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Sociologia della cultura

Che cos’è la Sociologia della cultura
di Rocco De Biasi
Carocci, 2008
Pagine 110

In sociologia per cultura si intende l’insieme delle «norme, valori, credenze, simboli che incontriamo sul nostro cammino nella vita di ogni giorno e che ci consentono di conferire un senso a quel che ci accade» (pag. 11). Si tratta dunque di ciò che Durkheim chiamava la coscienza collettiva, «l’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri della società» (27).
Centrale in queste definizioni è il concetto e la realtà del significato, di una semantica che avvolge e costituisce l’umano sia come individuo sia nella dimensione collettiva. Il valore fondativo della sociologia di Max Weber consiste anche e soprattutto nell’aver «conferito una centralità ai significati soggettivi attribuiti dagli individui alle loro azioni» (9), tanto che la spiegazione delle cause e degli effetti non può che essere successiva al coglimento di tali significati. Weber scrive che «“la cultura” è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo» (Il metodo delle scienze storico-sociali, [1904], Einaudi 1958, p. 96). Una sociologia comprendente fa questo: coglie, analizza, spiega la ragnatela di significati che intesse e costituisce la vita degli umani, le loro azioni, intenzioni, relazioni. Significati che la realtà fisico/chimica di per sé non possiede e che invece vengono donati dall’attiva presenza degli umani nel mondo. Non si dà alcuna immacolata percezione né mentale né sociale; il mondo è una “foresta di simboli”. Lo è sempre stato e lo è ancora di più nel presente delle reti, dell’industria culturale, della globalizzazione. «Ancor oggi persiste una centralità dello studio dei processi culturali. Per concludere con le parole di Clifford Geertz, “Ritenendo con Max Weber che l’uomo è un animale imprigionato in una ragnatela di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste reti” » (104).
Reti, appunto, al plurale. Il politeismo degli universi simbolici richiede spiegazioni sempre plurali e multicausali. Weber ha colto più a fondo il legame e il conflitto sociale rispetto al monocausalismo economicistico di molte analisi marxiane. Economia, religione, credenze, attese, memorie, paure, riti, aggressività, clan, visioni del mondo, poteri palesi e nascosti, contribuiscono insieme alla stabilità e al mutamento delle strutture collettive.
Fare sociologia della cultura significa dunque sforzarsi di cogliere gli elementi comuni sia alla elaborazione delle verità scientifiche -anch’esse «prodotto di pratiche cognitive radicate all’interno di un ben preciso contesto sociale» (46)- sia alla persistenza del sacro, a «quel complesso di oggetti e di credenze che in ciascuna religione viene concepito come qualcosa di separato e di superiore rispetto alle cose e alle occupazioni quotidiane profane» (29), che emergono ancora e fortemente nel tessuto collettivo, pur se in forme per lo più secolarizzate.
L’esistenza sociale è sempre anche un teatro sociale. “La vita quotidiana come rappresentazione” -secondo la giusta intuizione di Erwin Goffman- si esprime oggi nella rappresentazione che dentro le Reti ciascuno fa di se stesso, assume dagli altri, gioca e ricompone ogni giorno. La multidirezionalità -da molti a molti- di Internet è forse il fenomeno più innovativo, ricco e ambivalente, poiché la tecnologia culturale da un lato moltiplica le possibilità di comunicazione dei singoli e delle comunità virtuali, dall’altro «rappresenta oggi il principale strumento per l’esercizio del potere culturale o simbolico e l’industria dei media è l’istituzione sociale che si pone alla sua base» (79-80).
La sociologia della cultura esercita la sua funzione critica e comprendente anche distinguendo informazione e comunicazione. La prima è una tecnica ingegneristica e matematica che è stata ben descritta da Shannon e Weaver col teorema per il quale «la quantità di informazione equivale alla quantità di incertezza rimossa»; gli esseri umani, però, «rispetto ai calcolatori digitali, non si limitano a trattare informazioni, bensì appaiono continuamente immersi in un processo comunicativo basato sull’attribuzione di un significato sociale ai messaggi veicolati» (78). Si torna così al nucleo fondante della cultura: l’umano come dispositivo semantico.

Metapolitica

Ciò che possiamo fare adesso, subito, nei confronti dell’oppressione sociale e del conformismo culturale è capire, è opporre alla forza degli apparati politici la lucidità della metapolitica, dell’andare alla radice degli eventi per comprenderne e disvelarne la natura. Perché il dominio -Weber e Gramsci lo sapevano bene- si esercita soprattutto sulle menti, sulle convinzioni, sui paradigmi, sui modelli culturali. È «sul piano della conquista delle mentalità, e della loro omologazione allo spirito del tempo esistente, che si svolgono essenzialmente le partite che incidono sui destini del nostro mondo» (M.Tarchi in Diorama Letterario, n. 328, p. 2).
La propaganda pervasiva, ossessiva, costante e continua, fa sì che vengano accolte come ovvie e giuste decisioni, eventi e situazioni caratterizzate da palese ingiustizia e persino da brutalità. Solo qualche esempio, tra i tanti possibili:

  • la ‘comprensione’ verso la complicità della Turchia, paese membro della Nato, con i tagliagole dell’Isis, in funzione antisiriana e soprattutto anticurda, «la Turchia gioca, infatti, un gioco irresponsabile. Tutto quello che le interessa è nuocere a Bashar el-Assad ed impedire la nascita di uno stato curdo indipendente. Aiuta direttamente o indirettamente l’Isis e lo finanzia acquistandogli il petrolio» (A. de Benoist, 8);
  • il sorvolare sulla diretta responsabilità delle guerre statunitensi nella nascita dell’Isis, testimoniata dal fatto che i principali dirigenti di quella formazione politico-militare «non sono degli islamisti ma nella maggior parte dei casi, ex ufficiali dell’esercito di Saddam Hussein» (Ibidem);
  • il nascondimento del fatto che dopo la fine dell’URSS l’esistenza e l’ampliamento della Nato siano dettate da ragioni di puro imperialismo, le quali minacciano la sicurezza della stessa Europa, come persino il generale francese Vincent Desportes ammette; ignorare tale minaccia impedisce di difenderci dai nostri veri nemici, difenderci anche collaborando «senza riserve mentali con tutti i nemici dei nostri nemici, a cominciare dalla Russia, dalla Siria e dall’Iran» (Ibidem);
  • il silenzio, gravissimo e antidemocratico, sul TTIP, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, «il più pericoloso cavallo di Troia mai ideato per annientare la residua autonomia europea» (Tarchi, 3), un accordo a tutto vantaggio degli Stati Uniti e delle multinazionali, alle quali viene data facoltà e «potere di citare in giudizio l’autorità statuale fino a rovesciarne le leggi sovrane che regolamentano questioni di primaria importanza -come le relazioni del mondo del lavoro, l’inquinamento, la sicurezza agroalimentare, gli organismi geneticamente modificati», con l’obiettivo di rendere «norma la mercificazione dell’esistente. Non è un caso che i contenuti del mercato unico transatlantico e le sue motivazioni restino privi di trasparenza e discussione pubblica» (E. Zarelli, 31).

Dicotomie concettuali come destra/sinistra o moderatismo/estremismo si rivelano autentici miti invalidanti, che ostacolano la comprensione e quindi l’azione politica. L’espressione forse più significativa e più grave di tale paralisi è il primato delle questioni etniche e razziali rispetto ai problemi economici e alle prospettive di classe. Ignorando l’intero impianto della dottrina marxiana, «la sinistra radicale considera la regolarizzazione degli immigrati clandestini come il marcatore di sinistra per eccellenza, senza capire che serve oggettivamente il processo di dominio capitalista e mercantile» (C. Robin, 33). Il dispositivo concettuale marxiano dell’‘esercito industriale di riserva’ ha ancora molto da insegnare agli ‘umanisti’ liberali di sinistra che si fanno complici del Capitale senza neppure rendersene conto.

Guerre, migranti ed esercito industriale di riserva

«Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial], indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione. […]
Alla produzione capitalistica non basta per nulla la quantità di forza-lavoro disponibile che fornisce l’aumento naturale della popolazione. Per avere libero gioco essa ha bisogno di un esercito industriale di riserva che sia indipendente da questo limite naturale [Sie bedarf zu ihrem freien Spiel einer von dieser Naturschranke unabhängigen industriellen Reservearmee]. […]
L’esercito industriale di riserva preme durante i periodi di stagnazione e di prosperità media sull’esercito operaio attivo e ne frena durante il periodo della sovrappopolazione e del parossismo le rivendicazioni [hält ihre Ansprüche während der Periode der Überproduktion und des Paroxysmus im Zaum ]. […]
Il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa alberga infine nella sfera del pauperismo. Astrazione fatta da vagabondi, delinquenti, prostitute, in breve dal sottoproletariato propriamente detto, questo strato sociale consiste di tre categorie.
Prima, persone capaci di lavorare. Basta guardare anche superficialmente le statistiche del pauperismo inglese per trovare che la sua massa si gonfia a ogni crisi e diminuisce a ogni ripresa degli affari [seine Masse mit jeder Krise schwillt und mit jeder Wiederbelebung des Geschäfts abnimmt].
Seconda: orfani e figli di poveri. Essi sono i candidati dell’esercito industriale di riserva e, in epoche di grande crescita, come nel 1860 per esempio, vengono arruolati rapidamente e in massa nell’esercito operaio attivo».
(Karl Marx, Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4)

Aver dimenticato analisi come queste (decisamente poco ‘umanistiche’) è uno dei tanti segni del tramonto della ‘sinistra’, la quale vi ha sostituito le tesi degli economisti liberisti e soprattutto vi ha sostituito gli interessi del Capitale contemporaneo, interessi dei quali i partiti di sinistra sono un elemento strutturale e un importante strumento di propaganda. Negli anni Dieci del XXI secolo l’esercito industriale di riserva si origina dalle migrazioni tragiche e irrefrenabili di masse che per lo più fuggono dalle guerre che lo stesso Capitale -attraverso i governi degli USA e dell’Unione Europea- scatena in Africa e nel Vicino Oriente. Una delle ragioni di queste guerre -oltre che, naturalmente, i profitti dell’industria bellica e delle banche a essa collegate- è probabilmente la creazione di tale riserva di manodopera disperata, la cui presenza ha l’inevitabile (marxiano) effetto di abbassare drasticamente i salari, di squalificare la forza lavoro, di distruggere la solidarietà operaia. È anche così che si spiega il sostegno di ciò che rimane della classe operaia europea a partiti e formazioni contrarie alla politica delle porte aperte a tutti. Non si spiega certo con criteri morali o soltanto politici. La struttura dei fatti sociali è, ancora una volta marxianamente, economica.
Tutto questo si chiama anche globalizzazione. Il sostegno alla globalizzazione o invece il rifiuto delle sue dinamiche è oggi ciò che davvero distingue le teorie e le pratiche politiche, non certo  le obsolete categorie di destra e sinistra. È quanto ha compreso anche il filosofo Michel Onfray, che per questo è stato attaccato in modo tanto violento quanto sciocco dal primo ministro francese Manuel Valls. Davvero, come scrive Alain de Benoist, bisogna essere consapevoli «dell’incapacità dell’immensa maggioranza degli uomini politici di comprendere qualsiasi cosa che abbia attinenza con il dibattito delle idee. […] Non sono i lettori a interessargli, ma gli elettori» (Diorama letterario, n. 323, p. 9).
Si tratta della stessa classe dirigente che in Francia come in Italia va distruggendo la scuola e l’università con ogni nuova legge che emana. L’apprendimento a scuola di una cultura scientifica, filologica, filosofica che non sia banale e superficiale è infatti giudicato ‘discriminatorio’ verso coloro che non riescono o non vogliono imparare. Onfray afferma giustamente che in questo modo «la scuola di oggi uccide sul posto i figli di poveri e seleziona i figli della classi favorite che fanno fruttare nella vita attiva non quel che hanno appreso a scuola ma quel che hanno appreso a casa» (Ivi, p. 11).
Si tratta della stessa classe dirigente europea che sta facendo di tutto per far fallire il progetto di Syriza in Grecia, giudicandolo ‘irrealistico’. «Ma nei fatti l’irrealismo sta piuttosto dalla parte dei giornalisti liberali e dei cronisti stipendiati, i quali assicurano che un debito che è impossibile pagare dev’essere pagato comunque, che la sovranità popolare dev’esser considerata nulla e che è legittimo portare a compimento lo squartamento del popolo greco» (De Benoist, p. 15).
Si tratta della stessa classe dirigente che -cancellando la Libia di Gheddafi e sovvenzionando il terrorismo contro il governo siriano- ha creato il Califfato e l’ISIS; una classe che «pretende di battersi contro un nemico senza voler riconoscere che si tratta di un Golem da lei stessa generato. Il dottor Frankenstein non può lottare contro la sua creatura perché è la sua creatura» (Id., p. 17).

Il generale francese Vincent Desportes ha dichiarato apertamente (lo scorso 17 dicembre) che «lo Stato islamico è stato creato dagli Stati Uniti» (Ivi, p. 16). E così si spiegano sia i finti ‘respingimenti’ stabiliti dai governi sottomessi alla grande industria -la quale ha invece tutto l’interesse ad accogliere l’esercito industriale di riserva costituito dai migranti africani e asiatici- sia la miope accoglienza indiscriminata mediante la quale la sinistra non più marxiana ha sostituito la lotta di classe con l’adesione all’universalismo globalista.
Il risultato di tali dinamiche non ha nulla a che fare con forme di libertà e di giustizia tra i popoli ma rappresenta sostanzialmente «l’incubo di una Cosmopoli di atomi indistinti. Un ben triste scenario» (M.Tarchi, p. 3).

Il potere e la violenza

Ora tutti si affannano a dare consigli, se non prescrizioni, al Movimento 5 Stelle. «Bisogna allearsi con questo e con quello e non con quell’altro»; «attenzione ai partiti di destra» o addirittura ai «nazisti». Sembra che una parte della società europea non possa vivere senza questo tragico fantasma che governò la Germania per dodici anni (1933-1945) ma che evidentemente nell’immaginario dei suoi sostenitori e dei suoi nemici rischia di diventare davvero «il Reich millenario» sognato da Adolf Hitler. Quando il passato non passa -qualunque sia il suo contenuto- vuol dire che ci si è spostati dal territorio della politica, che è luogo temporale per eccellenza, a quello del mito, per il quale invece nulla passa e tutto è sempre identico a se stesso.
Altri reclamano le ‘dimissioni’ di chi in realtà non ha cariche e che quindi al massimo può ‘ritirarsi a vita privata’ senza più occuparsi di quella pubblica, ma non può ‘dimettersi’ da alcunché. Come scrive Aldo Giannuli: «Dimettersi da cosa? Grillo non ha cariche formali nel M5s, non ne è il segretario. Per cui la richiesta di dimissioni può significare solo che deve smettere di parlare e magari chiudere il suo sito. Mi sembra una richiesta eccessiva, che non si può fare neanche al leader più sconfitto del sistema solare: ma, allora, fatte le dovute proporzioni, uno come Veltroni cosa avrebbe dovuto fare? Per non dire di Paolo Ferrero». Condivido l’opinione di Giannuli, in particolare quando scrive che «il M5s ha sbagliato soprattutto nel sottovalutare le resistenze ambientali e la reazione del sistema. Insomma: non penserete che le classi dominanti stiano ferme ad aspettare di essere rovesciate? Chiedetevi perché Ferrara festeggia a cocaina o il “Giornale” dedichi il titolo  di apertura ai grillini asfaltati, mentre non avrebbero nulla di cui gioire per i propri risultati elettorali. È evidente che battere il M5s era l’obbiettivo di tutti, prima ancora che superarsi fra di loro. Il potere non permette di essere sfidato senza reagire».
Credo tuttavia che bisogna aggiungere anche altro, bisogna dire l’essenziale. Il Movimento 5 Stelle è un movimento -e non un partito-rivoluzionario, è un movimento eversivo dell’ordine attuale, che è l’ordine della mafia finanziaria alleata con la mafia di Cosa Nostra. Un ordine che le attuali istituzioni italiane ed europee garantiscono in pieno. Per intenderlo, basti pensare a come hanno agito negli ultimi anni le supreme cariche della Repubblica italiana in merito alle inchieste sui rapporti stato-mafia, in merito a governi costruiti negando totalmente i risultati elettorali, in merito alla grave assenza di garanzie per l’unica opposizione presente in parlamento.
Riflesso istituzionale, tutto questo, di una corruzione smisurata e capillare, che sta divorando il presente e il futuro del corpo sociale e delle nuove generazioni. La tragedia politica è che, come sempre, tutto questo avviene con l’attivo consenso di buona parte delle vittime. La tragedia culturale è che tutto questo in Italia avviene per il tramite fondamentale dell’informazione asservita al potere in un modo meno rozzo ma altrettanto efficace dell’informazione nordcoreana asservita al Caro Leader.
Ho votato e continuo a sostenere il Movimento 5 Stelle perché si oppone in maniera frontale e decisa a tutto questo, perché ha un progetto sociale e politico completamente opposto all’esistente ultraliberista e ai suoi effetti devastanti sull’ambiente geologico e antropico. Se tale Movimento dovesse adattarsi alle logiche di scambio e di compromesso con i distruttori della vita collettiva -in particolare con i vincenti del Partito Democratico Cristiano e i suoi satelliti ‘a destra e a sinistra’- tornerei al mio astensionismo libertario, sperando che il Movimento anarchico possa ricordarsi di quanto è detto nel capitolo XXIV del Capitale, vale a dire che la violenza -quando è azione collettiva e oggettiva- è la levatrice della storia, poiché in determinate condizioni è l’unica difesa dalla violenza sistematica del potere. Ricordarsi di ciò che sapevano, tra molti altri, Bakunin, Sorel, Che Guevara e che sanno oggi i movimenti NoTav e NoMuos, i quali rimangono comunque non violenti e quindi subiscono tutte le manganellate -fisiche e metaforiche- dello Stato italiano e dei suoi governi.
Opporre la pace a chi ti massacra -nel corpo e nel futuro- non è richiesto neppure dai codici giuridici borghesi, i quali prevedono il diritto alla legittima difesa. Il Movimento 5 Stelle è per me questa legittima difesa.

 

Sensazione / Ascesi

Domenica 9 giugno sono stato al cinema, a Catania. Come è ormai fastidiosa necessità, ho dovuto richiamare al silenzio un gruppo di persone: non degli adolescenti toppo vivaci ma alcuni maturi signori e signore tra i cinquanta e i sessanta anni. È la maleducazione, certo, ma è anche la consuetudine di vedere i film in televisione e di scambiarsi le opinioni sul film stesso o su altro. Il cinema vero, naturalmente, lo si gusta e percepisce soltanto nelle sale cinematografiche.
Ma non basta: davanti a me c’era un tizio che ha acceso almeno una dozzina di volte il suo cellulare per controllare qualcosa sulla propria pagina di facebook. Una vera addiction, una dipendenza grave, una droga che crea dei fenomeni di astinenza pari a quelli di qualunque altro stupefacente. Non è un caso che della sensazione sia parte la Sucht, parola che in tedesco indica insieme desiderio, passione, malattia, tossicodipendenza. Presente in quasi tutte le società umane, l’utilizzo delle droghe è diventato tossicodipendenza soltanto quando l’ebbrezza è stata separata dalla festa collettiva per diventare esperienza del singolo e quindi sua personale debolezza. Ma la sensazione è anche un’esperienza di ricchezza percettiva, intellettuale ed esistenziale; non è soltanto un sensazionale tanto più stordente quanto più psichedelico. La sensazione è lo stesso stare al mondo. Non è il televisivo oppio del popolo.
Ne abbiamo parlato quest’anno nel corso di Sociologia della cultura. E lo abbiamo fatto anche tramite un libro ricco e profondo come La società eccitata. Filosofia della sensazione di Christoph Türcke (Bollati Borighieri, 2012; ne ho accennato pure qui). Di fronte a fenomeni così pervasivi non si può secondo Türcke invitare all’astinenza ma piuttosto praticare un atteggiamento da “freno d’emergenza”, per citare il Benjamin (Sul concetto di storia, Einaudi 1977, p. 101) che alla rivoluzione come “locomotiva della storia universale” (Marx) contrapponeva le rivoluzioni come -appunto- freno d’emergenza del genere umano che sul treno della storia viaggia :

Sulle strade, nei centri commerciali, negli alberghi, nelle banche, nei luoghi di lavoro, ovunque uno, se vuole continuare a pensare con la propria testa, deve tentare di tirar su le paratie contro l’imperversare di imbonimenti e stimolazioni. […] Qualcosa di così poco importante come la decisione di tollerare o meno la musica di sfondo in un ristorante può diventare improvvisamente una questione di principio, una cartina di tornasole del coraggio civile. […] Il ricopiare testi e formule, che un tempo era il contrassegno del tutto comune della scuola repressiva, nelle condizioni dell’universale irrequietezza degli schermi, da cui anche le classi scolastiche sono sempre meno risparmiate, può diventare inaspettatamente una misura di concentrazione motoria, affettiva e mentale, di ingresso nella propria interiorità […] Insegnanti che prestano seriamente attenzione affinché non ci sia qui un sottodosaggio operano resistenza, per quanto in base alla terminologia politica tradizionale possano passare per conservatori. Dove ogni concessione al solleticamento mediatico dei sensi porta avanti l’autoespropriazione estetico-neurologica, là il tirare su delle paratie contro l’ininterrotta radiazione audiovisiva, equivale a prendere partito per la sensibilità dei sensi. Li mantiene aperti a un’esperienza conforme alle cose, diventa luogotenente del miglior godimento alternativo e porta nuovamente in luce il senso fondamentale dell’ascesi. […] Là dove essa diventa l’ultima ratio contro il vampirismo audiovisivo, si avvicina nuovamente al rimedio d’emergenza arcaico. (La società eccitata, pp. 331-332)

 

Staatsgewalt / Ausschuß

Un’altra clamorosa e gravissima conferma del miserabile stato dell’informazione -e quindi del potere- in Italia.

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Il monarca capriccioso
di Antonio Padellaro

Il vero problema di Giorgio Napolitano sono i giornali. Quelli (quasi tutti) che lo incensano da mane a sera, sempre pronti a mettere il violino automatico qualsiasi banalità scaturisca dalle auguste meningi, ma così abbagliati dal verbo del Colle da non vedere l’enormità di certe affermazioni dell’anziano presidente bis.
Lunedì 3 giugno infatti (quasi) tutta la stampa italiana ha scolpito sulle prime pagine la frase sul “governo a termine” pronunciata dal supremo monitore nei giardini del Quirinale.
Si trattava evidentemente di uno sconfinamento del tutto arbitrario del capo dello Stato dalle sue funzioni, ma (quasi) nessuno obiettò qualcosa, poiché – grazie ai giureconsulti di palazzo che tutto ingoiano in cambio di un gettone di presenza in qualche commissione – la Costituzione, come dice Camilleri, è bella che andata in vacca.
Tra le forze parlamentari ha reagito soltanto Grillo, chiedendo a che titolo Napolitano possa fissare un limite temporale al governo Letta, trattato come uno yogurt
, ma la cosa è stata liquidata come la solita mattana dell’ex comico.
Il Fatto, però, non è stato zitto e ha chiesto il parere autorevole di Barbara Spinelli che, alla domanda di Silvia Truzzi sulla data di scadenza del governo (“una cosa mai vista”), ha risposto che Napolitano ha “forzato” la Carta e che ormai “il presidenzialismo c’è già”.
A questo punto, tre giorni dopo i titoli dei quotidiani mai smentiti, si sveglia il Quirinale, dice che si continua ad “accreditare il ridicolo falso di un termine posto dal Presidente alla durata dell’attuale governo” e, udite udite, se la prende con la domanda della giornalista del Fatto, non avendo neppure il coraggio di contestare la risposta della Spinelli.
C’è poco da aggiungere. Che Napolitano si comporti come un monarca capriccioso non può sorprendere, visto che il governo delle larghe intese lo ha inventato lui miracolando Pd e Pdl che alle ultime elezioni hanno perso insieme dieci milioni di voti.
Idem per (quasi) tutta la stampa italiana che, a furia di sviolinate ai potenti, in cinque anni ha perso un milione di copie e svariati milioni di lettori e ora, col cappello in mano, elemosina nuovi contributi e incentivi.

il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2013

P.S. Titolo di ieri sul sito del Corriere della Sera (che lunedì come gli altri aveva annunciato il governo a termine): “Il Quirinale smentisce il Fatto”. Più chiaro di così.
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Non ho molto da aggiungere alle parole di Padellaro, se non un caldo invito a leggere l’intervista a Barbara Spinelli e la constatazione che quanto entrambi dicono sulla presidenza della repubblica italiana e sul parlamento ridotto a un insieme di domestici del «Monarca capriccioso» conferma ancora una volta ciò che Marx ed Engels scrissero nel Manifesto del 1848 a proposito dello stato moderno: «Die moderne Staatsgewalt ist nur ein Ausschuß, der die gemeinschaftlichen Geschäfte der ganzen Bourgeoisklasse verwaltet». In Italia questo “comitato che amministra gli affari comuni dell’intera classe borghese” è diventato il comitato che gestisce gli affari delle innumerevoli e agguerrite bande di delinquenti che stanno derubando la ricchezza della nazione. Peccato che la presidente della Camera dei deputati -la quale immagino conosca quel testo- e altri “comunisti” non se lo ricordino quando si mostrano scandalizzati da parole come queste: «Il Parlamento, luogo centrale della nostra democrazia, è stato spossessato dal suo ruolo di voce dei cittadini. Emette sussurri, rantoli, gemiti come un corpo in agonia che sono raccolti da volenterosi giornalisti per il gossip quotidiano. […] A che serve questo Parlamento? A cosa servono le elezioni? Il Parlamento è incostituzionale in quanto il Porcellum è incostituzionale e ora pretende di cambiare la Costituzione su dettatura del pdl e del pdmenoelle? Follia. Il Parlamento potrebbe chiudere domani, nessuno se accorgerebbe. È un simulacro, un monumento ai caduti, la tomba maleodorante della Seconda Repubblica».

Ultima cosa: il livello anche etico della persona di Napolitano è mostrato dal fatto che non ha avuto -appunto- nemmeno il coraggio di attaccare Barbara Spinelli ma soltanto chi le poneva le domande. È stata Spinelli, infatti, ad affermare che «l’urgenza, in Italia, sono i partiti totalmente inaffidabili e moralmente devastati; e la politica rintanata in oligarchie chiuse, che nemmeno ascoltano il responso delle urne. […] Grillo ha perfettamente ragione: dove sta scritto che il presidente determina in anticipo, ignorando le Camere, la durata dei governi? […] Inoltre abbiamo un presidente della Repubblica-presidente del Consiglio che gode di privilegi extra-ordinari , che nessun premier può avere. Tanto più perniciosa diventa la storia delle telefonate tra Colle e Mancino sul processo Stato-mafia. Esiste dunque un potere che ha speciali prerogative e immunità, senza essere controllabile. La democrazia è governo e controllo. Perché Grillo dà fastidio? Perché è sul controllo che insiste».

Dracula a Milano

Dracula e il mito dei vampiri
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di: Gianni Canova, Giulia Mafai, Margot Rauch, Italo Rota
Sino al 24 marzo 2013

Uno degli oggetti più curiosi di questa mostra è una piccola ampolla intitolata Diavolo sotto vetro. Sotto il vetro della loro comprensione gli umani vorrebbero porre il morire. Sotto il vetro della loro speranza vorrebbero mantenere la vita oltre la fine. È anche così che nascono le leggende dei non vivi e non morti, degli zombi, dei fantasmi, dei vampiri. Le origini storiche e psicologiche di tali narrazioni ne mostrano per intero la natura totalmente superstiziosa.
Il conte Vlad esistette davvero nella Transilvania del XV secolo. Fu feroce nello sterminio e -come altre famiglie del luogo- aveva nel simbolo araldico un drago, in rumeno Dracul. Ma morì anche lui e non fece più ritorno. Intorno ai cimiteri e alla loro putrefazione (quanto preferibile è la cremazione delle culture non cristiane) fiorì nelle culture contadine un catalogo di terrori. Ma la presunta crescita delle unghie e dei capelli è data dalla disidratazione della pelle e sono i rumori biologici dei cadaveri a essere interpretati come voci.
La nascita della leggenda moderna di Dracula è tutta dovuta alla letteratura e al cinema. Prima del Settecento, ad esempio, i vampiri non avevano alcun legame con i pipistrelli. Fu il naturalista Buffon a chiamare “vampiro” una nuova specie di questi mammiferi da lui scoperta. Lo scrittore irlandese Bram Stoker pubblicò nel 1897 il romanzo Dracula e da allora un esercito di vampiri abitò l’immaginario. Due delle opere cinematografiche più interessanti furono il Nosferatu gentile e timido di Herzog (1979) -chiara ripresa del capolavoro di Murnau (1922)- e il Dracula di Bram Stoker di Coppola (1992).

Al di là della storia, dell’arte e delle leggende popolari, perché? Qual è il significato di questa persistenza della vita dentro la morte in un’età così razionale come la nostra? Le risposte possono essere molte.
Karl Marx paragona il Capitale a un lavoro morto che vive del sangue del lavoro vivo e quanto più ne beve tanto più è vivo. Affermazione davvero attuale se si pensa al Capitale finanziario e alla sua natura implacabile, gelida e assassina.
La donna vamp è la sintesi della capacità femminile e in generale umana di succhiare agli altri sangue, amore, amicizia, denaro, per poi buttarli via quando più non ci servono.
La luce della ragione -opportuna metafora illuministica- dovrebbe coniugare la scienza alla pietà per i morti e per noi stessi che lo saremo. Questa luce dovrebbe accettare che la materia segua il suo corso di trasformazioni e di irreversibile entropia, dovrebbe regalarci la serenità epicurea che deriva dal sapere che dopo la fine rimane davvero e soltanto il niente. E liberarci quindi dalle paure che stanno al fondo dei racconti che la mostra milanese documenta con antichi libri e quadri, con brani dalle opere cinematografiche, con  ricostruzioni d’ambienti, con costumi e fumetti. Una mostra didascalica alla quale manca però, è il caso di dire, l’anima.

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