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La grande reclusione

Ha ben appreso il significato della filosofia, e quindi, dell’esistenza, chi pensa che «la vita non vale niente se non vale più della vita». È quanto scrive un mio allievo a conclusione di una testimonianza straordinaria nella sua lucidità, nel suo dolore, nella consapevolezza e nella verità.

«Caro Professore,
Le scrivo per dirLe che al momento non mi sento una persona felice.
Da mesi ormai sento che la vita mi si dà soltanto come ricordo e come esigenza. Al mattino sto, inerte, innanzi alle mie aspettative e a quelle altrui, incapace di rispondere sia alle une che alle altre, e la sera ascolto gli echi della mia vita passata, l’unica che riesco a portare al livello della presenza. Nei miei vent’anni, sento che la vita mi chiede molto e sento di voler chiedere molto alla vita: il peso dei miei desideri e del futuro mi opprime in modo silenzioso, è sufficiente la loro sola esistenza. E le suole di piombo del mio passato mi impediscono di compiere anche un solo passo in avanti.
Da mesi ormai la mia vita è questo oscillare tra il prima e il dopo, senza una linea continua che li unisca e che possa chiamare presente. Mi è stato chiesto di vivere di meno e l’ho accettato, non posso  altrimenti. Ne soffro e mi viene chiesto di sentirmi in colpa per questo, perché è poca cosa vivere a un metro dagli altri, perché ho ancora tutta la vita davanti, perché bisogna fare sacrifici e avere rispetto dei morti, dell’emergenza sanitaria, bisogna essere responsabili e comportarsi bene. Per carità, non lo nego.
Ma la filosofia mi ha insegnato che per avere rispetto della vita occorre avere rispetto del tempo e della morte, porgere loro la propria amicizia. Ho imparato presto qual è la differenza tra una vita e un’esistenza e temo che la nostra epoca abbia, da molto ormai, dimenticato che la vita è un’altra cosa dall’essere-in-vita, dai parametri che la medicina, l’economia e la politica usano per governare i nostri corpi. La vera tragedia di questa pandemia non è né la morte né il dolore, ma le morti asettiche in ospedale, il fallimento delle attività commerciali, la privazione di un sorriso o di un abbraccio. Per molti la filosofia è solo chiacchiera; per me è l’unico vaccino che ci salva.
E così sto qui, ad un metro di distanza dalla vita, a ricordare impotente che la vita non vale niente se non vale più della vita.
La ringrazio per l’ascolto,
D., uno studente responsabile».

La condizione della quale parla D. è complessa. Un suo evidente elemento è la clausura, la reclusione, il confino. Elementi che non a caso sono parte delle strutture punitive degli Stati. Elementi che, al di là degli autoinganni della cosiddetta ‘società aperta’, diventano sempre più universali, imponendosi a tutti i cittadini. Infatti, «oltrepassata la soglia, la società diventa scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione. Occorre individuare esattamente dove si trova, per ogni componente dell’equilibrio totale, questa soglia critica» (Ivan Illich, La convivialità, Red, Como 1993, pp. 11-12).
Del tutto empatico con quello dello studente D. è stato il mio sentimento di docente di tre corsi svolti nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict nell’a.a. 2019-2020. Conclusa la finta lezione, posto fine al collegamento, rimaneva l’aula silenziosa, vuota, perduta. L’amarezza di quegli istanti per il mancato incontro, per la distruzione del fatto educativo – che è un evento in primo luogo fisico, corporeo, spaziotemporale – è un sentimento che non dimenticherò.
Una conseguenza positiva è che questi sentimenti di amarezza e dolore mi hanno aiutato a capire. Mi hanno aiutato a comprendere meglio le motivazioni delle potenze economiche digitali (come Microsoft, proprietaria di Teams e cioè della piattaforma utilizzata per le finte lezioni di Unict) e dei decisori politici al loro servizio, come il governo italiano e le amministrazioni universitarie. E mi hanno quindi spinto ad agire  come posso – insieme ad altri colleghi – contro la distruzione dell’Università, perché è questo l’obiettivo ultimo: la trasformazione delle Università pubbliche in cloni di Unipegaso.

Ivan Illich aveva compreso a quale barbarie conduce il culto per la ‘vita’ a ogni costo, per un fantasma che ignora le dimensioni psicosomatiche, complesse, temporali della salute; aveva compreso dove conduce il culto per un totem collettivo al quale sacrificare ogni pietà, ogni buon senso, ogni fermarsi davanti al limite delle tecnologie sanitarie e politiche e alla necessità che gli umani nutrono di incontrare l’altro.
Il risultato è che si muore sempre più soli e sempre più disperati; l’epidemia da Covid19 sta portando al culmine tale dinamica.
«L’attuale frenesia medica è una chiara manifestazione di ciò che i greci definivano hybris: non più soltanto una trasgressione del limite -la qual cosa sarebbe ancora, malgrado tutto, un modo di riconoscerne l’esistenza- ma un’ignoranza o una ricusazione dell’idea stessa di limite. La Nemesi che colpisce questo accecamento non consiste solo nel morire male, ma anche nel vivere male. L’impresa medica, che si presenta come la punta avanzata e meno contestabile del progresso, è divenuta un fattore di decivilizzazione. Questa era, in ogni caso, la convinzione di Illich, il quale riteneva che i cittadini di un paese non avessero bisogno di una politica ‘sanitaria’ nazionale organizzata per loro, ma piuttosto di ‘fronteggiare con coraggio certe verità:
-non elimineremo mai la sofferenza;
-non guariremo mai tutte le malattie;
-moriremo’»
(Olivier Rey, Dismisura [Une question de taille, 2014], Controcorrente, Napoli 2016, p. 52; trad. di G. Giaccio).

Il lavoro filosofico questo lo sa da sempre. Ad esempio in Hegel: «Seine Unangemessenheit zur Allgemeinheit ist seine ursprüngliche Krankheit und [der] angeborene Keim des Todes [La sua (dell’animale) inadeguatezza all’universalità è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte]» (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, § 375) e in Heidegger: «So wie das Dasein vielmehr ständig, solange es ist, schon sein Noch-nicht ist, so ist es auch schon immer sein Ende. [L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo ‘non-ancora’, è anche già sempre la sua morte]» (Sein und Zeit, GA, vol. 2, § 48, p. 326; trad. di P. Chiodi).
Mesi di regioni ‘rosse’ allo scopo di ‘abbracciarci a Natale’. E il risultato è, appunto, «la grande reclusione». Non basteranno 10 giorni di chiusura tra il 2020 e il 2021. Non basterà mai nulla. Perché non si tratta di salute e di scelte politiche, si tratta di un’ideologia magica e fanatica. Si tratta di nichilismo.

[La lettera di D. è stata pubblicata anche in corpi e politica e su girodivite, con una breve presentazione. Photo by Denny Müller on Unsplash]

Vegetare?

Di ritorno qualche giorno fa da Catania a Milano, ho dovuto sottopormi a cinque controlli prima, durante e dopo il volo (quindi nell’arco di circa tre ore). Con tanto di autocertificazioni, di verifiche da parte della polizia, di timbri apposti su fogli, di ossessivi richiami audio alla disciplina, scanditi di continuo e a cadenze regolari da altoparlanti, di ripetute dichiarazioni del mio nome, cognome, età, indirizzo.
Dove è finita l’ondata libertaria del Sessantotto? Dove sono spariti i difensori della riservatezza (privacy)? Dove si è inabissato qualunque spirito ribelle del corpo sociale?
L’editoriale del numero 358 (novembre-dicembre 2020) della rivista Diorama Letterario fornisce alcune risposte a tali interrogativi. L’autore è il politologo Marco Tarchi. Condivido per intero le sue analisi, che riporto sia in pdf (con le note al testo e le mie sottolineature) sia qui sotto (senza note).

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Sarebbe difficile pensare qualcosa di più emblematico della condizione psicologica e culturale che la nostra epoca sta sperimentando, e nel contempo di più avvilente – se non ci si vuole spingere ad usare lʼaggettivo «ripugnante» – degli spot che il governo tedesco ha ideato per convincere i connazionali a rispettare nel modo più rigido i provvedimenti di limitazione della libertà di movimento imposti al fine di circoscrivere i contagi da Covid-19. Nel primo di essi, un ragazzo sui ventʼanni sprofondato nel divano di casa, lattina di Coca cola in mano e patatine fritte a portata di bocca, annega nella noia di una giornata inutile. Nel secondo, il medesimo soggetto, ipotetico studente di ingegneria alla Università di Chemnitz, condivide la sua abulia con la ragazza; dal divano si è passati al letto e ad allietare lʼinerzia questa volta ci sono porzioni copiose di pollo fritto. Nel terzo, al centro dellʼattenzione cʼè «Tobi il pigro», nullafacente per scelta e autodefinizione, che passa il proprio tempo davanti al computer mangiando ravioli freddi in scatola perché non ha neppure la minima voglia di scaldarli. Queste scene sono ambientate nel «terribile» inverno del 2020 e ad accompagnarle cʼè oltre ad un suggestivo commento musicale, il racconto postumo degli invecchiati protagonisti, che vantano soddisfatti lʼ“impresa” compiuta mezzo secolo prima barricandosi in casa a non fare nulla e diventando così – avendo evitato di diventare veicoli del contagio – degli eroi. Parola, questʼultima, più volte ripetuta (a Tobi sarebbe spettata addirittura una medaglia per la sua esemplare astinenza dalla vita di società) assieme ad altre non meno altisonanti, come «fato», «dovere sociale», «destino della nazione» e lʼormai onnipresente «nemico invisibile».

Non può certo stupire che il prodotto di questa fase post-goebbelsiana dellʼapparato di propaganda bellica della Germania abbia lasciato simultaneamente incantati giornali come «Vanity Fair», «il Foglio» e «La Repubblica», affiatati nel definirlo «geniale», né che la sua ironia non proprio sottile sia stata lodata dai pubblicitari italiani. Cosa può esserci di meglio, in effetti, per descrivere il tipo di uomo (e donna, ça va sans dire) ideale della Cosmopoli agognata dai fautori dellʼideologia dei “diritti umani” di un consumatore seriale di cibo-spazzatura docilmente pronto ad obbedire al richiamo delle autorità democratiche e dei mass media e a rinchiudersi senza reagire nel più stretto e gregario individualismo, sostentandosi magari con videochiamate, chat, serie di fiction su qualche piattaforma multimediale e, perché no?, firme virtuali di petizioni a sostegno di cause “di genere” o “inclusive” disponibili sugli appositi siti?
Avanza anche così, sulle ali della paura istigata da una incessante comunicazione ansiogena, quella graduale trasmutazione antropologica che, in atto da decenni, ha trovato nelle vicende epidemiche un nuovo efficacissimo veicolo. La recisione dei legami interpersonali è indicata infatti con sempre maggiore enfasi e frequenza come lʼunico rimedio possibile al replicarsi dei contagi da coronavirus, e cʼè chi arriva a vedervi degli aspetti positivi. Non stupisce che fra costoro si recluti Bill Gates, pronto a descrivere lo scenario del mondo futuro con accenti non troppo preoccupati: per un numero imprevedibile di anni, ci dice, avremo quantomeno unʼatmosfera più pulita, perché con un calo del cinquanta per cento dei viaggi le emissioni di gas serra nellʼatmosfera si ridurranno considerevolmente, anche se dovremo rassegnarci ad avere pochi amici. Il telelavoro prospererà – e con esso, si potrebbe aggiungere, lʼulteriore uso di prodotti Microsoft – e i rapporti sociali si atrofizzeranno.
La prospettiva non sembra suscitare eccessive inquietudini né fra gli intellettuali mediatizzati, né fra i politici, né fra gli scienziati. Molti dei primi antepongono il «diritto alla salute» – concetto del tutto insensato, che nessuno si sognerebbe di contrapporre al sopravvenire di un infarto, di unʼemorragia cerebrale o di una grave forma di tumore, ben sapendo che nessun soggetto colpito da patologie di quei tipi sarebbe in grado di esercitarlo, e che andrebbe sostituito con il plausibile ed auspicabile diritto alla cura – a qualunque timore di sfaldamento del legame sociale.
Quasi tutti i secondi li seguono a ruota e pensano esclusivamente a calmare le ovvie proteste delle categorie produttive danneggiate dalle chiusure imposte con sussidi a pioggia e in buona parte a fondo perduto che saranno in futuro pagati con sostanziosi aumenti di carichi fiscali, perché i deficit del bilancio statale non potranno essere mantenuti in eterno. Le conseguenze dellʼobbligato (e auspicato) «distanziamento» fra i cittadini sulla capacità di tenuta del tessuto sociale li lascia del tutto indifferenti.
Quanto infine agli esperti della materia medica, la loro unilaterale convinzione che della vita conti assai più la dimensione quantitativa della durata che quella relativa alla qualità si esprime a ritmo quotidiano nei modi più diversi e su tutti i palcoscenici televisivi, radiofonici e della carta stampata. Si pensi, per riassumere tutto in un solo esempio, ad Ilaria Capua – gettonatissima virologa di formazione veterinaria che, come ci fa sapere la sua più consultata biografia in rete, alle elezioni politiche del 2013 è stata candidata alla Camera dei deputati, nella circoscrizione Veneto 1, come capolista di Scelta Civica per lʼItalia (la lista di Mario Monti), venendo eletta deputata della XVII Legislatura, dal 7 maggio 2013 al 20 luglio 2015 è stata vicepresidente della Commissione Affari Sociali della Camera e «dopo il proscioglimento nel corso del procedimento penale a cui era stata sottoposta, ed in considerazione dei danni causati alla propria vita personale da tale vicenda, [ha] rassegna[to] le dimissioni dalla Camera per trasferirsi in Florida e tornare ad occuparsi di ricerca scientifica» – che, evidentemente convinta dellʼinutilità, se non della “pericolosità” di teatri e cinema, ha proposto, dando per scontato ed opportuno che debbano rimanere chiusi per altri mesi o anni, di trasformarli (ribattezzandoli addirittura CineVax) prima in presidi per gestire le vaccinazioni anti-Covid di massa, riempiendoli di congelatori a temperatura di meno 70 gradi per conservare le fiale, e poi «per il recupero delle vaccinazioni pediatriche che sono saltate a causa dellʼemergenza».

A queste tre componenti fondamentali della classe dirigente delle democrazie occidentali, cioè di quei regimi politici che dovrebbero incarnare il migliore dei modelli possibili di governo dei “paesi avanzati”, a causa della cecità indotta dal ferreo conformismo allʼideologia del politicamente corretto, sfugge un dato insradicabile della realtà, ovvero lʼineliminabilità del rischio dallʼesistenza umana, tanto individuale quanto collettiva. E lʼancor più dolorosa necessità di accettarne la presenza.
Per millenni, la cultura dei popoli – di tutti i popoli della Terra – si è rassegnata a questo dato di fatto, lo ha collegato alla volontà imperscrutabile del Fato e/o della divinità venerata e lo ha incorporato nei sistemi di norme destinati a governare la vita delle comunità. Lʼillusione prometeica tipica della modernità alimentata dai pregiudizi del razionalismo non meno di quanto le epoche precedenti lo erano state da quelli della magia, ha spinto taluni, non solo negli ambienti scientifici, a credere che a questa legge di natura sia possibile, se non doveroso, ribellarsi. E che lʼesistenza individuale possa e debba essere esentata dallʼalea dellʼimprevedibile e dellʼinatteso, impermeabilizzata dai rovesci del Caso, tenuta sotto controllo – securizzata, per dirla con la neolingua oggi in voga – in ogni contesto. Con la conseguenza di inseguire e celebrare un orizzonte ideale in cui il vegetare si è sostituito al vivere.
Alle presenze corporee in stato vegetativo magnificate dagli spot tedeschi è stato pertanto affidato il messaggio del rifiuto del rischio interpretato come un atto di eroismo. Un formidabile controsenso, che spiega meglio di tante parole la sostanza profonda dello spirito del tempo che stiamo vivendo.

Chi dissente da questa visione si vede ovviamente affibbiare una patente di insensibilità, quando non di follia. La vecchia figura dellʼuntore torna a stagliarsi minacciosa nellʼimmaginario collettivo sullo sfondo dei dibattiti che riempiono i talk shows, mentre lʼopinione pubblica si spacca verticalmente, in tutti i paesi colpiti dallʼepidemia, tra i terrorizzati che si rallegrano del panorama spettrale di città desertificate dal lockdown e vorrebbero vederlo rimanere tale e quale perlomeno fino allʼepifania di un miracoloso vaccino, e gli insofferenti del confinamento, che attendono il minimo spiraglio normativo per rituffarsi nei riti di massa dellʼaperitivo e dello struscio.
Allʼottusità del negazionismo – che qualcuno, esagerando e scherzando un poʼ troppo con i dettami della biologia, che già in passato hanno dato luogo ad usi politici alquanto problematici, ha definito frutto di «un processo mentale che non tanto dissimile da quello che accade in certe forme di demenza» – se ne è dunque affiancata una simile e contraria, che istiga allʼincomprensione e al rifiuto delle ragioni di coloro che, ad uno scenario di persistenti restrizioni della libertà di movimento, di obblighi sine die di indossare maschere chirurgiche, mantenere un metro e ottanta di distanza dal prossimo ed evitare “luoghi di socialità” ed incontri con familiari ed amici, ne preferirebbero uno in cui, pur attenendosi temporaneamente alle opportune misure di prudenza, il rischio venga accettato e gradualmente reinserito nellʼorizzonte della normalità.
La demonizzazione di questa scelta e lʼinsistenza ansiogena sui presagi funesti – sul vaccino che non funzionerà o avrà effetti limitati nel tempo, sulle mortifere “terze ondate” in arrivo e così via – sortiranno quasi certamente effetti opposti a quelli proclamati, precipitando strati crescenti di popolazione in uno stato di prostrazione psicologica difficilmente riassorbibile, di cui si riscontrano già evidenti sintomi (Cfr. Gianni Santucci, Lʼabisso del lockdown: tra lʼ8 marzo e il 4 maggio sono aumentati i tentativi di suicidio, in «Corriere della sera», 19 novembre 2020, dove si cita uno studio dellʼospedale Niguarda di Milano, il quale «mostra che nei 56 giorni di chiusura sono triplicati in Rianimazione i ricoveri di persone che volevano farla finita. Un disastro umano e di solitudine nascosto nella zona dʼombra del disastro Covid»).
Ma, a quanto pare, i dogmi ideologici che dominano la scena culturale dei nostri giorni impediscono di accettare qualunque atteggiamento nei confronti dellʼesistenza che possa apparire eccessivamente virile – e dunque, nella traduzione banalizzante della vulgata progressista, “maschilista”. Vegetare, quindi, sta diventando lʼimperativo categorico del Terzo millennio. Non ci resta che sperare che, un giorno, un sussulto collettivo di orgoglio di fronte ad un panorama così deprimente possa trasformarsi in una seria, sacrosanta reazione – e fare, nel nostro piccolo, tutto il possibile perché ciò avvenga.

«Qualcosa di più forte che lo schifo»

[Questo testo, scritto insieme a Monica Centanni, è stato pubblicato su Corpi e politica]

Società e politica funzionano come un piano inclinato: una volta che la pallina comincia a rotolare acquista velocità e diventa difficile fermarla. È questo uno dei più noti ‘segreti’ dell’autorità: quando la potestas fa leva sul terrore arriva un momento nel quale non è più necessario che essa dia ordini precisi. I corpi intermedi provvederanno a parlare al posto suo e a decidere secondo quanto l’autorità di governo avrebbe stabilito e che certamente desidera.
È ciò che sta accadendo in molti corpi intermedi della società civile. Non è più necessario che siano presidenti e ministri a pronunciarsi. Lo stiamo vedendo, perché direttamente ci tocca, con la scuola e con l’università. I ministeri dell’istruzione e della ricerca lasciano alle scuole e agli atenei alcune delle decisioni ultime e concrete. I rettori delle università siciliane si riuniscono e non decidono. Devono essere le singole università a farlo. E allora accade che l’Ateneo di Catania prenda decisioni su basi non scientifiche, mediatiche ed emotive e stabilisca –prima dell’ultimo decreto del presidente del consiglio– un’estensione sempre più marcata delle lezioni telematiche, in particolare ordinando di «mantenere in modalità mista tutti gli insegnamenti dei primi anni delle lauree triennali e magistrali a ciclo unico, salvo i casi in cui, per specifiche esigenze di tutela della salute, sia richiesta e ottenuta autorizzazione del rettore per l’erogazione in modalità a distanza»; il che vuol dire che un quinto circa degli studenti potrà seguire delle lezioni reali, tutti gli altri rimarranno per delle ore davanti a un monitor a distrarsi in tutti i modi possibili.

Il risultato è che la relazione educativa, sulla quale soltanto può crescere il sapere, si dissolve nella relazione puramente nozionistica nella quale consiste la cosiddetta didattica a distanza. Altri danni alla relazione educativa -e semplicemente umana– arrivano su indicazione? stimolo? suggerimento? ordine? dell’ennesimo e micidiale decreto del presidente del consiglio dei ministri. Si stabilisce dunque che «3 Gli esami, scritti e orali, si svolgono in modalità a distanza. 4) Le lauree, come già predisposto da tutti i Direttori di Dipartimento, si svolgono esclusivamente a distanza. 7) È sospeso l’accesso degli studenti alle aule studio e alle biblioteche. 8) Il ricevimento degli studenti in presenza è sospeso ad eccezione di tesisti e dottorandi che potranno, qualora ritenuto necessario dal relatore/tutor, essere ricevuti in presenza nel rispetto delle misure di sicurezza previste». Per i Dipartimenti di scienze umane le biblioteche sono vitali, come i laboratori per altri ambiti. Come, dove, che cosa studieranno i nostri allievi?
Tali decisioni non vengono prese dall’Ateneo per il periodo previsto dal DPCM del 3.11.2020 bensì «a decorrere dal 06 novembre p.v. e per il restante scorcio del primo semestre dell’anno accademico 2020-2021, salvo modifiche o provvedimenti più restrittivi da parte delle autorità».
Tutto questo, si dice, sulla base di dati numerici oggettivi. Quali? Quelli che danzano ogni giorno cambiando natura e direzione? Quelli che gli stessi organismi tecnici e amministrativi smentiscono reciprocamente in relazione ai loro componenti sanitari e politici? In ogni caso, e a proposito del ritorno in grande stile dentro il governo e dentro l’informazione di numeri gridati a caratteri cubitali –numero dei positivi equiparato in modo antiscientifico a numero dei malati; numero dei ricoverati, numero dei morti, compresi i deceduti per altre patologie conteggiati come ‘morti da covid’ –, ricordiamo quanto scrisse Gregg Easterbrook: «Torture numbers, and they will confess to anything»1.
Sugli effetti educativi, psicologici, somatici di tutto questo, più di tante parole vale quanto scrive una studentessa, la cui lettera è stata pubblicata sul Corriere fiorentino del 27.10.2020:

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«Uno stato incapace mi sta privando della mia età più bella» 

Caro direttore, mi chiamo Camilla, ho 17 anni e frequento (frequentavo?) il quarto anno del liceo classico Michelangiolo di Firenze. Sin da marzo, dall’inizio della pandemia di Coronavirus, io e i miei amici ci siamo sforzati di cercare modi per restare in contatto e divertirci nonostante la situazione critica, sempre nel rispetto delle regole, prima in videochiamata e successivamente dandoci appuntamento in luoghi aperti, dove fosse possibile rispettare la distanza e indossando sempre l’indumento dell’anno, la mascherina.
Noi ragazzi abbiamo passato l’estate girovagando per il centro, non frequentando le discoteche come eravamo soliti fare, siamo tornati a scuola con regole rigide, senza l’indispensabile compagno di banco, una figura a mio avviso fondamentale, con la mascherina e senza ricreazione; non ci siamo lamentati in alcun modo, nonostante le istituzioni pensassero a tutto tranne che a noi.
Siamo stati accusati della diffusione del contagio, in quanto promotori della movida, in quanto frequentatori della scuola, in quanto causa dell’affollamento sugli autobus. Ci siamo accontentati di orari scolastici ridotti, rinunciando al diritto di ricevere l’educazione garantita prima dell’avvento del Covid.
Ho tollerato ogni restrizione in silenzio, per il «bene della comunità», come mi sento dire da marzo come un ritornello. Ma la comunità cosa ha fatto per il mio bene?
Domenica 11 ottobre ho avuto contatto con un caso positivo di Covid. Non appena saputo mi sono autonomamente sottoposta ad un periodo di quarantena e, poiché l’Asl non ha provveduto a procurarmi alcun certificato, la scuola non ha potuto attivare per me la didattica a distanza. Mercoledì 21 ho effettuato il tampone, mi è stato garantito che in massimo 48 ore sarebbe stato disponibile il referto. 24 ore passano, ne passano 48, ne passano 72, passano 5 giorni… niente. Io intanto, in attesa di un tampone che non si sa se sia andato perso o se verrà mai processato, sono reclusa in casa, non posso tornare a vivere la mia vita, in realtà non posso uscire nemmeno per portare la spazzatura ai cassonetti: sono giunta alla conclusione che la società non sta facendo assolutamente niente per il mio bene, che non mi rispetta né come studente né come persona.
Inoltre scopro che non è affatto sicuro (anzi, alquanto improbabile) che io possa tornare a frequentare l’edificio scolastico, in quanto è necessario attivare la didattica a distanza per arginare il contagio, poiché la Regione non è riuscita a trovarmi posto su un autobus: a causa di un problema facilmente risolvibile sono costretta a passare la mie giornate davanti a un computer, privata di tutto ciò che di bello la scuola offre, dell’unica occasione di socializzare (perché non mi è più permesso muovermi se non per «spostamenti necessari»), di imparare, di costruirmi il futuro, di divertirmi, di ridere e di scherzare. Mi limiterò ad alzarmi stanca la mattina, ad avviare uno schermo, a seguire a fatica le lezioni a cui prenderò parte con un maglione spiegazzato e i pantaloni del pigiama, ad accendere la televisione e a trascorrere i pomeriggi imbambolata di fronte ad essa; la perifrasi che meglio descriverà la mia vita sarà «monotona noia», il momento più entusiasmante della giornata sarà quello in cui aiuterò mia madre a cucinare. Non dovrebbe essere questa la prospettiva di vita di una ragazzina di 17 anni. Mi private del momento più bello della vita, l’adolescenza.
Lo Stato mi ha delusa, in 8 mesi di pandemia non è riuscito ad organizzarsi e a rimetterci sono io, siamo noi, tutti gli italiani che, impotenti davanti alla situazione, si limitano ad adempiere a testa bassa ai doveri loro imposti dalle «norme antiCovid». Più passo il tempo in questo Paese in balia della sorte e più sono convinta di volermene andare.
Avete sulla coscienza me e il mio futuro.
Aspetto da 5 giorni il risultato del tampone Da marzo ho tollerato ogni restrizione in silenzio, per il «bene della comunità», ma la comunità cosa ha fatto per il mio bene?»
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Gli Organi d’Ateneo di Catania e di molte altre Università hanno anch’essi «sulla coscienza» gli studenti «e il loro futuro». Un futuro diventato cupo, impaurito, terrorizzato. Di questo siamo responsabili noi docenti, tutti, perché quello che sta accadendo si chiama con una parola ben nota nelle relazioni sociali e anche educative: tradimento.
Si può ben dire che «c’è in tutta questa storia qualcosa di più forte che lo schifo»2. C’è in tutta questa storia un misto di cinismo, isteria collettiva, potere dei media, interessi economici (un solo dato, tra i possibili: dalla piattaforma MSTeams la Corporation Microsoft va aumentando esponenzialmente i propri ricavi3) e tanta tanta viltà; tutto convergente verso la sottomissione al piano inclinato di un’autorità irrazionale.
Come docenti, intellettuali e cittadini crediamo sia un nostro dovere, assai più che un nostro diritto, descrivere gli eventi in ciò che appaiono e sono, anche -appunto- nel loro manzoniano schifo.

Note
1. «Our Warming World», in New Republic, 11.11.1999, vol. 221, p. 42.
2. Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, in «Tutte le opere», G. Barbèra Editore, Firenze 1923, cap. IV, p. 797.
3. «Teams è una delle novità più recenti di Office e ha ottenuto in breve tempo un successo notevole, che ha contribuito alle buone prestazioni finanziarie di Microsoft. Nel trimestre che si è concluso a giugno, Microsoft ha prodotto ricavi per 38 miliardi di dollari, con un aumento del 13 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’azienda ha superato le previsioni degli analisti, più incerte a causa della pandemia in corso» (Slack contro Microsoft, il Post, 23.7.2020; cfr. inoltre Nel lockdown cresce anche Teams di Microsoft).

James Bond, l’anarchico

007 Spectre
di Sam Mendes
USA – 2015
Con: Daniel Craig (James Bond), Léa Seydoux (Madeleine Swann), Ralph Flennes (M), Christoph Waltz (Oberhauser), Ben Whishaw (Q), Andrew Scott (Denbigh)
Trailer del film

«I morti sono vivi». La prima inquadratura del film è questa frase, la quale introduce un efficace piano sequenza sulla festa dei morti a Città del Messico. Ci si sposta poi a Londra, Roma, Tangeri, Tokyo e altrove. Non manca nulla degli elementi classici della saga bondiana: lunghi e spettacolari inseguimenti, mezzi di trasporto di tutti i tipi, tecnologie miniaturizzate, complotti mondiali, ironia.
E James Bond conferma sempre la propria natura di immortale, identica agli eroi di tutte le saghe, che non possono morire qualunque cosa accada.
Ma in questo film ci sono almeno due elementi di novità, uno abbastanza ovvio, l’altro meno.
Il primo è che il potere si è spostato dal danaro e dalle armi alle informazioni, la raccolta delle quali costituisce l’obiettivo della Spectre, una sorta di fusione di facebook, google, apple/microsoft, che ha l’obiettivo di controllare sin nei minimi dettagli la vita di tutti, proprio di tutti. È sempre la profezia di 1984 che va realizzandosi. Non nei film di James Bond ma nella realtà.
Il secondo elemento è che la Spectre è composta dai nove stati più potenti del mondo. Non sembra quindi esserci più differenza tra gli stati e i criminali, gli stati sono criminali. Notevole.
Lascio quindi la parola a Dario Sammartino, che mi ha suggerito di vedere 007 Spectre dando delle indicazioni che corrispondono perfettamente ai suoi contenuti.

«Ti segnalo tre punti sagaci del soggetto dell’ultimo Bond, che forse ti incuriosiranno.
1) Lo scopo delle fatiche dell’eroe è di impedire l’avvio di un sistema di controllo mondiale di comunicazioni e dati. In apparenza il sistema è promosso da nove potenze, ma di fatto è asservito ad un’organizzazione criminale. Non so se rientrava nelle intenzioni dei soggettisti ma la conclusione è che potere e crimine coincidono. Inoltre il dirigente “cattivo” dei servizi segreti giustifica la scelta con la considerazione che il potere va attribuito a coloro che possono davvero esercitarlo, cioè in assoluta solitudine e senza gli impedimenti formali della democrazia: lo scopo finale del capitalismo finanziario attualmente al potere. Che J Bond stia diventando anarchico?
2) Sulle nove potenze, una è contraria al sistema (il Sudafrica). Prontamente l’organizzazione criminale esegue un attentato gravissimo, ed anche il Sudafrica si adegua. È la vecchia ma sempre efficace strategia della tensione: forse i soggettisti avranno studiano la storia italiana degli anni ’60/’70.
3) L’eroina si chiama Madeleine Swann, e di fatto aiuta proustianamente Bond a ricordare il suo passato».

Aggiungo che il film è un grande divertimento.

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