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John Wayne era una rossa?

Zero Dark Thirty
di Kathryn Bigelow
Con: Jessica Chastain (Maya), Jason Clarke (Dan), Jennifer Ehle (Jessica), Kyle Chandler (Joseph Bradley), Mark Strong (George),
USA, 2012
Trailer del film

Questo film parla dell’operazione che portò all’assassinio di Osama Bin Laden tramite la violazione della sovranità del Pakistan durante un’azione di guerra notturna attuata con due elicotteri. Racconta che a convincere Barack Obama ad autorizzare l’operazione fu una giovane agente della CIA, di nome Maya, la quale testardamente, e contro la prudenza dei suoi capi e colleghi, seguì una traccia che la condusse a scoprire il rifugio dello sceicco.
L’incipit è uno schermo nero sul quale si ascoltano le voci di chi l’11 settembre 2001 stava per morire nelle torri gemelle. Voci che predispongono lo spettatore ad accettare qualunque gesto rivolto a vendicare quell’evento. Si prosegue con le torture che agenti della CIA praticano sui presunti membri di Al Qaeda. La ragazza all’inizio sembra un po’ turbata ma impara ben presto anche lei il mestiere di torturatrice. Il film si conclude con la lunga, estenuante scena dei reparti speciali dell’esercito che irrompono nel rifugio di Osama, uccidono uomini e donne e infine anche il cattivo. Tra l’inizio e la conclusione si dipanano delle azioni molto simili tra di loro, alcune delle quali francamente ridicole. Il risultato è uno dei più noiosi film di propaganda patriottica che siano stati girati negli ultimi decenni a Hollywood. Con la pretesa, oltretutto, di rappresentare un’opera critica o almeno di neutrale descrizione di quanto accade.
Su questa “neutralità” il filosofo Slavoj Žižek ha formulato un’analisi molto chiara, che condivido per intero. Lascio quindi a lui la parola:

«Ecco come, in una lettera al Los Angeles Times, Kathryn Bigelow ha giustificato come Zero Dark Thirty mostri dei metodi di tortura utilizzati dagli agenti del governo per catturare e uccidere Osama bin Laden:
“Quelli di noi che lavorano nelle arti sanno che la rappresentazione non è approvazione. Se così fosse, nessun artista sarebbe in grado di dipingere le pratiche disumane, nessun autore potrebbe scriverne, e nessun regista potrebbe approfondire i temi spinosi della nostra epoca.”
Davvero? Non c’è bisogno di essere un moralista, o ingenuo sulle urgenze della lotta contro gli attacchi terroristici, per pensare che torturare un essere umano è di per sé qualcosa di così profondamente sconvolgente che a rappresentarlo in maniera “neutrale” – ossia neutralizzare questa dimensione sconvolgente – sia già una forma di approvazione.
Immaginate un documentario che avesse rappresentato l’Olocausto in un modo indifferente, disinteressato, come una grande operazione logistico-industriale, focalizzandosi sui problemi tecnici (trasporto, smaltimento dei corpi, evitare il panico tra i prigionieri per essere gasati). Un tale film incarnerebbe un fascino profondamente immorale con il suo argomento, oppure conterebbe sulla neutralità oscena del suo stile per generare sgomento e orrore negli spettatori. Dove si posiziona Bigelow in questa distinzione?

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