madri continuano a tessere il destino di ogni cosa.
E su tutto il duplice mito dal quale è nata la letteratura in Europa: la guerra (Iliade) e il viaggio, il ritorno (Odissea). In questa sorta di antologia dei poemi fondativi, i pianeti si moltiplicano e gli umani -o altre entità antropomorfe e consapevoli- appaiono sempre più insignificanti e schiacciati dalla forza immensa degli spazi e delle macchine.
Sono queste ultime, le macchine, l’elemento peculiare di Dune, ancor più del deserto immane, ospitale e ostile. Macchine gigantesche, ciclopiche e massicce, che tuttavia si alzano in volo, sfrecciano nello spazio, poggiano lievi sulle superfici. Autentici palazzi galattici azionati da leve e strutture del tutto e pesantemente meccaniche, che non possiedono niente di virtuale, nulla di algoritmico, non sono dei software e sono composti invece di pietra, di cemento, di acciaio. O di qualcosa che alla pietra, al cemento e all’acciaio rimanda.
È questa realtà solida, imponente e poderosa che permette non soltanto alle coscienze di essere  composte «della materia di cui son fatti i sogni» (Shakespeare, La Tempesta) ma anche ai sogni, come Dune, di essere composti della materia di cui son fatti i macigni, della materia delle rocce, del fuoco e delle galassie. Di materia è intessuta la realtà e non di formule interiori e digitali nelle quali l’umanità vagheggia e anela il proprio sopravvivere. Tranne poi, e come sempre, morire.

Raccontami

Cùntami
di Giovanna Taviani
Italia, 2021 (Festival del Cinema di Venezia 2021)
Con: Mimmo Cuticchio, Vincenzo Pirrotta, Gaspare Balsamo, Mario Incudine, Giovanni Calcagno

Il mare che scintilla. I prati verdi e le terre brulle. I vicoli di Partinico, le cattedrali di Palermo. La potenza del vulcano, il turchese di un cielo senza fine. Le torri di Paternò, i teatri abbandonati. Le spiagge in lontananza, le saline di Trapani, le colline che seguono a colline. E dentro tutto questo i Paladini, i cantastorie, Ulisse e Polifemo, Bradamante e la follia di Orlando, Don Chisciotte e il suo scudiero. Il canto, il senso, le parole. E la luce. La Luce magnifica e totale della Sicilia ad avvolgere e coprire le tenebre profonde, la solitudine, l’incanto, la rassegnazione al dolore che gli umani si infliggono l’uno contro l’altro.
La cadenza altalenante di Mimmo Cuticchio sembra raccontare il respiro stesso della terra, quella cadenza appresa dal suo maestro Peppino Celano e che i suoi allievi modulano ognuno in modo differente. Coinvolgente è infatti, quasi plastica visibile toccabile, la follia di Orlando nel corpo di Pirrotta, il sogno del Quijote nei gesti di Balsamo, le sofferenze d’amore di Polifemo per Galatea che diventano l’urlo nella notte di Calcagno.
Il furgone rosso che va per la Sicilia portando dentro il vento i pupi secolari di Cuticchio si perde dentro i rovi del tempo, nella immobilità sempre rinnovata delle marionette che guidano il puparo almeno quanto il puparo guida loro. Le «storie popolari» costituiscono in realtà la potenza ancora del mito, della più profonda forma letteraria che le culture umane abbiano creato per dire i loro sogni, i dolori, le guerre, gli amori.
Giovanna Taviani descrive tutto questo con l’empatia di chi si è innamorato dell’Isola e delle sue leggende, con la raffinata cadenza del montaggio che da sé crea le proprie storie, con una fotografia smagliante, epica e avvolgente. Un bellissimo film che restituisce per intero il cùnto che la vita dei siciliani da sempre rappresenta.

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