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Una meditazione morale

One on One
di Kim Ki-Duk
Corea del Sud, 2014
Con: Dong-seok Ma, Yi-Kyeong Lee, Young-min Kim, Ji-hye Ahn, Dong-in Jo, Jung-ki Kim, Gwi-hwa Choi
Trailer del film

Violenza e assassinio su una giovane donna. È un 9 maggio. Si vedono esecutori e mandanti ma non si conosce la ragione di tale violenza. Qualche tempo dopo, quel 9 di maggio ritorna nelle parole dette e nelle immagini mostrate da un gruppo di giustizieri che rapisce uno a uno i responsabili di quel delitto, li tortura, fa loro scrivere quello che hanno compiuto e poi li rilascia. Dagli esecutori su su fino ad alcuni generali dell’esercito sudcoreano. Veniamo a poco a poco a sapere che i giustizieri sono persone del tutto comuni, spesso umiliate e in condizioni di difficoltà. La persona che le ha raccolte nutre un bisogno di giustizia che è anche un furore di vendetta. Giustizia e vendetta che si compiono pienamente ma che non conducono ad alcuna redenzione, a nessuna consolazione, a nessun riscatto, a nessun ristabilito equilibrio.
Una chiara e violenta metafora dell’insensatezza delle relazioni umane, nella quale vittime e carnefici sono intercambiabili, dialogano come dei filosofi sulla colpa, sulla responsabilità, sulla miseria, sulla pena. Vedere dei banali torturatori e delle banali vittime, a loro volta assassine, discutere con il lessico e le forme dell’antico stoicismo, delle tradizioni religiose, della kantiana presunta autonomia del gesto morale, produce un effetto interessante, straniante, profondo.
Una descrizione dei comportamenti e delle passioni cupa e assai lucida, fredda e veemente, entomologica e distante. L’assenza di qualunque consolatorio finale conferma la serietà di questa meditazione morale.

Spranghe

Il prigioniero coreano
(Geumul)
di Kim Ki-Duk
Corea del Sud, 2016
Con: Ryoo Seung-Bum (Nam Chul-woo)
Trailer del film

Geumul è la rete con la quale il pescatore nordcoreano Nam Chul-woo cattura i pesci e dà sostentamento a moglie e figlia, gli unici beni della sua vita. La rete si impiglia nel motore e le correnti lo trascinano oltre il confine, verso la Corea del Sud. Portato a Seul, Nam cerca di tenere gli occhi chiusi per non vedere la corruzione della grande città capitalistica. Vede bene, invece, la ferocia e il disprezzo di chi lo interroga e vorrebbe trasformarlo a tutti i costi in una spia. Interrogatori e violenze analoghe, se non identiche, a quelle praticate nella Corea del Nord. Ciascuno è ostaggio dell’autorità ed è prigioniero soprattutto dei propri Affetti, Princìpi, Memorie e Nostalgie.
Valori e sentimenti che si dissolvono al fuoco implacabile delle rivelazioni che il divenire ci mostra quando fissiamo gli occhi dentro il disordine, dentro babilonia. Il prigioniero coreano è metafora dell’essere rinchiusi gli umani, i pesci e ogni vivente dentro le «vigorose spranghe del caos» (Pistis Sophia, II, 81, 19), dentro il crepuscolo della materia consapevole di esserci, durare, finire.
Il canto patriottico e folle del carnefice dentro la prigione e la bandiera che avvolge il prigioniero tra le acque proiettano nella sanguinosa farsa della storia l’inevitabile tragedia della vita.

Madre / Capitale

Pietà
di Kim Ki-duk
Con: Cho Min-Soo (Mi-sun), Lee Jung-Jin  (Kang-do)
Corea, 2012
Trailer del film

In un fatiscente quartiere di una città coreana, Kang-do è un sicario specializzato nello storpiare i debitori di usura che non pagano il dovuto, in modo da poter incassare l’assicurazione. Svolge il suo lavoro con freddezza, immerso nella solitudine e in una profonda miseria esistenziale. Un giorno gli appare una donna che gli chiede perdono per averlo abbandonato appena nato, dichiarando di essere dunque lei la responsabile dei suoi crimini. L’uomo non le crede, la sottopone a varie prove sino a quando non è sicuro che la donna sia davvero sua madre. Comincia allora a non portare più a termine gli incarichi ricevuti e a non poter tollerare il pensiero che lei se ne vada un’altra volta. La madre scompare e riappare, forse vittima della vendetta di quanti sono stati sciancati da suo figlio. O forse no.
Un’apoteosi/descrizione dell’amore materno nelle sue forme più radicali. Una rappresentazione/metafora del capitalismo che distrugge i corpi e le vite di quanti da esso sperano lavoro, reddito, credito. Tutte le vittime si rivolgono al sicario definendolo un “diavolo che uccide promettendo danaro”. Due livelli apparentemente molto diversi della vita umana -innato l’uno, storico l’altro; intimo il primo, collettivo il secondo; biologica la maternità, economico il capitale- si fondono integralmente nella violenza della quale entrambi, maternità e capitalismo, sono intessuti. Alla domanda di Kang-do su che cosa siano i soldi, la madre risponde: «L’inizio e la fine di ogni cosa». Vincitore della Mostra del Cinema di Venezia 2012, quello del regista coreano è ancora una volta  un capolavoro nichilistico e mistico.

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