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La malinconia del West

I fratelli Sisters
(The Sisters Brothers)
di Jacques Audiard
Francia, Spagna, Romania, Belgio, USA, 2018
Con: John C. Reilly (Eli Sisters), Joaquin Phoenix (Charlie Sisters), Jake Gyllenhaal (John Morris), Riz Ahmed (Hermann Kermit Warm), Rebecca Root (Mayfield), Carol Kane (la signora Sisters)
Trailer del film

Da decenni, ormai, i film western che meritano di essere visti sono ironici e crepuscolari. Solo per ricordarne alcuni: True Grit dei fratelli Coen; Django Unchained di Quentin Tarantino e soprattutto Gli spietati di Clint Eastwood. Malinconica è anche la vicenda dei Sisters Brothers – titolo già ironico – che nel 1851 dall’Oregon arrivano sino a San Francisco, alla ricerca di un chimico e cercatore d’oro, scopritore di una formula capace di far emergere l’oro dalle acque. Sulle tracce di Kermit Warm c’è un loro complice, incaricato di farselo amico e consegnarglielo. Tra i quattro uomini, tra queste quattro solitudini, si instaura una imprevedibile dinamica.
Musica ritmata e cupa, paesaggi sempre di scorcio – che siano praterie, montagne, oceano –, animali che si uccidono, donne mascoline, pistoleri senza fuoco, sciarpe temporali, incubi violenti, virili tenerezze, malinconie profonde e voglie insoddisfatte di pianto. Ma è sempre l’avidità, il culto congenito e inemendabile degli Stati Uniti d’America verso il dollaro, a condurre al tramonto anche Eli e Charlie, sicari quasi immortali che sempre vincono la sfida con forze di gran lunga superiori. Sono infatti dei Dioscuri questi due fratelli. Il maggiore meditativo e saggio, il minore impulsivo e stolto. Ma mentre tutti muoiono, persino di morte naturale, loro tornano dalla propria madre dea, a sognare il tempo nel quale il mondo era altro e non quella struttura amara che viene esplicitamente definita tale all’inizio del film. Un mondo che sembra attraversato da una ferita e nel quale sarebbe stato meglio non essere mai nati; un mondo la cui luce si irradia nel gelo abbandonato della vita e si dissolve nelle lande della nostalgia.

Shri Ganesh

Dheepan. Una nuova vita
di Jacques Audiard
Con: Jesuthasan Antonythasan (Dheepan), Kalieaswari Srinivasan (Yalini), Claudine Vinasithamby (Illayaal), Vincent Rottiers (Brahim), Marc Zinga (Youssouf)
Francia, 2015
Trailer del film

DeephanUn uomo, una donna, una bambina. Non si conoscono ma hanno bisogno di essere in tre per utilizzare dei passaporti che consentano loro di fuggire dallo Sri Lanka, dalla guerra, dalla miseria. Vengono accolti nella banlieu parigina, che si rivela un mondo squallido e pericoloso. La finta famiglia deve unirsi per affrontare quest’altra guerra. A vegliare sui tre stanno le divinità induiste, soprattutto Shri Ganesh, l’elefante.
Un film intenso, narrato meravigliosamente e dalla tecnica raffinata. Un’opera che non concede nulla al politicamente corretto -forse anche per questo la Palma d’Oro ottenuta al Festival di Cannes nel 2015 non è piaciuta a sinistra- ma che è intrisa di una pietà profonda verso gli umani, la loro violenza, la disperazione della storia e delle vite.
Onirica e politica, distante e sensuale, Dheepan è un’opera profondamente religiosa, che dimostra come il Sacro non abbia bisogno di croci, chiese e dogmi ma gorgogli dal bisogno umano di vivere e sopravvivere. E di questo bisogno sia l’ultimo emblema.

Il Profeta

di Jacques Audiard
(Un Prophète)
Francia-Italia, 2009
Con: Tahar Rahim (Malik El Djebena), Niels Arestrup (César Luciani), Adel Bencherif (Ryad), Reda Kateb (Jordi lo zingaro), Hichem Yacoubi (Reyeb)
Trailer del film

Orfano franco-arabo, il diciannovenne Malik entra in carcere ignaro del mondo e quasi analfabeta. Prima minacciato e poi protetto da una banda di corsi e dal suo anziano capo, il ragazzo impara a leggere, a scrivere, a parlare il corso, a fare da tramite con i detenuti musulmani e con il mondo criminale che sta fuori. Diventa un assassino e un servitore, un corriere di affari altrui e un gangster in proprio, uno qualsiasi e il manovratore di tutti. Un doppio gioco costante e sapientemente raccontato anche attraverso la plausibilità dell’interprete.

Un Prophète non è l’ennesimo film sulle mafie o sull’universo carcerario. È anche questo, certo, ma rappresenta soprattutto uno scavo nella iniziazione all’esistenza, alle sue condizioni estreme, alla solitudine e al bisogno dell’alterità. La prima vittima di Malik diventa anche il suo migliore amico, che gli appare come proiezione di sé nelle notti recluse e nei momenti delle decisioni importanti. Qualcosa di mistico appartiene a questo criminale rassegnato e svelto. E tutta l’opera ha una tonalità sobria sino al documento ed emotiva sino all’inquietudine. Il sangue che spesso macchia i corpi e gli abiti dei personaggi ha qualcosa di sacrificale, che  va al di là della violenza anche se di essa è intessuto.

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