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Il calcio come metafora

L’arbitro
di Paolo Zucca
Con: Stefano Accorsi (Cruciani), Jacopo Cullin (Matzutzi), Benito Urgu (Prospero), Miranda (Geppi Cucciari), Alessio Di Clemente (Brai), Marco Messeri (Candido), Grégoire Oestermann (Jean Michel), Francesco Pannofino (Mureno)
Italia- Argentina, 2013
Trailer del film

 

Cruciani è un giovane arbitro, un “fuoriclasse” che aspira legittimamente a dirigere la finale più importante.
L’Atletico Pabarile e il Montecrastu sono due squadre sarde di terza categoria dilettanti (sotto non c’è niente), acerrime rivali. L’Atletico, che è diretto da un allenatore cieco, a conclusione del girone di andata si trova a zero punti. Ma in paese torna dall’Argentina Matzutzi, un emigrato che porta la squadra ai vertici sino a contendere il primato al Montecrastu.
La vicenda di Cruciani e quella delle due squadre si incrociano quando l’arbitro viene colto in fragrante. Lui così religioso, e così intransigente sul Regolamento, si è fatto corrompere non per danaro ma per ambizione. Il risultato è che viene degradato a dirigere i tornei di infimo livello. Nella partita decisiva diretta da Cruciani accade davvero di tutto: la tonalità grottesca, che aveva percorso l’intero film, si scatena in un vero e proprio sabba del pallone.
L’epigrafe è di Albert Camus: «Quello che so sulla vita l’ho imparato dal calcio». Il disincanto sul calcio e sulla vita è totale. Non soltanto il calcio viene descritto per quello che probabilmente è ormai diventato: un grande affare nel quale scorrono somme vertiginose e vince chi è più bravo non a giocare ma a corrompere (le vicende della Juventus di Luciano Moggi e i consistenti aiuti arbitrali per portare il Milan in Coppa dei Campioni sono assai recenti e illuminanti); è l’intera vita collettiva a essere permeata di una violenza implacabile contro umani, animali, cose. La tonalità lieve e stravagante di questo film non deve ingannare. Si tratta di una desolata riflessione sull’impossibilità della giustizia. «A quello zoppo, tu spezzagli l’altra gamba». Tutto questo in un bianco e nero elegante e onirico.

 

Forza Milan

Ci sono contraddizioni assai chiare ma che in certe condizioni non si riescono a percepire. Una consiste nell’essere milanisti e però detestare il berlusconismo. Lo dico da anni ai miei amici tifosi rossoneri: «ogni gol che vi fa esultare, ogni vittoria di questa squadra rappresentano un potente sostegno a Berlusconi, il quale ha fatto anche del Milan uno strumento di propaganda, di consenso, di dominio». La festa di ieri sera a Milano per il diciottesimo scudetto ne costituisce la conferma. Nei due giorni in cui la pubblicità elettorale è ufficialmente proibita, il Milan sta permettendo al suo padrone di mostrarsi, di additare se stesso come modello al quale credere sempre, a cui ciecamente affidarsi. L’intima natura totalitaria del berlusconismo nulla può lasciare al di fuori di sé, figuriamoci il calcio che è uno dei maggiori strumenti di manipolazione delle masse.
Da quando ero bambino e sino a vent’anni fa sono stato un tifoso milanista che adorava la sua squadra, che con essa ha esultato, atteso le vittorie, pianto (ad esempio dopo l’atroce sconfitta per 5 a 3 a Verona che nel maggio 1973 fece svanire all’ultima giornata di campionato lo scudetto della “stella”). Berlusconi mi ha rubato anche la squadra, trasformandola in una propaggine del proprio io, della propria menzogna. A queste condizioni non ho potuto più tifare per il Milan. Ribadisco dunque l’invito a non farsi complici del dittatore: «Amicus Milan sed magis amica libertas».

 

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