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Guerra

Céline. Sulla guerra, contro la guerra
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
9 giugno 2023
pagine 1-4

Da alcune settimane è in libreria Guerra di Céline, un libro il cui manoscritto era stato trafugato nel 1944, che è stato ritrovato ed edito da Gallimard nel 2022 e adesso in Italia da Adelphi.
La musica di questo romanzo comincia con una dichiarazione che poi tutto lo intride, lo guida, lo determina, lo spiega:  «Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l’ho chiusa nella testa». Una guerra che il caporale Destouches (il vero nome di Céline) odia, pur essendo insignito della «Croce di Guerra», pur essendo stato eroe coraggioso ed esempio per gli altri soldati. Odio e orrore che abitano e gorgogliano in pagine nelle quali pulsa per intero la potenza di uno degli scrittori più grandi della letteratura universale.
Questo capolavoro coglie e restituisce la guerra come nessun’altra opera che io conosca; ci aiuta a capire in modo profondo e radicale anche la guerra in corso della NATO contro la Russia tramite l’Ucraina e ci fa chiedere che essa finisca. Perché la guerra è un fatto, una catastrofe, una potenza antica dentro la quale l’umano abita e si perde, diventando la sua mente nella guerra «ormai solo una corrente d’aria di uragani».

 

Gli occhi della Sicilia

Venerdì 23 giugno 2023 alle 18.00 alla Libreria Feltrinelli di Catania dialogherò con Lina Gandolfo, autrice del romanzo Con i miei occhi (euno edizioni, 2022). Un testo dalla tonalità verista nel pieno del XXI secolo. Un verismo autentico sino al dolore e intramato però della dimensione onirica e folle della grande letteratura del Novecento.
Per scrivere un romanzo come questo è stato necessario avere per decenni osservato, pensato e accolto la disperazione della vita. Della quale l’arsura delle terre della Piana di Catania – di Mineo, di Grammichele, di Scordia – è geografica sineddoche. E bisogna avere avuto il coraggio di confrontarsi senza infingimenti con l’iniquità.

«Dentro più dentro dove il mare è mare»

Giovedì 18 maggio 2023 alle 16.00 continueremo a dialogare sull’opera di Stefano D’Arrigo.
Nella sede del Centro Studi di Catania, l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza infatti il secondo incontro del ciclo dedicato all’autore di Horcynus Orca.
A parlarne saremo io e il Prof. Fernando Gioviale, profondo conoscitore di D’Arrigo, al quale ha dedicato un libro pieno di dèi: Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate.
Horcynus Orca è anche la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria», «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto», un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte.
Il romanzo di D’Arrigo si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

 

 

Solitudine ed esistenza

Le altre forze che guidano il mondo
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
24 aprile 2023
pagine 1-3


La «vita interiore» e il suo statuto filosofico di presenza e potenza
il manifesto
25 aprile 2023
pagina 13

Sono due articoli/recensioni usciti con piccole varianti in due diverse sedi e dedicati al libro di Pio Colonnello Solitudine ed esistenza. Sullo statuto della vita interiore. In esso il filosofo indaga la presenza e la potenza della struttura solitaria della «vita interiore» in poeti come Dante Alighieri, Jorge Luis Borges, Dino Campana; in filosofi come Nietzsche, Croce, Heidegger, Piovani, Marcuse. Per i quali, pur se in modi in ciascuno naturalmente diversi, la solitudine sembra scaturire da una difettività originaria delle cose e la colpa che oscuramente percepiamo sembra generarsi dalla contingenza e precarietà dell’esistenza, sempre sottoposta al rischio della propria fine.

Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

Proust, l’omerico

Proust, l’omerico
in Dialoghi Mediterranei
n. 60, marzo-aprile 2023
pagine 23-33

Indice
-Introduzione
-Proust sociologo
-Linguaggio
Du coté de chez Swann
À l’ombre des jeunes filles en fleurs
Le côté de Guermantes
-Sodome et Gomorrhe
La Prisonnière
Albertine disparue
Le Temps retrouvé
-La Recherche come filosofia

Proust è un sociologo, è un narratore, è un metafisico. Nella Recherche vivono, agiscono, amano, invecchiano, parlano, ricordano centinaia di personaggi che abitano una molteplicità di luoghi: Illiers/Combray, Parigi, Cabourg/Balbec, Amiens, Venezia. In questo saggio ho cercato di presentare alcuni di tali personaggi, luoghi, temi. La prima parte è dedicata alla spesso sottovalutata ma in realtà primaria dimensione storica e sociologica dell’opera proustiana; la seconda a un sintetico percorso dentro la Recherche; la terza a una riflessione sulla struttura metafisica dell’opera.

Anime morte

Nikolaj Vasil’evic Gogol’
Le anime morte
(Мёртвые души, 1842)
Trad. di Natalia Bavastro
Introd. di Serena Vitale
Garzanti 1989
Pagine XX-360

Leggere gli scrittori russi è un’esperienza affascinante. Tolstoj è un’epopea della pienezza. Dostoevskij insegna sugli uomini delle verità essenziali. Solo Proust e Thomas Mann possono stargli accanto.
Accanto a Dostoevskij e in modo assai diverso da lui, sta anche Nikolaj Gogol’, le cui Anime morte parlano della Russia profonda e ci aiutano a penetrare gli enigmi di un popolo così decisivo nella storia dell’Europa. In questo romanzo il flusso narrativo, la profondità psicologica, la consapevolezza della tragedia e dell’enigma che è il vivere si compongono a delineare una compiuta antropologia.

Del romanzo Gogol’ portò a termine, e conservò, solo la prima parte; della seconda rimangono i primi capitoli e alcuni frammenti  con molte lacune. Il resto non si sottrasse al rogo decretato dallo stesso Autore mentre la terza parte – una sorta di inutile poema del riscatto – non venne mai scritta.
Quello che rimane è un capolavoro. Ci troviamo a viaggiare per la vasta Russia insieme a Pavel Ivanovic Čičikov. Nulla sappiamo all’inizio di questo personaggio, se non qualcosa delle sue fattezze rotonde e banali e dei suoi modi cortesi e affettati. Neanche i luoghi hanno un nome ma in essi Čičikov cerca, tratta, acquista delle anime morte, vale a dire quei servi della gleba deceduti fra un censimento e l’altro ma sui quali i possidenti pagano ancora le tasse. Perché Pavel Ivanovic le vuole? Per dimostrare di essere anche lui un possidente e ottenere il prestigio e le agevolazioni governative che tale condizione comporta.
Solo alla fine della prima parte si viene a sapere qualcosa di più sul protagonista, sulla sua infanzia triste, sui pessimi educatori, sulla tenacia da lui dedicata alla carriera nell’Amministrazione dello stato e sui frutti della corruzione esercitata nei vari uffici in cui si era trovato a lavorare. Prima però Čičikov ha modo di farsi amare, stimare e poi calunniare dai funzionari – e dalle rispettive mogli – della città, portando comunque a termine la sua impresa. Nella seconda parte (ripeto, frammentaria) crescono l’ambizione e le disgrazie fino a un arresto ignominioso e a una rocambolesca liberazione…
Gogol’ definì il proprio romanzo «un poema» e della Divina Commedia quest’opera non ha solo il progetto iniziale in tre parti ma anche una vera e propria discesa nei gironi della volgarità umana, di quella che in russo si chiama poölost. Compito dello scrittore è infatti descrivere 

tutto ciò che ogni minuto si trova davanti agli occhi di tutti e che gli occhi indifferenti non vedono affatto -tutta la terribile e irritante melma delle meschinità che impastoiano la nostra vita, tutta la bassezza dei caratteri freddi, invertebrati, quotidiani, che brulicano sul nostro cammino terreno, talvolta amaro e tedioso… (p. 125).

Le forme che la volgarità assume nel mondo possono essere tante, alcune tipiche di un luogo e di un tempo, altre eterne. La maldicenza, ad esempio, il pettegolezzo del quale nel IX capitolo viene delineato un magnifico ritratto; oppure la corruzione, le tangenti, il denaro chiesto per svolgere semplicemente il proprio dovere.
La giustificazione che viene data del malaffare è davvero quella di sempre: «ho approfittato del superfluo; ho preso là dove ognuno avrebbe preso; se non avessi approfittato io avrebbero approfittato gli altri» (230). È la giustificazione di tutti i ladri della cosa pubblica. Al di là delle proprie posizioni ideologiche e delle idiosincrasie Gogol’ offre un quadro efficace, reale della situazione della Russia alla metà dell’Ottocento, prima che il servaggio venisse abolito e dopo la guerra napoleonica. Ma è insieme un quadro talmente originale e complesso da far sì che il romanzo sia stato rivendicato sia dagli slavofili sia dagli occidentalisti. E in effetti la Russia dei servi della gleba appare qui in mano a possidenti o inetti o corrotti o del tutto idioti ma è una Russia in ogni caso più ricca e produttiva di quella comunista e del Novecento:  i beni ci sono, le terre offrono grano e tanti altri generi, le potenzialità sono enormi. Gogol’ sembra diffidare delle proposte innovative che venivano dai liberali e spesso le loro idee subiscono la satira più feroce, mentre – nella seconda parte – uno dei personaggi migliori è un possidente tradizionalista e però estremamente efficiente.
Ciò che sempre traspare è comunque un grande amore verso la nazione e la civiltà russe. L’immagine che conclude la prima parte è fra le più belle. La Russia vi viene descritta come una troika lanciata a folle velocità nella storia mentre «gli altri popoli e gli altri paesi si fanno da parte e liberano la via» (240).

C’è qualcosa che va oltre Čičikov e il suo commercio di anime, che va oltre la terra russa e il suo destino, ciò che fa di Gogol’ un autore universale. È la riflessione quasi ossessiva sugli umani. L’Autore osserva e descrive con minuzia non soltanto gli oggetti, gli ambienti, i paesaggi ma soprattutto i caratteri, non disdegnandone nessuno «e fissandogli addosso il suo occhio indagatore», come egli stesso afferma in una dichiarazione di poetica (234).
Il risultato di tale indagine è analogo a quello di Dostoevskij: l’umano come enigma impossibile da sciogliere, l’uomo come un ente capace di qualunque cosa, pensiero, azione: «È forse verosimile?…Tutto è verosimile, tutto può avvenire in un uomo» (120) e come un refrain ricorre spesso l’esclamazione «va’ a capire qualcosa dell’uomo!» (198).
Diversamente da Dostoevskij, però, il tono dominante in Gogol’ è l’ironia, il grottesco, il divertimento. Certe pagine, così come alcuni personaggi o battute, sono irresistibili. Finché, procedendo, tutto diventa più serio e drammatico e il libro si conclude con un severo e appassionato discorso del governatore generale ai suoi funzionari, discorso inquietante nella sua attualità per alcune nazioni e alcuni governi: «È giunta l’ora di salvare la nostra terra…ormai accanto all’ordine di cose legittimo se ne è formato un altro, molto più forte di quello legittimo» (360).
Ma la grandezza, la lucidità, di Gogol non è politica, non è morale. È piuttosto uno sguardo talmente plastico, verosimile e ironico sull’umano da poter dire, con Cioran, che «noi amiamo in lui la ferocia, il disprezzo degli uomini, la visione di un mondo condannato» (La tentazione di esistere, Adelphi 2022, p. 177). Noi amiamo in lui lo gnostico.

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