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What Yet Remains

Sheela Gowda. Remains
Milano –  Hangar Bicocca
A cura di Nuria Enguita e Lucia Aspesi
Sino al 15 settembre 2019

What Yet Remains è il titolo-metafora di un’opera del 2017 costruita con ciò che ancora rimane di alcune lastre di metallo dalle quali in India si ricavano i bandli, contenitori sferici di materiali utilizzati dai muratori. L’artista trasforma costruisce inventa anche ciò che rimane dello sterco delle mucche, che diventa combustibile mattoni fertilizzante. Lo trasforma in scultura ritmo simbolo.
Carta e inchiostro ricomposti sono ciò che rimane di tante pagine di giornale.
Edifici, rifugi, monumenti e rettangoli grigi e colorati sono ciò che rimane di innumerevoli bidoni. Dentro uno di essi -dal titolo Chimera (2004)– si muove una spirale e riposa al fondo una luna.
Di molti tessuti rimangono i colori e le forme.
Delle porte rimangono linee, superfici, volumi che si librano nell’aria.
Di molta gomma rimangono tappeti.
Di chilometri di capelli resta la forza verticale.
Di alcune fotografie restano gli umani immobilizzati nell’atto della violenza, nel gesto della rivolta. Nell’opera più enigmatica –Collateral (2007)– rimane la cenere, la corteccia, la polvere.
Della pittura dell’occidente resta Quadrato nero di Kazimir Malevič, un’opera che ha segnato a fondo l’astrattismo.
Nell’arte antica e sacra di Sheela Gowda rimane la materia, τὸ ἄπειρον, l’illimitato, la polvere della terra e del tempo, il suo flusso infinito. La materia minerale, la sua complessità, l’alchimia, l’eternità. Dissolti nell’icona gli umani; degli animali rimaste soltanto tracce; il vivente diventato ricamo combustione segno. Metabolizzati nello spaziotempo le piante i fiori il grano. Rimane soltanto la materia. E basta. Rimane ciò che merita di rimanere. Rimane lo splendore delle pietre.
Il resto è stato un sogno dello spazio, un’invenzione del tempo, una forma votata alla dissipatio, una metamorfosi. What Yet Remains è la gloria.

«Wege zur Behandlung von Schmerzen»

Miroslaw Balka
CROSSOVER/S
Milano – Hangar Bicocca
a cura di Vicente Todolí

‘Itinerari per il trattamento del dolore’ recita il titolo tedesco della grande vasca dentro la quale precipita acqua nera. Un Egitto all’incontrario, dove l’enormità degli spazi non accoglie il viaggio dei morti ma mostra la morte dei vivi. Gabbie, angoli, crudeli memorie, suoni ritmati e sordi, mattoni su piedistalli, oggetti comuni e insieme apotropaici -zerbini sulle soglie, saponi al mattino- segnano uno spaziotempo claustrofobico dentro il quale si accendono e spengono luci, si percepisce il sìbilo dell’aria, si precipita nel buio alla fine di un corridoio diretto verso il nulla.
Intuizioni radicali e a volte coinvolgenti, quelle di Miroslaw Balka, che però hanno spesso bisogno dell’artista che ne spieghi significati e intenti. E questo è un limite. Per quanto inconsueta e straniante, infatti, l’opera deve dire da sé la propria natura e non essere gravata di intellettualismo. I ready-mades di Duchamp –Fontana, Ruota di bicicletta, Portabottiglie– hanno saputo parlare in quanto tali, senza bisogno d’altro.
Qui la storia individuale e collettiva sembra avere l’urgenza di un urlo che si trasforma però in discorso. L’effetto è a volte il calore della tragedia umana, altre l’artificio della sua espressione.
Le cifre che danno titolo a molte installazioni scandiscono l’itinerario umano nel soffrire.

Il catalogo è questo

Laure Prouvost
GDM – Grand Dad’s Visitor Center
Milano – Hangar Bicocca
A cura di Roberta Tenconi
Sino al 9 aprile 2017

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OSGEMEOS
Efêmero
Milano – Hangar Bicocca
A cura di Cedar Lewisohn
Sino  all’aprile 2018

Una trappola per topi disegnata sopra un televisore. Piramidi di vetri rotti. Il salone di bellezza di un parrucchiere bianco figlio di una donna ghanese, che ha soltanto clienti nere, ricostruito in ogni minimo dettagliato. Una porta di ingresso che è parte del pavimento. Una panca circolare di pietra da dove è possibile sedersi per vedere dei filmati, decorata con una serie di seni simili a quelli della dea dell’Artemision di Efeso. Una sala da the nella quale è possibile prendere davvero del the. Una stanza buia e vuota che si illumina di suoni sincopati. Uno spazio per il karaoke, fatto di meduse, uccelli, pietre. Acqua, alberi, luci, canti. Piante rampicanti, oggetti di ogni tipo, foglie, cielo. Processioni di santi. Occhi in ceramica per sale e pepe. Disegni infantili, schizzi, indicazioni sensate e insensate. Ironia, corse, frenesie, accumulo.
«Come se questa complicata ed eterogenea macchina, l’umanità, per produrre quel po’ che produce, avesse bisogno di sperperare una gran quantità di energia in una sorta di attrito fatto di piccole azioni ripetute, di chiacchiere, di futili contese, di cavilli» (Giuseppe O. Longo, La gerarchia di Ackermann, Jouvence 2016, pp. 120-121).
Ovunque ironia. «Time is speed». Due seni enormi pendono dal soffitto. «Plural viewing». L’invito è «Look, look!», guardare il delirio dell’essere a partire dal proprio delirio. Il divenire. Il mondo.

OSGEMEOS_EfemeroUsciti da questo catalogo si può andare a sinistra, percorrere il lungo perimetro dell’Hangar Bicocca per arrivare a Osgemeos. Efêmeroun enorme murales dei fratelli Gustavo e Otávio Pandolfo che rappresenta il vagone di un treno con abbarbicato un ragazzo. Un’ispirazione simile a quella della Cappella Sistina.

Il cemento, la luce

Milano – Hangar Bicocca
Anselm Kiefer. I sette palazzi celesti
Antony McCall. ]Breath [the vertical works]
Kiefer permanente – McCall sino al 21 giugno 2009

 

Una verticalità immobile  e cangiante.
Le torri sefiroth di Anselm Kiefer sono fatte di container, cemento armato, libri di piombo, scritte al neon, vetro. In bilico sulla terra e radicate nel tempo. Appaiono dentro l’immenso hangar come se stessero lì da sempre, silenziose ed eloquenti, pronte ad accogliere l’angoscia che sovrasta l’umano e a scioglierla dentro le loro geometriche porte.
Le proiezioni di Antony McCall sono al limite della parola. Si entra in un luogo completamente buio ed esse appaiono. Sculture. Ma fatte di niente. Avvicinandosi si vedono pareti, vortici, forme. E le si attraversa. Guardando verso l’alto si è investiti dalla densa origine di quelle strutture: semplici proiettori che invece di produrre illusioni bidimensonali su uno schermo creano spazi dentro e intorno alle persone. E nel silenzio assoluto, nel buio, si torna al ventre. Non della madre. Della luminosa origine.

Le torri di cemento e le proiezioni tridimensionali dimostrano come da qualunque elemento, il più rozzo e il più impalpabile, si possa trarre bellezza. «V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico» (Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.522). Perché l’armonia è antica e la materia è luce.

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