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Figli e prioni

Mente & cervello 116 – agosto 2014

 

M&C_116Ciò che nell’umano conta davvero, ciò che per noi è importante, forma un tutto unitario, un plesso omogeneo nel quale le differenze rafforzano le connessioni. Sesso e potere costituiscono due delle modalità decisive della vita ed è quindi inevitabile che intrattengano tra loro profondi legami. Non, naturalmente, quelli costituiti dall’utilizzo dell’autorità per ottenere prestazioni sessuali. Si tratta di assai di più, di qualcosa che tocca l’identità stessa degli umani e dei loro rapporti più intimi. È quanto emerge dalla conversazione di Silvia Bencivelli con la sessuologa Chiara Simonelli. Ad esempio: «Nelle femmine talvolta c’è moltissimo il bisogno di sedurre, di sentire, di essere l’oggetto del desiderio di un altro. Per i maschi il rapporto sessuale può essere la conferma della propria virilità. […] Perché sul sesso si gioca molta della propria vulnerabilità: a letto si è nudi anche nell’anima, e i sintomi sessuali che possono emergere in una coppia sono devastanti. Il compromesso è difficile. A volte si gioca addirittura su equilibri di potere. È una parola che non ci piace, ma spesso è così: le persone più intelligenti -emotivamente- mediano, le altre si impongono oppure chinano la testa» (36-37).
Un momento nel quale il rapporto di coppia tra una femmina e un maschio umani si trova a grande rischio è la nascita di un figlio. La ragione è evidente: un figlio appena nato drena gran parte della quantità e qualità di attenzione e di amore di cui una persona è capace. L’altro -il compagno adulto- non può che soffrirne. Simonelli lo riconosce con grande chiarezza: «Avere figli cambia tutto. Uno studio recente ha evidenziato quello che pare brutto da dire ma è drammaticamente reale: le coppie senza figli sono mediamente più felici di quelle con figli. Perché è vero che un figlio ti cambia in meglio, personalmente, ma sottrae attenzione ed energia alla coppia». La sessuologa riconosce che ben prima delle ricerche contemporanee fu Schopenhauer a dirlo. Per il filosofo l’innamoramento è un «processo al servizio della specie. E la morte del desiderio appena la specie è servita» (39).
Una specie che come tutte le entità viventi è sottoposta a una miriade di rischi, malattie, sciagure. Stanley Prusiner ricevette nel 1997 il Nobel per la medicina per aver scoperto una delle cause più insidiose dei processi degenerativi del cervello: i prioni. Intervistato da Simona Regina, questo medico spiega che i prioni «sono proteine che, in seguito a un’alterazione di forma, acquisiscono la capacità di replicarsi e accumularsi a macchia d’olio nel cervello, distruggendo le cellule cerebrali. Tanto che alle fine il cervello assume l’aspetto di una spugna, a causa della massiccia perdita di neuroni» (81). La scoperta di Prusiner venne contrastata in tutti i modi perché infrangeva il dogma biologico secondo cui un materiale soltanto proteico -che non contenga DNA e RNA- non può costituire un agente infettivo. Invece lo costituisce a tal punto «che molte malattie degenerative del cervello, se non tutte, sono riconducibili all’azione devastante dei prioni: non solo dunque la malattia di Creutzfeldt-Jakob, ma anche l’Alzheimer, il Parkinson»…e così via nel triste elenco dell’autodistruzione del cervello umano (82). Bisogna ricordare che di per sé le proteine prioniche «svolgono importanti funzioni, regolano il metabolismo cellulare e garantiscono il buon funzionamento del nostro organismo» (81).
Figli e proteine possono dunque sostenere la vita di un umano e possono anche distruggerla. Banale ma non per questo meno vero.

Ermeneutica e placebo

Mente & cervello 115 – luglio 2014

 

M&C_115_luglio_2014Lo ripeto spesso: l’antroposfera è inseparabile dalla zoosfera, dalla teosfera e dalla tecnosfera. Le indagini neurologiche e antropologiche mostrano con chiarezza che «quando un individuo manipola strumenti, questi divengono parte del suo corpo, o meglio, il cervello li codifica come se gli strumenti avessero un’esistenza equivalente a una qualsiasi parte del corpo». Questo vale anche per altre specie che utilizzano strumenti, come le scimmie, per le quali «il rastrello è assimilato all’immagine della mano. Il numero di neuroni che inizialmente codificava l’immagine si espandeva per incorporare anche il rastrello» (Atsushi Iriki, rispondendo ad Antonella Tramacenere, p. 98). Gli strumenti non sono mai neutri, una frase come ‘dipende dall’uso che se ne fa’ è perlomeno ingenua. L’uso dei videogiochi, dei cellulari, dei computer «sta avendo effetti profondi sul nostro cervello, sulla capacità di riutilizzo delle risorse neurali e probabilmente sulle nuove connessioni di aree sensoriali e motorie» (Id., p. 100). E tuttavia la modalità di funzionamento del cervello rimane profondamente analogica e non digitale poiché «il sistema nervoso degli animali non necessita, come i computer, di enorme rigore e capacità di elaborazione di grandi quantità di dati tutti in una volta, bensì deve essere in grado di adattarsi e imparare continuamente e con il minor dispendio di energia possibile. L’evoluzione ha selezionato macchine ottimizzate per interpretare e associare input esterni, percepiti anche in modo impreciso, e tradurli in schemi complessi plasmandosi di volta in volta sulla base delle esperienze acquisite» (M. Semiglia, p. 20).
Il milieu tecnico, naturale e culturale nel quale gli umani sono costantemente immersi li plasma infatti di continuo, li condiziona e nello stesso tempo li rende imprevedibili nel rispondere all’ambiente, alle sue condizioni, alle sue richieste. Interessantissima è, pure da questo punto di vista, l’esperienza di totale isolamento che si vive nella base antartica Concordia, ben più irraggiungibile e isolata -anche se può sembrare strano- rispetto alle astronavi che ruotano intorno al pianeta. Da febbraio a novembre, infatti, la temperatura raggiunge gli 80 gradi sotto lo zero e nessun mezzo di trasporto può raggiungere la base. Si tratta di una sfida che comporta rischi anche gravi e che in ogni caso cambia la vita di chi vi si sottopone, come viene raccontato in un coinvolgente articolo di Giorgio Di Bernardo (pp. 64-71).
Il corpomente a tutto si adatta, o cerca todo modo di farlo, perché tutto interpreta secondo i propri schemi, bisogni, aspirazioni. Una delle conferme più potenti di tale attitudine è l’effetto placebo, «ossia l’effetto terapeutico di sostanze inerti o procedure fasulle» (T. Gura, p. 90), la cui possibilità dipende dalla regolazione endogena della quale il corpomente è capace; una facoltà, questa, non soltanto chimica ma anche profondamente ermeneutica, consistendo nell’«abilità degli esseri umani di reinterpretare le situazioni» (Id., p. 94). Tra le più recenti acquisizioni riguardanti l’effetto placebo c’è l’importanza del medico. Se coloro che curano si mostrano coinvolti, interessati, attenti alla vicenda

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Memorie e Differenza

Mente & cervello 114 – giugno 2014

M&C_114_giugno_2014Gli altri animali sono per l’appunto altri rispetto all’umano ma lo sono come le tigri sono anch’esse altre rispetto a tutto il resto del mondo animale, umani compresi. E così pure le lucertole e i gatti e le api. Ogni specie è altra rispetto all’intero. Ma lo è come sezione di una totalità della quale tutti gli animali sono parte. Ritenere che la specie umana abbia qualche primato è del tutto privo di senso dal punto di vista sia biologico sia logico. Ogni specie ha delle particolari caratteristiche, peculiarità, strutture e funzioni. L’antropocentrismo di Pico della Mirandola è chiaramente un errore. Che lo sia è ampiamente dimostrato da tutto l’insieme delle scienze naturali. È un errore tuttavia ancora molto praticato, anche e forse soprattutto per ragioni religiose.
L’affermazione con la quale Marco Cattaneo chiude l’editoriale di questo numero di Mente & cervello va quindi applicata non all’umano soltanto ma a ogni specie vivente: «La nostra unicità non può più essere banalmente considerata un sinonimo di superiorità» (pag. 3); altrettanto ‘unica’ infatti è ogni altra specie. Gli articoli che compongono il dossier intitolato L’intelligenza degli altri si occupano soprattutto delle api, degli elefanti, dei macachi, dei delfini. Ciascuna di queste specie possiede delle abilità cognitive diverse dalle altre. Ridurre tale ricchezza della materia e della natura al solito, ossessivo, ridicolo confronto con le caratteristiche di una ben precisa specie -la nostra- è davvero penoso. È quindi vero che scimpanzé e umani condividono il 96% dei geni. È vero che -come afferma C. Boesch «gli scimpanzé hanno un sé autobiografico, ossia sanno di esistere nel tempo, pianificano il futuro e sono in grado di ricordare dettagli specifici del passato anche lontano» (cit. da A. Meldolesi, 28). È vero che in un alveare alcune api sono coraggiose ed esploratrici e altre più timide e domestiche. È vero che gli elefanti vivono in complesse strutture matriarcali e vegliano i loro morti. È vero che alcuni uccelli possiedono una memoria spaziale di straordinaria potenza.
Ma ciò che conta non è ciascuna di queste differenze. Ciò che conta è non misurare tali elementi in relazione ad analoghe caratteristiche dell’Homo sapiens ma semplicemente accettare la Differenza come valore non gerarchico. E invece l’articolo di Meldolesi -che introduce il dossier- rimane contraddittorio nel muoversi tra il riconoscimento di tale differenza e la ribadita superiorità umana, a partire dalla accettazione della vivisezione, metodologia che se applicata agli umani farebbe gridare al crimine. Indice di tali contraddizioni sono le immagini che costellano l’articolo, nelle quali si vedono alcuni fotomontaggi che riducono dei cani alle patetiche figure di giocatori di scacchi in camicia e papillon, medici in cravatta e occhiali, giocatori di tennis con fascia in testa e racchetta in zampa. Evidentemente oltrepassare davvero i pregiudizi dello specismo è difficile. Ma è questione di tempo.
Si diceva della strepitosa memoria spaziale di un uccello come la nocciolaia di Clark. La memoria è naturalmente parte fondamentale dell’intelligenza e dell’identità di tutto ciò che ha coscienza di esistere. «Senza memoria non potremmo sopravvivere», come racconta James McGaugh ad Anna Lisa Bonfranceschi (79 e 83). McGaugh ha in particolare studiato i rari casi di ipertimesia, di persone che hanno una highly superior autobiographical memory (HSAM). Casi che si avvicinano, senza toccarla naturalmente, alla memoria del personaggio borgesiano Ireneo Funes. Costoro non riescono infatti a dimenticare. La memoria è una funzione complessa e affascinante, che coinvolge i sensi, la coscienza, l’identità. Come ben sa ogni lettore di Proust, anche «gli odori hanno il potere di richiamare alla mente ricordi di luoghi e momenti vissuti» (M. Saporiti, 20). I ricordi sono la vita stessa, tanto è vero che «la differenza tra memorie più o meno forti sta nella portata emotiva sperimentata durante la formazione della memoria. Più è forte l’emozione che si prova, più facile sarà ricordare gli eventi legati a quell’emozione»  (Bonfranceschi, 82-83).
Un ulteriore elemento che accomuna l’umano alle altre specie sociali è il branco, il conformarsi al branco. I celebri esperimenti di Salomon Asch, ricordati da D. Ovadia (pp. 66-69), hanno mostrato che quando in un gruppo anche ristretto la maggioranza fa affermazioni palesemente insensate, un individuo isolato comincia a condividerle, per quanto continui razionalmente a percepirne l’insensatezza. Se invece gli si dà la possibilità di rispondere per iscritto o senza che gli altri sentano la sua risposta, eviterà di accettare tesi assurde. Sta anche in tale condizionamento la forza del potere

 

Lentezza / Animali / Diritto

Mente & cervello 113 – maggio 2014

M&C_113_maggio_2014«Peggio ancora: il cervello si abitua alla velocità e ne vuole sempre di più» (S. Bohler, p. 27). A (quasi) tutto infatti si abitua il cervello. E specialmente alle caratteristiche che riguardano la sostanza temporale del corpomente. E pertanto via via che il nostro vivere si fa trafelato, via via che diventa pieno di stimoli elettronici -quelli veicolati dai computer, dai cellulari, dalle tavolette-, il cervello si adatta e anzi ne vuole di più. Un tempo breve ma vuoto di tale pungolo ci sembra non passare mai e soprattutto ci appare vuoto di sostanza oltre che di eventi. Gli studi sempre più numerosi sulla struttura temporale dell’umano ci dicono però che sarebbe meglio abituarsi anche «a premere il freno per recuperare la lentezza» (Ibidem). L’accellerite cronica, coniugata all’utilizzo pervasivo degli strumenti di comunicazione personale, sembra produrre un vero e proprio tecnostress poiché per un ente del tutto temporale qual è l’essere umano «la sensazione di non avere abbastanza tempo è già in sé fattore di stress», in quanto «molti compiti, professionali o domestici, sarebbero gradevoli se disponessimo di abbastanza tempo per eseguirli. Ciò presupporrebbe però che limitassimo molte attività annesse: che trascorressimo meno tempo su Internet o davanti alla televisione, che perdessimo meno tempo sui mezzi di trasporto e così via» (C. André, 38). È una conferma del fatto che l’equilibrio psicosomatico (la salute mentale) consiste  in gran parte in un rapporto armonioso con il tempo che siamo.
Tempo che in un malato di Alzheimer sembra progressivamente dissolversi nell’oblio di ciò che si è stati, nella chiusura dei sentieri dell’ha da essere e quindi nell’inconsistenza dell’istante che si è. Una struggente documentazione fotografica di Fausto Podavini lo conferma nei gesti colmi di dinamismo di Mirella e nella reazione immobile e spenta di suo marito Luigi (pp. 60 sgg).
Tempo che sembra improvvisamente rallentare nei pochi secondi che trascorriamo all’interno di un ascensore in compagnia di sconosciuti. Ci comportiamo esattamente come delle scimmie chiuse in una piccola gabbia. Per noi umani come per loro «l’obiettivo è evitare in ogni modo lo scontro, che in spazi così ristretti e soprattutto con un individuo mai incontrato prima, potrebbe avere esiti imprevedibili». Questa e moltissime altre esperienze dimostrano «che allo specchio guardiamo una scimmia nuda» (M. Motta nella recensione a A che gioco giochiamo noi primati, di Dario Maestripieri, pp. 104-105).
Anche questo nostro legame assoluto con gli altri animali spiega perché moltissimi dei soggetti che scatenano la loro violenza sui conspecifici hanno da bambini e adolescenti torturato e ucciso animali di altre specie. È ormai accertata l’esistenza di «un legame statisticamente significativo tra le condotte crudeli contro gli animali e la delinquenza grave», un legame tra «la maniera in cui trattiamo gli animali e quella in cui trattiamo le persone non sono più separabili» (L. Bègue, 90 e 93). Non a caso gli adulti crudeli nei confronti di bambini, donne, anziani sono assai spesso crudeli anche verso gli altri animali. Si tratta infatti di infierire su soggetti più deboli e poco difesi.
Il criminologo Massimo Picozzi nella sua rubrica analizza il caso di Desirée Polverini, che nel 2002 venne aggredita e uccisa senza alcun motivo da un gruppo di adolescenti guidati da un adulto. Durante i processi che seguirono questo efferato delitto, in nessuno dei colpevoli venne trovato «un vizio di mente che ne limitasse la responsabilità» (15). Tutti ‘capaci di intendere e di volere’, tutti in grado di decidere. Non è vero, naturalmente. È infatti nella natura stessa di tali soggetti che sta la causa delle loro azioni. Il diritto cristiano moderno -non quello greco/pagano- è molto lontano dalla comprensione profonda dell’umano. Non bisogna cercare responsabilità, che non esistono. Basta limitarsi ai comportamenti e al danno che producono. E quelli punire. Come Edipo, che non sapeva ciò che faceva. Ma che viene punito lo stesso per ciò che aveva fatto. È questo la giustizia.

 

Dormire

Mente & cervello 112  – aprile 2014 

M&C_112_aprile_2014«Contrariamente all’opinione comune, non percepiamo il mondo con gli occhi, con le orecchie o con la pelle. Piuttosto vediamo, udiamo e proviamo sensazioni tattili essenzialmente con il cervello» (E. Kühn, p. 54). Anche perché se alla retina -ad esempio- arrivano circa dieci miliardi di bit di informazioni al secondo, i vari e complessi passaggi del sistema visivo ne riducono drasticamente il numero a circa 100 bit al secondo. Massa decisamente insufficiente a generare una visione sensata e cosciente del mondo «se non intervenisse una certa quantità di informazione dall’interno stesso del cervello e, per l’esattezza, proprio dal DMN» (D. Ovadia, p. 89), vale a dire dal Default Mode Network, l’incessante attività dell’encefalo che non si interrompe mai, neppure quando stiamo fermi a non pensar nulla, quando rimaniamo passivi rispetto a ogni stimolo e percezione, quando dormiamo.
Quest’ultima attività è assolutamente necessaria per non morire. Ma perché? A che cosa serve cadere nel sonno? Le risposte sono diverse. Quella classica ipotizza che il sonno sia uno strumento con il quale il cervello consolida le connessioni elaborate durante la veglia, in questo modo rafforzando memoria e apprendimento. Un’ipotesi più recente, al contrario, vede nel sonno una sorta di reset, di azzeramento delle connessioni superflue e quindi la predisposizione a crearne di nuove. In ogni caso, al risveglio siamo davvero persone un poco diverse rispetto a quelle che sono andate a dormire. Anche nell’ambito degli studi sul sonno negli altri animali -tutti i viventi consapevoli dormono, anche se in maniere differenti- si verificano degli autentici orrori metodologici e comportamentali. Una vera e propria vivisezione psicologica è costituita, ad esempio, da metodi che impediscono a dei topi di dormire, con il risultato che questi animali muoiono dopo pochi giorni. Se ne conclude che il dormire è indispensabile alla sopravvivenza. Sono necessari «esperimenti» così sadici e del tutto inutili per confermare tale banalità, più volte ormai provata? Se la risposta è «sì», propongo di sottoporre gli ideatori a un protocollo altrettanto illuminante: proviamo a non fare più dormire lo sperimentatore e vediamo se agli umani accade oppure no la stessa cosa che agli altri animali. In fondo se non verifichiamo non possiamo ancora saperlo, vero?
A proposito di morte e immortalità, sembra che la presenza nella specie umana di quest’ultima idea sia dovuta anche alle nostre capacità empatiche, di immedesimazione con gli altri. Secondo Natalie Emmons, infatti, «siamo così bravi a immaginare che cosa provino o desiderino gli altri, per capirne le intenzioni, che questa abilità invade altre parti del nostro pensiero, portandoci ad attribuire emozioni e bisogni a un ‘noi’ non ancora, o non più, esistente» (p. 22). La radice è la stessa delle fantasie, delle allucinazioni, dei sogni, vale a dire è la potenza semantica del corpomente che istante per istante costruisce «una narrativa che dia senso alle nostre esperienze» (V. Daelli, p. 22).
Meraviglioso, potente e fragile è questo nostro cervello. Progettato dall’evoluzione per una durata che non può ampliarsi al di là di alcuni limiti. Lo dimostra anche la tragedia dell’Alzheimer, sindrome che secondo vari esperti non è neppure una malattia ma è il destino naturale di un corpo che continua a esistere anche quando questa vita non è più finalizzata agli obiettivi della specie, anche quando -in altre parole- si invecchia. Leonardo Tondo ricorda, a questo proposito, che una specialista ha sostenuto «che la malattia di Alzheimer è una degenerazione del nostro cervello quasi fisiologica e che, se vivessimo fino a 120 anni, probabilmente tutti potremmo esserne affetti. Infatti l’incidenza aumenta del 2-3 per cento nelle persone di 60 anni fino a circa il 50 per cento nella fascia tra gli 80 e i 90 anni» (p. 8).
I bastioni del tempo sono incrollabili, ogni hybris viene punita.

 

Isotta e la psichiatria

Mente & cervello 110  – febbraio 2014 

M&C-110_febbraio_2014«Ma ancora oggi non esistono rimedi efficaci contro l’amore, e noi continuiamo a essere assolutamente indifesi di fronte ai suoi effetti» (S. Dieguez, p. 31). Che cos’è dunque la pozione che ogni volta ripete l’incanto che attirò senza scampo Tristano e Isotta dopo che ebbero casualmente bevuto dalla stessa coppa? Già la tradizione di questo mito distingue tra una versione per la quale i due erano reciprocamente indifferenti, e soltanto la chimica li spinse l’uno verso l’altra, e una diversa tradizione trobadorica secondo la quale «la pozione avrebbe unicamente l’effetto di rivelare e rafforzare un amore già presente in Tristano e Isotta» (34). Nella prima versione l’effetto svanisce dopo alcuni anni, nella seconda dura per sempre. In ogni caso l’amore sembra davvero -anche neurologicamente- «‘cieco’, perché gli affetti positivi non coinvolgono le aree responsabili della formazione dei giudizi sociali e impediscono la valutazione razionale e obiettiva della persona» (36). Un amore che in realtà nasce da noi, non soltanto come «riflesso della nostra tenerezza» (Proust) ma anche come capacità del corpo di produrre la pozione, il filtro magico che ci avvinghia, dopamina, ossitocina, endorfine: «La ‘sostanza’ dell’amore, nelle ricerche scientifiche, è prodotta dal corpo stesso. Il corpo sarebbe dunque, in qualche modo, un mago che incanta se stesso» (36).
Contrariamente a una convinzione assai diffusa, «la palma del romanticismo spetta agli uomini, più portati delle donne a una visione sentimentale dell’amore» e ciò per una ragione evolutiva che consiste nel fatto che mentre il maschio può affidarsi senza gravi conseguenze al desiderio e alla passione, «le donne hanno sempre dovuto essere prudenti nella scelta del partner e del padre dei loro figli» (P.E. Cicerone, 28). Maschi o femmine che si sia, nella sessualità domina un «primato della mente» che qualche volta impedisce  di arrivare all’orgasmo, ostacolato da un insieme densissimo di pensieri e di preoccupazioni, tra cui anche il dare e ricevere piacere. (K. Sukel, 45).
Non so in che modo l’amore compaia nella più recente versione -la quinta- del  DSM, il Manuale Diagnostico usato dagli psichiatri di tutto il mondo e sempre più caratterizzato da una visione onnipervasiva della malattia mentale. Contro l’invenzione delle malattie si intitola infatti l’intervista rilasciata da Allen Frances, direttore della precedente versione del manuale e ora decisamente (auto)critico verso ciò che definisce una vera e propria «inflazione diagnostica» (66), sempre più rivolta a «trattare farmacologicamente i normali problemi dell’esistenza» (69).  Frances afferma con chiarezza «che alcuni comportamenti fanno parte della natura umana. Non possiamo pretendere che le persone non siano più timide, tristi o arrabbiate. Le emozioni ci aiutano a sopravvivere, si dovrebbe intervenire solo quando la sofferenza diventa paralizzante e compromette il normale funzionamento della vita. Ma negli ultimi anni questa soglia è stata abbassata» (67). Un potere, quello della psichiatria, che si basa anche sulla capacità che la mente possiede di riplasmare semanticamente gli eventi e persino di inventare ricordi di fatti mai accaduti, come hanno dimostrato i lavori di Elizabeth Loftus. Le conseguenze in ambito giuridico -sulla plausibilità delle testimonianze oculari, ad esempio- sono consistenti e non devono farci dimenticare «che gli psicoterapeuti sono le persone che più facilmente possono manipolare i ricordi di un individuo, fino a portarlo ad accusare i propri familiari di crimini e molestie mai accadute» (D. Ovadia, 73).
Tale medicalizzazione della vita interiore è assai grave se si pensa che molti degli stati di inquietudine e di tormento affondano nella genetica. Le ricerche più recenti danno ragione ai lavori di Vincenzo Di Spazio, il quale da tempo sostiene che «anche un’esperienza negativa dei genitori può passare ai figli attraverso modifiche epigenetiche che lasciano un’impronta duratura. Numerosi studi hanno indicato che un trauma subito dai genitori può far sì che nei figli si manifestino disturbi di tipo depressivo» (A. Oliverio, 18). È un grande risultato, questo, che spiega meglio anche la Stimmung, la tonalità emotiva che percorre le nostre vite e che non dipende soltanto da quello che ci accade ma anche da un carattere che affonda negli eventi vissuti da coloro dai quali siamo germinati. Fuori dal nostro controllo dunque. Soltanto essendo consapevoli di tale potenza del tempo nei corpimente possiamo cercare di ridurne i più dolorosi effetti.

 

Pensieri e parole

Mente & cervello 109 – gennaio 2014

M&C_109_gennaio_2014Poche parole, quasi sempre le stesse, e costruzioni sintattiche elementari. E tuttavia, tra i 25 e i 28 mesi della vita di un cucciolo di Homo sapiens, ascoltando tali espressioni il bambino comincia a parlare. Come può accadere una cosa simile? Da così pochi elementi nasce infatti la forza della comunicazione verbale, la sua potenzialmente infinita produzione -definita ricorsività-, la sua capacità di creare significati sempre nuovi, i quali eccedono «la somma semantica dei singoli elementi» -la compositività. (R.V. Solé, B. Corominas Murtra, J. Fortuny, p. 38). È il cosiddetto ‘problema logico dell’acquisizione del linguaggio’. Nonostante il grande sviluppo degli studi, risposte certe non ce ne sono. Risolvere, o almeno chiarire meglio, la questione consentirebbe di comprendere più a fondo non soltanto lo statuto della mente ma anche lo stesso processo dell’ominazione e l’identità della nostra specie.

Secondo molti scienziati fu l’apparizione del linguaggio a cambiare per sempre il nostro modo di adattarci al mondo. […] In fisica, si chiamano sistemi complessi quelli formati da un gran numero di elementi che esibiscono proprietà «emergenti». Queste ultime si distinguono perché, pur risultando dall’interazione di singoli elementi del sistema, non sono spiegabili come la semplice somma degli stessi. Il linguaggio umano appartiene a questa categoria di sistemi: come un formicaio non può essere descritto alla stregua di un semplice ammasso di insetti, così il linguaggio non è la mera giustapposizione di un insieme di parole [ma è un] sistema di comunicazione efficiente, flessibile e dotato di una capacità informativa illimitata. (Id., 33)

Il linguaggio umano è dunque una struttura olistica e non atomistica, legata in modo indissolubile alle facoltà mentali, alla capacità di elaborare rappresentazioni, concetti, scenari di realtà empiricamente non esistenti. Tra pensiero e linguaggio la dinamica è continua, incessante, anche se tra le tante cose che ignoriamo c’è anche la concreta modalità con cui tutto questo accade. Wernicke, ad esempio, riteneva che pensiero e linguaggio fossero due processi indipendenti; Vygotsky attenua la radicalità di tale distinzione con l’immagine di due cerchi sovrapposti, nella quale soltanto una parte dei due processi coincide; Jackendoff ritiene invece che «il linguaggio serve all’uomo non solo per esprimere i suoi pensieri, ma si riflette anche sui suoi pensieri, come una sorta di impalcatura che gli permette di creare ragionamenti più complessi rispetto agli organismi non linguistici» (cit. da C. Weiller, 26).
Anche dalla relazione che si istituisce tra pensiero e linguaggio nascono le diverse risposte date a un’altra questione fondamentale, quella del rapporto tra linguaggio e comportamenti. Per i sostenitori del ‘relativismo linguistico’ il linguaggio influenza il pensiero e dunque linguaggi diversi generano differenti concezioni della realtà e diversi modi di vivere in essa; a tale concezione di oppongono i sostenitori dell’universalismo linguistico, i quali affermano «che il linguaggio, pur con differenze superficiali, ha radici universali, e che i processi cognitivi sono gli stessi per tutti gli esseri umani» (F. Sgobissa, 48).
In realtà credo che anche questa discussione sia inficiata da un eccesso di dualismo. Pensiero e linguaggio sono espressioni diverse e profondamente correlate del corpomente immerso in uno specifico ambiente. Tale ambiente influenza quindi il pensiero che lo conosce, le parole che lo dicono, l’azione che in esso accade. E questo non in una direzione soltanto ma sempre in tutte. Mondo → Pensiero → Linguaggio diventano nel concreto esistere umano una sola realtà che si fa incessantemente Linguaggio → Pensiero → Mondo. E così via, senza fine sino alla fine.

 

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