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Immagine / Stasi

Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
(En Duva Satt PÃ¥ En Gren Och Funderade PÃ¥ Tillvaron)
di Roy Anderson
Svezia, 2014
Con: Holger Andersson (Jonathan), Nisse Vestblom (Sam), Lotti Törnros (L’insegnante di flamenco), Charlotta Larsson (Lotta, la Zoppa), Viktor Gyllenberg (Carlo XII), Jonas Gerholm (Il colonnello solitario), Ola Stensson (Il capitano-Il barbiere), Oscar Salomonsson (Il ballerino), Roger Olsen Likvern (Il custode)
Trailer del film

Un piccione seduto su un ramoLa cinepresa è immobile. Ritrae 39 storie legate tra di loro da due figure il cui mestiere consiste nell’«aiutare la gente a divertirsi». Vendono denti di vampiro, bombolette-risate e maschere di Zio Dentone. Lo fanno in maniera lugubre e metodica. I piani sequenza si alternano in una perfezione formale che stride con la miseria degli ambienti.
Roy Anderson compone dei veri e propri quadri-immagine, la cui grana visiva è quella delle fotografie degli anni Sessanta, il cui stile è una mescolanza di Hopper, Bosch e realismo magico, il cui tessuto è onirico, la cui antropologia è devastante. Ambienti, abiti, oggetti appartengono alla metà del Novecento ma i personaggi utilizzano dei cellulari. In due delle scene ambientate in un bar di periferia irrompe il giovane sovrano di Svezia Carlo XII che va in guerra contro i russi e ne ritorna sconfitto nella sua arroganza di ragazzo.
Il film si apre con tre momenti i cui personaggi muoiono all’improvviso nella solitudine o nel gelo degli astanti. Si conclude con la sezione Homo sapiens, feroce e plastica descrizione delle torture che gli umani infliggono ai loro simili e agli altri animali.
In molte delle scene i protagonisti parlano al telefono e ripetono quasi la stessa, unica frase: «Sono contento che stiate tutti bene».
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è un’opera che innesta sulla cupezza luterana del cinema svedese il surrealismo mediterraneo e la poetica beckettiana; fa emergere i fantasmi dell’angoscia umana riconducendoli alla loro reale misura di nullità; fa del cinema uno smagliante movimento della mente. E di nient’altro.

Gregory Crewdson – Dream House

Gregory Crewdson
Milano – Galleria Photology
Sino al 22 novembre 2008

La casa è abitata dall’inquietudine e dall’immobilità. Come se le esistenze si fossero fermate su un interrogativo, in un istante di dolore, di meraviglia, di svelamento. Gli umani sono circondati da oggetti, mobili, vegetali. Le scene sono accuratissime. Il crepuscolo o la notte avvolge l’aria e la rende densa di un accadere che sappiamo sarà ma non sapremo come sarà. Il sogno sembra virare a ogni istante verso l’incubo senza però mai toccarlo. È dunque un asintotico sognare, quello di Gregory Crewdson.

Non avevo mai visto la fotografia avvicinarsi sino a questo punto alla pittura. Al di là della presenza nelle scene di noti attori hollywoodiani, al di là dei riferimenti all’arte documentaristica o anche alle solitudini e ai silenzi di Hopper, mi sembra che uno dei segreti di queste immagini così difficili e così potenti sia la luce caravaggesca che si sprigiona dai protagonisti umani e lambisce di sé le cose trasformandosi in tenebra.

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