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Significanti

Piccolo Teatro Grassi – Milano
La cantatrice calva
(La cantatrice chauve, 1950)
di Eugène Ionesco
Traduzione di Gian Renzo Morteo in collaborazione con Marco Plini
Scene e costumi di Claudia Calvaresi
Con: Mauro Malinverno (signor Smith), Valentina Banci (signora Smith), Fabio Mascagni (signor Martin), Elisa Cecilia Langone (signora Martin), Francesco Borchi (il capitano dei pompieri), Sara Zanobbio (Mary, la cameriera)
Regia di Massimo Castri
Produzione del Teatro Metastasio Stabile della Toscana
Sino al 26 gennaio 2014

 

Ionesco-e-La-cantatrice-calvaÈ un esperimento interessante e fallito questa regia di Massimo Castri. Interessante perché fallito. Siamo infatti abituati a vedere classici come i tragici greci, Shakespeare, Goldoni, Pirandello e molti altri attualizzati in ambienti e con costumi contemporanei. Il che non ostacola la comprensione del testo, anzi assai spesso ne evidenzia l’universalità. Qui si tenta l’operazione opposta, ambientando un testo del 1950 alcuni decenni prima, se non alla fine dell’Ottocento. Certo, lo stesso Ionesco aveva in mente la classe borghese e i suoi riti ma la genialità de La cantatrice chauve va al di là delle intenzioni del suo autore e consiste in una tragedia, che invece qui rischia di trasformarsi in farsa.
Quale tragedia? Quella del linguaggio. Il linguaggio che diventa stereotipo, formula che gira su se stessa, aneddoto ripetuto mille volte, significante che va all’infinito senza più significare nulla. La potenza del linguaggio, la sua magia si potrebbe tranquillamente dire, consiste nel fatto che «con materia assai piccola e  invisibile sa compiere cose divine: riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore, a suscitare gioia, ad accrescere la compassione»1. La potenza del linguaggio è tale che la sua caduta nella pura onomatopea è il crollo del mondo umano2. Ed è ciò che accade nel testo di Ionesco, un labirinto di parole comunissime e insensate, urlate e annientate, cantilenate e frastornate, banali  e capovolte, inquietanti e grottesche, imprevedibili e seriali. Sino al finale (prima che tutto ricominci) «c’est pas par là, c’est par ici…c’est pas par là, c’est par ici…c’est pas par là, c’est par ici…». Il riso suscitato dallo strambo si immerge nella pienezza del niente, del puro significante.

Note

1. Gorgia, Encomio di Elena, in «I Presocratici», a cura di G. Giannantoni, Laterza 1983, vol. II, pp. 929-930 (con alcune modifiche nella traduzione).

2. «Il λέγειν, il parlare, è lo statuto fondamentale dell’esistere umano. Nel parlare esso esprime  nel modo del parlare di qualcosa, del mondo. Questo λέγειν era per i Greci talmente onnipervasivo che proprio riferendosi a tale fenomeno e muovendo da esso giunsero alla definizione di uomo, denominandolo ζῷον λόγον ἔχον» (M. Heidegger, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, 2013, p. 62).

 

Le sedie

di Eugène Ionesco
Teatro Studio – Milano
Traduzione di Luca Doninelli
Con Galatea 
Ranzi, Nello Mascia, Sergio Basile
Regia di Pietro Carriglio
Produzione Teatro Biondo Stabile di Palermo
Sino al 20 dicembre 2009

sedie

Il guardiano di uno sperduto faro e sua moglie. Sposati da sessantacinque, settantacinque anni? In quale tempo ci si trova? E dove? Nello spazio e nel tempo del senso cercato, costruito, inventato, smarrito. Ci si trova in un lucido e plausibile delirio che riempie la scena di sedie su sedie per gli ospiti innumerevoli e di ogni tipo che stanno arrivando al faro, convocati all’ascolto di un “messaggio all’umanità” che il guardiano ha redatto e che un oratore è stato incaricato di pronunciare. Perché quell’uomo è incapace di dire in pubblico una sola parola. Arriva persino l’Imperatore, qui nella forma di un totem che ricorda Il signore delle mosche. Il mare porta al faro questa folla frutto di un immenso desiderio di comunicare e il mare si riprende i due personaggi mentre il grande oratore è capace solo di incomprensibili, stentati, insensati suoni. Le sedie però lo ascoltano con la stessa compunzione dei fedeli perinde ac cadaver.

La messa in scena di questo capolavoro è lieve, sobria, attenta. I due attori costruiscono con i loro gesti e con le parole l’intero spazio teatrale. L’ironia emerge da tale spazio/parola e la comunicazione mostra di essere la sostanza stessa dell’umano. «Non si può non comunicare». Mai la verità di questo assioma si fa evidente come quando il suono si trasforma in silenzio nell’istante stesso in cui viene emesso.

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