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«Lettera aperta agli amici sonnambuli»

Così si intitola il testo che Marino Badiale e Fabrizio Tringali hanno pubblicato sul loro sito lo scorso 18 luglio. Ne condivido contenuti e intenzioni. E dunque lo riporto qui per intero. Spero che questa Lettera contribuisca a svegliare quanti si credono ancora ‘di sinistra’ dal sonno dell’Euro. Sonno che diventa sempre più un incubo per la società europea e per i suoi popoli. L’Europa progettata alla fine della Seconda guerra mondiale si è trasformata in una prigione della quale la troika finanziaria tiene le chiavi, con l’obiettivo di non permettere a nessuno -cittadini, politici, intellettuali- di pensare a un Continente unito dall’identità culturale e non da quella bancaria. Identità nella Differenza che l’Europa è sempre stata.
L’Euro è una moneta-garrota, la quale sta strangolando lentamente e ferocemente le economie. Dall’Euro bisogna uscire -anche a costo di sacrifici- per le ragioni delineate con sobria chiarezza da questo testo.

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È evidente a tutti che la fine drammatica dell’esperienza del governo Syriza è uno spartiacque. Essa infatti rappresenta la verifica concreta, l’experimentum crucis che decide se una strategia politica sia valida oppure no. Non è difficile, se si ha onestà intellettuale, trarne le necessarie conseguenze. Proviamo a farlo in questa lettera aperta. Gli “amici sonnambuli” ai quali è indirizzata sono le tante persone del mondo “antisistemico” che in questi anni hanno protestato contro le politiche autoritarie e di austerità dei ceti dominanti, rifiutando però di porre la questione politica dell’uscita dell’Italia dal sistema euro/UE. La proposta dell’uscita veniva tacciata in questi ambienti di “nazionalismo”, e contro di essa veniva evocata la necessità della lotta unitaria dei ceti popolari europei.
Speriamo che la triste vicenda greca serva almeno a favorire un’ampia presa di coscienza su quali siano i nodi politici reali da affrontare in questo momento storico, se non si vuole soccombere.
Cerchiamo di riassumere i punti fondamentali della questione.

1. Il sistema euro/UE è irriformabile.

La strategia di Tsipras era quella di lottare, all’interno del sistema euro/UE, per strappare un compromesso avanzato, che permettesse al suo governo di porre fine alle politiche di austerità. Questa strategia è stata completamente sconfitta, tanto da essere accantonata dal governo greco ben prima dell’indizione del referendum, il quale è stato convocato solo per ottenere dalle istituzioni europee una qualche disponibilità alla ristrutturazione del debito.

Non ha alcun senso, quindi, pensare di riproporre una simile strategia, perché non è possibile ottenere alcun allentamento dell’austerità all’interno del sistema dell’euro/UE.

Le ragioni sono molte e ne abbiamo scritto molte volte. Ci limitiamo qui a sottolineare il fatto che sarebbe estremamente ingenuo pensare che sia impossibile cambiare le politiche europee solo perché le forze di sinistra non hanno abbastanza potere. E che, quindi, una vittoria delle sinistre in paesi forti come la Germania consentirebbe di rendere possibile ciò che oggi non si riesce a fare. Per smentire questa tesi è sufficiente vedere quale è stato, in queste settimane, l’atteggiamento della SPD tedesca, così come quello di Martin Schultz.

Così come non esiste possibilità che le oligarchie europee cambino le loro politiche, allo stesso modo è impensabile che esse possano essere messe in discussione tramite lotte popolari europee, come continuano a ripetere i sonnambuli, che per continuare a sognare “l’Europa dei popoli” devono necessariamente tenere gli occhi chiusi davanti alla realtà.

Anche su questo, infatti, le recenti vicende greche hanno dato una risposto molto netta. Veniamo così al secondo punto.

2. Non c’è nessuna solidarietà fra i popoli europei.

Nella sua lotta disperata, Atene è rimasta sola. Non c’è stata negli altri paesi europei nessuna iniziativa di solidarietà con la Grecia che sia stata significativa, capace di incidere. Possiamo invece facilmente immaginare cosa sarebbe successo se i popoli dei paesi creditori avessero potuto esprimersi sulle condizioni da imporre alla Grecia.

Aspettarsi che i popoli europei, che nel corso di questa lunghissima crisi non hanno finora mai manifestato una capacità di azione comune, possano camminare insieme nel prossimo futuro, significa fare una irresponsabile scommessa sulla pelle dei popoli stessi.

Al contrario, grazie al sistema euro/UE, i ceti dominanti europei sono più uniti e coordinati di prima (pur nei loro ineliminabili conflitti reciproci). Cosicché essi riescono a concentrare una enorme “potenza di fuoco” (UE, BCE, FMI) contro il popolo del paese che di volta in volta è bersaglio (la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia etc..) mentre quest’ultimo è solo, impotente.

Scegliere, come dicono i sonnambuli, il piano europeo come il piano della lotta, è un vero suicidio, perché su quel piano i popoli sono divisi e resteranno tali, mentre le oligarchie possono facilmente unire le forze. È soprattutto per questo che il progetto di un’Europa federale è da respingere, prima che per la sua difficoltà di realizzazione: perché se anche venisse realizzato, sarebbe non un sogno ma un incubo, l’incubo del dominio pieno delle oligarchie unificate su popoli divisi, deboli, costretti a cedere ai ricatti, come hanno dovuto cedere i greci.

Il piano della lotta deve quindi essere necessariamente quello nazionale. Questo non esclude affatto alleanze con le forze antisistemiche di altri paesi. Ma noi dobbiamo iniziare la nostra lotta in Italia, parlando al popolo italiano. Se e quando negli altri paesi si svilupperanno lotte analoghe, si cercherà di costruire collegamenti con esse.

3. L’inevitabile uscita dall’euro e dalla UE.

Nelle interviste rilasciate dopo il suo abbandono del governo, Varoufakis ha rivelato che una volta compreso che la strategia del governo non avrebbe condotto a nulla, aveva cominciato a progettare l’uscita dall’euro. Questo ci rivela alcune cose fondamentali.

La più importante è che l’uscita dall’euro sta nella logica della cose, se davvero si vuole lottare contro le oligarchie e il sistema euro/UE. Varoufakis aveva sempre dichiarato la sua opposizione al Grexit, ma, alla fine, la forza delle cose lo ha portato a porla come opzione. La realtà vince. Dalla posizione di governo, il ministro delle finanze greco ha visto che se si esclude a priori l’uscita dall’euro, ci si consegna mani e piedi alle oligarchie contro cui si combatte. La posizione di Tsipras, che si può riassumere con la frase “negoziamo, ma sia chiaro che noi non usciremo dall’euro” ha reso facilissimo alle istituzioni imporre qualunque cosa, sotto la minaccia, appunto, della cacciata dall’eurozona.

E’ chiaro quindi che se si vuole seriamente lottare contro le oligarchie e si decide di farlo provando a negoziare con esse, bisogna almeno avere pronto il piano B dell’uscita dall’euro. Ma questa considerazione non è senza conseguenze. Infatti l’uscita dall’euro non può essere un segreto, una specie di inganno: se ci si presenta alle elezioni pensando ad essa come ad una possibilità, gli elettori devono essere informati. Questo non per una astratta “moralità democratica”, di cui peraltro non neghiamo il valore, ma perché l’uscita dall’euro (e dalla UE), come abbiamo detto molte volte, non è la soluzione di tutti i problemi, è “solo” la “condicio sine qua non” per la riapertura della possibilità di una vera alternativa alle politiche attuali.

L’abbandono del mostro europeo comporterà prezzi da pagare. Decidere chi li paga, e come, è politica. Occorrerà decidere cosa fare della riacquistata libertà, verso quali obiettivi indirizzare la politica economica. E su questo si scontreranno le diverse forze politiche.

L’uscita dall’euro e dalla UE significa cioè l’inizio di una nuova fase di lotta politica. Le forze antisistemiche non avranno altra base cui poggiarsi che le masse popolari. Ma tali masse devono essere preparate, devono sapere cosa le aspetta. Devono sapere, se votano per forze antisistemiche, che il loro governo prevede l’uscita dall’euro e dalla UE, almeno come opzione B. Se non c’è questa coscienza, l’eventuale uscita potrebbe rappresentare un disastro, perché potrebbe addirittura essere vissuta come sconfitta o tradimento.

Queste considerazioni, che emergono con chiarezza dalla vicenda greca, ci confermano quello che in questi anni abbiamo sempre ripetuto: l’uscita dall’euro e dalla UE è una componente necessaria nel programma politico di una forza realmente antisistemica.

Politica

In un commento di oggi a Mummificati, Diego Bruschi constata «la profonda e radicale diversità del M5S rispetto all’insieme di tutte le altre forze parlamentari» e mi chiede: «È vero che tu sei un Professore ed uno studioso apprezzato ma non un politico, ma se tu fossi Grillo, come procederesti?». È una domanda talmente importante e impegnativa da rendere opportuna una risposta un poco articolata.
Il 5 Stelle è un movimento politico di cittadini che operano affinché democrazia, equità, libertà non rimangano parole buone per qualunque discorso e quindi parole nulle, ma diventino un po’ più realtà quotidiana. Niente di particolarmente eclatante, dunque, per una società decente. Non per l’Italia, evidentemente.
Lo conferma un breve intervento pubblicato oggi su Mainstream, sito di analisi politica che era era stato assai duro con il M5S prima delle elezioni. A riprova dell’onestà intellettuale di chi lo anima, uno dei suoi fondatori –Marino Badiale– ora scrive:

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Ci sembra molto grave la vicenda della violazione della mail di alcuni parlamentari del M5S. E ancor più grave la sostanziale indifferenza delle istituzioni e la scarsa attenzione dei media. Ha ragione Grillo: fosse successa la stessa cosa a un Brunetta o a un Cicchitto (o a una Finocchiaro, aggiungiamo noi) le grida e le proteste avrebbero riempito i telegiornali. Facciamo solo due considerazioni: in primo luogo, il fatto che una cosa del genere non sia mai successa prima, nonostante il clima di accesa contrapposizione fra gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra, è un altro indizio del fatto che tale contrapposizione era solo un’apparenza. La casta è sempre stata unita e coesa, e fra amici certi scherzi non si fanno. In secondo luogo, ed è solo l’altra faccia della medaglia, un simile fatto è indice di come il M5S sia esterno alla casta e sia percepito da essa come un pericolo. Non abbiamo ovviamente elementi per fare ipotesi sensate su esecutori e mandanti, ma davvero ci sembra difficile non pensare che qualcuno dall’interno di quel potere che i grillini vorrebbero attaccare abbia voluto mandare un segnale, un avvertimento affinché certe linee sensibili non siano toccate.

(M.B.)

PS Per un inquadramento generale della situazione politica attuale, nella quale si inserisce questo episodio inquietante, rimandiamo a questo intervento di Leonardo Mazzei.
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(Fonte: Inquietante)

Nell’articolo segnalato da Badiale (la cui lettura consiglio vivamente per comprendere che tipo di governo sia quello entrato in carica oggi), Mazzei scrive che «il terremoto prodotto dalle elezioni di febbraio ha spaventato sul serio il blocco dominante».
Venendo alla domanda posta da Bruschi, la prima reazione sarebbe dunque di scoramento, di rassegnazione di fronte a un blocco di potere nazionale e internazionale così duro nel difendere i propri privilegi di classe e di ideologia. Ma, per quanto mi riguarda, la parola “resa” non esiste.
Quindi se potessi prendere delle decisioni riguardanti il M5S che cosa farei? Sostanzialmente quello che Grillo sta già facendo:

  • Ribadirei ogni giorno (in primo luogo ai parlamentari del Movimento, agli iscritti e poi a tutti gli altri) che la reazione stessa dei poteri dominanti dimostra che il M5S è arrivato a toccare il cuore del potere.
  • Cercherei di spiegare con pazienza la complessa realtà che si cela dietro l’immensa finzione mediatica e spettacolare.
  • Curerei meglio le competenze giuridiche e politiche di tutti i parlamentari ed eletti del Movimento.
  • Proporrei dei capigruppo più preparati -anche dialetticamente- rispetto a quelli attuali.
  • Cercherei alleanze non con i partiti presenti in Parlamento (non lo farei per le ragioni indicate da Mazzei nella sua analisi) ma con altri movimenti della società civile. E ce ne sono tanti. Cercherei, insomma, di pormi come luogo di sintesi -non autoreferenziale- della elaborazione collettiva che è in corso, pur se repressa o emarginata, contro l’ultraliberismo criminale.
  • Informerei in modo capillare sui comportamenti e sui risultati dei lavori di tutte le commissioni parlamentari, mediante analisi semplici ma esatte stilate dai membri del Movimento che di tali commissioni fanno parte.
  • Rivendicherei ancora più nettamente la distanza dalle bande criminali (alias, «partiti») che stanno distruggendo l’Italia da vari decenni.
  • Mi porrei obiettivi anche di lungo periodo, perché nel breve la reazione finanziaria, mafiosa, imperialistica e criminale ha vinto (per capirlo basta osservare i nomi di chi davvero conta in questo governo).
  • Risponderei con le mie azioni e con le mie parole soltanto alla mia coscienza di cittadino e di uomo libero, esattamente come i partigiani. Perché di questo si tratta, come avevano ben compreso tra gli altri Debord e Foucault: di un fascismo pervasivo, ipocrita e feroce.
  • Il Partito Democratico è morto perché di questo fascismo è ormai parte integrante, e non certo da oggi. Quindi praticherei (per  me stesso e per il Paese nel quale sono nato) il dovere della non rassegnazione, partendo dal primo compito di chi intende agire sul reale: comprenderlo. Questo è non soltanto il mio dovere di studioso ma anche quello di chiunque voglia essere davvero un politico, un uomo della e per la polis.

 

Capitalismo e capitalisti

4.782.400 euro di stipendio annuo, più di 13.102 euro al giorno. Ai quali aggiungere benefit e premi di varia natura e quantità. Questa è la retribuzione di Sergio Marchionne, Amministratore Delegato della Fiat. Il quale è il primo a denunciare il crollo di vendite di automobili in Italia, in particolare di quelle prodotte dalla sua azienda. Mi chiedo come un manager che sta portando la sua azienda al disastro possa guadagnare cifre enormi, invece che essere licenziato. Più in generale, come pensa la Fiat -e ogni altra grande azienda e pure Monti (un robot fuori dalla realtà sociale e ben dentro l’illusione delle banche)– di continuare a vendere i propri prodotti favorendo il licenziamento di coloro che dovrebbero comprarli, diminuendo stipendi e salari, portando le fabbriche all’estero, chiudendo le aziende italiane? Chi dovrebbe acquistare auto e altre merci se si toglie lavoro agli italiani?
A questa domanda Dario Sammartino -ottimo conoscitore, tra l’altro, del mercato automobilistico- mi ha così risposto: «Marchionne non è licenziato perché forse sta ottenendo risultati finanziari utili ai padroni della Fiat. Infatti ormai la Fiat è anche Chrysler, e questa va benone. La Fiat va male in Europa perché non offre prodotti all’altezza dei concorrenti, neanche se fossero costruiti da schiavi senza retribuzione. E non offre prodotti perché non sta investendo: forse Marchionne sta conservando i soldi per completare l’acquisto della Chrysler o per qualche altro intrigo finanziario internazionale: di certo l’Italia non interessa più. In generale, poi, questi grandi manager prendono retribuzioni fuori da qualsiasi legame con i loro risultati, anche se negativi: basti pensare agli amministratori delegati dell’Alitalia o delle Ferrovie»
Questa risposta conferma che la Fiat dopo aver spremuto l’Italia con i soldi elargiti dai governi e sottratti agli italiani, dopo aver contribuito a ricondurre le relazioni industriali a livelli ottocenteschi, dopo aver mentito sulle sue intenzioni, è decisa a lasciare il Paese. Una volta si diceva “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”, ora siamo alla distruzione del lavoro e all’incameramento del bottino. In questo tipo di azioni la Fiat, i suoi padroni e i suoi amministratori delegati sono sempre stati bravissimi. Forse per questo Marchionne merita tutti i soldi che la Fiat gli dà.

Al di là di uno specifico capitalista -l’uno infatti vale l’altro, essendo essi non tanto degli umani quanto delle macchine atte a generare e a incassare profitti- le peculiarità del capitalismo contemporaneo sono ben descritte in un articolo di Maurizio Lazzarato pubblicato sul numero 18 (aprile 2012, pp. 3-4) di alfabeta2:

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«La speculazione è il mercato»

«La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato»; ci troveremmo di fronte non a una crisi contingente ma a una vera e propria «crisi di sistema»; «il capitalismo è il male, e il male non si riforma: si abbatte».

Chi sostiene tesi così radicali? Karl Marx o qualcuno dei suoi eredi? Gli anarchici, e cioè degli inguaribili sognatori? Qualche sprovveduto dilettante di economia? No, sono affermazioni -nell’ordine- di Eugenio Scalfari, di Jean-Claude Trichet, presidente della Bce (la Banca Centrale Europea); del regista statunitense Michael Moore. Un giornalista liberale, la massima autorità della finanza europea, un intellettuale del Michigan, concordano su quanto i critici del capitalismo -di questa forma suprema della rapina reciproca tra gli umani- sostengono da sempre e che oggi si mostra con evidenza a chiunque non chiuda gli occhi di fronte a ciò che accade: «nella fase del capitalismo assoluto, lo sviluppo capitalistico devasta la natura, la società e la psiche» (M. Badiale – M. Bontempelli, Marx e la decrescita, abiblio, Trieste 2010). E oramai natura, società e psiche -la vita degli umani e della Terra- sembra affidata ad anonime e potentissime “agenzie di rating” che condizionano in modo totale le decisioni dell’economia viva. Il denaro morto divora le esistenze vive, “il tempo dei mercanti e dei banchieri” -di questi servi improduttivi, di questo ceto che in altre culture è composto da paria intoccabili- è giunto al suo culmine nella forma della “pubblicità” pervasiva che divora le coscienze e il cui scopo è rendere necessario il superfluo. La borghesia mercantile e finanziaria trionfando divora se stessa e l’intero tessuto sociale.

L’alternativa? Difficile dire ma intanto è necessario ripensare alla radice il paradigma e la pratica della produzione e del consumo senza fine. La decrescita non ha nulla a che fare con pauperismo o ascesi. Piuttosto, chiariscono ancora Badiale e Bontempelli, «il punto fondamentale da cui partire per comprendere la nozione di decrescita è la distinzione fra beni d’uso da una parte e merci dall’altra. “Merce” non è sinonimo di bene o servizio, ma è un bene o servizio prodotto per il mercato in vista di un profitto e dotato quindi di un prezzo.

 Non c’è sul piano teorico alcun rapporto necessario tra aumento quantitativo delle merci, diffusione del benessere e progresso delle conoscenze». Ancora una volta, è il dominio della quantità (un atteggiamento interiore prima che economico) a portare con sé la catastrofe.

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