Skip to content


Medea / Münchausen

Mente & cervello 125 – maggio 2015

Amphora with Medea Ixion PainterIl cognitivismo ha rappresentato una spiegazione della mente condivisa da molti studiosi. Ma ormai mostra crepe sempre più evidenti e lo fa in una miriade di campi. Uno dei più importanti è il linguaggio, un tempo roccaforte dei cognitivisti. E invece si scopre che nell’apprendimento di una lingua «ciò che è cruciale è che alla capacità computazionale di tipo statistico sia affiancato un ambiente sociale, che è naturalmente il contesto primario e la ragion d’essere per lo sviluppo del linguaggio» (S.Gozzano, p. 9). Parlare è un’attività olistica, insomma, come tutte le funzioni umane, comprese quelle più specificatamente mentalistiche. La memoria, ad esempio, non è fatta di un accumulo cognitivo di dati ma di una complessa dinamica di «dimenticanza adattativa», di ricordo e di oblio (M.Semiglia, 20). L’apprendimento, poi, è una struttura insieme unitaria e costituita da molteplici componenti, tanto da risultare impoverita dall’utilizzo di strumenti veloci ma passivi -come i computer- rispetto a strumenti più lenti che però permettono di selezionare, riflettere, ricreare l’appreso. Il titolo dell’articolo di Cindi May –In aula meglio la penna del pc (102)- è persino irridente nei confronti dei molti pedagogisti e didatticisti, tutti presi da un patetico entusiasmo nei confronti delle macchine per imparare. In realtà, «anche quando consente di fare di più in meno tempo non sempre la tecnologia serve a imparare. Nell’apprendimento c’è qualcosa di più che ricevere e ingurgitare informazioni- […] Per prendere appunti, agli studenti servono meno gigabyte e più cervello» (103).
Un ambito tanto delicato quanto colmo di pregiudizi è quello della maternità. La figura della madre ‘buona’ per definizione è del tutto falsa. Una miriade di esperienze lo dimostra. Medea è davvero una metafora efficace di quanto di oscuro si muove nella maternità. Clamorosi e drammatici sono i casi di Münchausen Syndrome by Proxy (MSbP), la sindrome di Münchausen per procura, nella quale le mamme attribuiscono ai figli malattie inesistenti, allo scopo di concentrare l’attenzione su se stesse. Nei casi più gravi, tali madri mettono a rischio la vita stessa dei figli, sino a ucciderli. Non si tratta di semplice ipocondria per procura -quando la madre è davvero convinta che il figlio sia malato, anche se non è vero-, «le mamme Münchausen sanno perfettamente che il bambino non ha niente, e cercano deliberatamente il dramma, nel quale sono protagoniste […] in una sarabanda di bugie che sempre più spesso oggi si avvale di Internet e dei social media per amplificare l’attenzione coinvolgendo più persone. E senza preoccuparsi delle possibili conseguenze sul bambino» (P.E.Cicerone, 92). Forse non è balzana la richiesta «che i genitori siano dotati di una sorta di patentino prima di essere autorizzati a procreare» (D.Ovadia, 55). In tutto questo c’è una magnifica ironia: si tratta infatti di un’antica proposta platonica, che oggi viene ripresa nell’ambito dei diritti umani, in questo caso il diritto del bambino ad avere dei genitori decenti.

Genitori / Figli

I nostri ragazzi
di Ivano De Matteo
Italia, 2014
Con: Alessandro Gasmann (Massimo), Luigi Lo Cascio (Paolo), Giovanna Mezzogiorno (Clara), Barbara Bobulova (Sofia), Rosabell Laurenti Sellers (Benedetta), Jacopo Olmo Antinori (Michele), Lidia Vitale (Giovanna), Roberto Accornero (l’insegnante)
Trailer del film

i_nostri_ragazziDi ritorno da una festa, i cugini sedicenni Benedetta e Michele massacrano di botte e uccidono in mezzo alla strada una donna senzatetto, proseguendo poi il loro cammino e la loro vita con serenità e indifferenza. L’unico dispiacere, semmai, è di non potersene vantare, il rimpianto è di non averla bruciata.
La ragazza è figlia di un facoltoso avvocato, il ragazzo di un pediatra che si dedica con slancio ai suoi piccoli pazienti. Benedetta e Michele sono l’esatto frutto della miseria di questi due fratelli e delle loro compagne. Tutti pronti a giustificare, a legittimare, a nascondere, a lasciar dominare i propri figli, il loro immenso narcisismo, il loro volere e ottenere tutto. Soprattutto la madre di Michele, la madre che è quasi sempre l’origine della sciagura degli umani, con la sua avvolgente protezione, con la sua patologica proiezione, con il suo non saper vivere senza il figlio. Dei due fratelli il più ipocrita (e ancor peggio) si rivela naturalmente l’altruista, il medico, il buono.
Queste persone non pranzano insieme, stanno tutte davanti al televisore, di fronte a un monitor; i due ragazzi con in mano un perenne e totalizzante cellulare. Insomma soggetti oggi normalissimi, identici a quelli che ci passano accanto tutti i giorni, identici a noi; normali e proprio per questo rivoltanti nel loro vuoto senza scampo, senza luce. Lo squallore di tali soggetti -genitori e figli- non suscita pietà alcuna, alcun compatimento. Soltanto schifo.

Sentimentalismi

Mommy
di Xavier Dolan
Francia-Canada, 2014
Con: Anne Dorval (Diane -Die- Després), Antoine-Olivier Pilon (Steve Després), Suzanne Clément (Kyla)
Trailer del film

mommyChe cosa c’è di peggio di un film feroce? Un film feroce e sentimentale. Così è fatto il cerchio sempre ritornante che descrive la violenza di un figlio e il tentativo della sua smammanica madre di prenderlo con le cattive, con le buone, con le medie, con l’aiuto di una deliziosa e balbuziente professoressa vicina di casa e in anno sabbatico. Ma non c’è niente da fare: Steve non si sente mai amato abbastanza, è geloso, è desiderante, è violento ed è fuori di testa. Naturalmente nella vicenda si alternano attimi di profonda tenerezza, scene di sangue, altre condite di umorismo, tutto immerso nel costante turpiloquio della famigliola.
I tre eccellenti attori (magnifica Anne Dorval nel ruolo della madre), la splendida fotografia, l’indubbio talento narrativo, non rendono migliore un film davvero troppo furbo nel titillare il riso e il pianto. In fondo tutte le opere che contano parlano sempre della stessa cosa, compresa la vicenda ripetuta sino alla noia dell’amore e dei legami umani, ma il loro segreto consiste nel farlo senza sentimentalismo mentre qui ci troviamo in una melassa che per essere fatta anche di maleparole e di ‘disagio psichico’ non per questo risulta meno diabetica.
La furbizia del film sta anche nella sua trovata più originale: l’inquadratura stretta e alta in 4:3 che permette di vedere soltanto un personaggio alla volta, chiuso in un corpomente claustrofobico, e che di tanto in tanto si allarga all’intero schermo, nei momenti -è ovvio- di gioia e di riscatto. Una trovata che insieme alle ripetute dissolvenze e ai ralenti fa di Mommy un melodramma per un pubblico (critici compresi) che evidentemente vuole un sentimento sempre più fisico come il tossico desidera una droga sempre più forte. Ma dalla banalità del sentimentalismo non si esce mai.

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

La Grande Madre

In grazia di Dio
di Edoardo Winspeare
Italia, 2013
Con: Celeste Casciaro (Adele), Laura Licchetta (Ina), Anna Boccadamo (Salvatrice) Barbara De Matteis  (Maria Concetta), Gustavo Caputo (Stefano), Angelico Ferrarese (Cosimo), Antonio Carluccio (Crocifisso)
Trailer del film

in_grazia_di_dioIl meraviglioso Sud. Il Salento. Il mare verso la Grecia. Le strade assolate, verdi e polverose. Una famiglia che ha aperto un’azienda tessile con i soldi guadagnati dopo decenni di emigrazione in Svizzera. La concorrenza dei cinesi e quindi la fine degli ordinativi da parte dei grandi marchi, i tassi di usura delle Finanziarie, le tasse esponenziali di Equitalia. La rovina. Il fratello torna in Svizzera. La madre, due sorelle, una nipote vendono fabbrica e casa e si trasferiscono in un loro fondo agricolo. Tornano a essere ciò da cui sono partite: contadine. Nessuna di loro rinuncia ai propri progetti. Ina, la nipote, è totalmente refrattaria alla scuola, sogna di farsi sposare da un riccone e trascorrere la vita tra burraco e costosi vestiti. Maria Concetta, la zia, recita la parte della Madonna in parrocchia ma la sua aspirazione è il cinema. Salvatrice, la nonna, trova un nuovo amore e si sposa. Soltanto Adele -la capafamiglia- sembra nascondere ogni desiderio dentro la durezza del lavoro. Urla rancore e perde stagioni dietro la nullità della figlia, l’odio per l’ex marito, l’incapacità di corrispondere all’amore di un antico compagno di scuola. Una solitudine che la spinge, una sera, a vendere l’oro per vestirsi di lusso e invitarsi a cena.
I rapporti tra queste donne sono espliciti, spietati nelle parole che si rivolgono, intramati di una solitudine lunare. E tuttavia, a loro modo, affettuosi. Uno sguardo sull’universo umano e femminile che dà l’impressione di esistenze reali e nello stesso tempo archetipiche. La Grande Madre fatta di tante maternità dolorose ma avvinghianti.

 

Terapie stupefacenti

Mente & cervello 102 – giugno 2013

 

Pressoché tutte le culture hanno fatto uso delle piante sacre, di quei vegetali dai quali è possibile trarre sostanze che attutiscono il dolore di esistere e inducono il corpomente a inventare mondi in maniera ancora più massiccia di quanto faccia normalmente. Le società industriali e postindustriali hanno trasformato queste pratiche millenarie o in comportamenti ludici (le “canne”) o in reati gravemente puniti, arrivando a proibire l’uso terapeutico di sostanze naturali -cannabis e allucinogeni come la ketamina- che lasciate all’utilizzo individuale potrebbero certamente risultare pericolose ma che se assunte in contesti adeguati sono molto potenti nell’attutire effetti, disturbi e sindromi in vario modo riconducibili alla depressione.
Pare che in Europa siano «circa 23 milioni le persone affette da depressione clinica diagnosticata» (S. Grimm e M. Scheidegger, p. 34), cifra enorme e che probabilmente indica semplicemente la medicalizzazione dell’angoscia di vivere. Lo conferma il fatto che la depressione sembra addirittura contagiosa, nel senso che «l’umore degli altri può influenzare la nostra vulnerabilità cognitiva» (V. Murelli, 23). Anche per evitare che tale “vulnerabilità” diventi distruttiva e autodistruttiva, siamo noi stessi a secernere delle sostanze che ci aiutano nelle più diverse circostanze, gli endocannabinoidi, il cui studio «consente di immaginare quali possano essere i benefici -in gran parte dimostrati anche in trial clinici- del consumo di cannabis esogena a scopo terapeutico» (D. Ovadia, 40). E infatti «prima che fossero proibiti negli anni settanta -la risposta normativa all’esplosione del loro uso alla fine degli anni sessanta- gli allucinogeni erano stati prescritti a circa 40.000 soggetti studiati nelle ricerche. Allora i risultati furono promettenti: avevano aiutato i malati terminali a superare il dolore, la paura, l’isolamento psicologico e la depressione. Oggi i ricercatori riscoprono alcune virtù della psilocibina, che non solo riduce i sintomi seduta stante, ma migliora gli esiti terapeutici per mesi, se non per anni» (E. Rex, 26). In ogni caso, si deve fare di tutto per moltiplicare gli strumenti capaci di curare non soltanto la depressione ma in generale le malattie psichiatriche, la cui natura è insieme ambientale/esperienziale e genetica/innata.
La complessità del cervellocorpo è talmente grande da rendere velleitario l’ennesimo tentativo di imitarne struttura e funzione: l’Human Brain Project ideato da Henry Makram «ambisce a simulare in un supercomputer il cervello umano, integrando sistematicamente tutte le conoscenze prodotte per chiarire la catena di eventi che porta dalle molecole alla cognizione, comprendere le malattie neurologiche e mentali, progettare neurorobot capaci di comportamenti autonomi» (G. Sabato, 75). Ambizione che si scontra con una miriade di ostacoli, di strutture, di eventi, tra cui -per ricordarne tre dei quali si parla in questo numero di Mente & cervello«l’influenza del Sole sull’umore», che sembra essere ancora più pervasiva e fondamentale di quanto si pensi (N. Gueguen, 85); il legame totale di ogni corpomente umano con la madre che l’ha generato, come conferma la teoria dell’attaccamento elaborata da John Bowlby; la consapevolezza -che sin dall’inizio ci accompagna- della nostra mortalità.
«Il terrore esistenziale dei morenti è un argomento tabù in medicina» (A. Bossis, 27), anche perché nessuna scienza empirica può spiegare la verità di cui sono intrisi i versi dell’Alcesti di Euripide, ricordati da Vittorino Andreoli: «I mortali hanno un debito / ed è questo, che devono morire / tutti quanti» (17). È a tale debito che fa riferimento il primo testo della filosofia europea: «Principio degli esseri è l’apeiron, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito…Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la distruzione in modo necessario: le cose che sono tutte transeunti, infatti, subiscono l’una dall’altra punizione e vendetta per la loro ingiustizia secondo il decreto del Tempo» (Anassimandro, DK, B 1). Soltanto la filosofia può tentare una comprensione radicale dello stare umano al mondo e del mondo stesso.

 

Vai alla barra degli strumenti