Skip to content


Filosofia e verità

Edmund Husserl
RICERCHE LOGICHE I

(Logische Untersuchungen I, 1900)
A cura di Giovanni Piana
Net, Milano 2005 (Prima edizione: Il Saggiatore 1968)
Pagine XLVII-494

Husserl definisce le sue Ricerche logiche un punto di inizio e non certo di arrivo, riferendosi in particolare alla VI, la più importante dal punto di vista fenomenologico. In questo primo volume compaiono gli ampi Prolegomeni a una logica pura e le Ricerche I e II. In esse si consuma un articolato distacco dallo psicologismo della prima opera di Husserl –Filosofia dell’aritmetica– mediante un’argomentata difesa della prospettiva logicistica.

A dire il vero, le tendenze sono soltanto due. L’una ritiene che la logica sia una disciplina teoretica, indipendente dalla psicologia e al tempo stesso una disciplina formale dimostrativa. Per l’altra, essa rappresenta una tecnologia, dipendente dalla psicologia, e con ciò si esclude naturalmente che essa possa avere il carattere di una disciplina formale e dimostrativa nel senso in cui, per la tendenza opposta, lo è in modo tipico l’aritmetica. (Prolegomeni, § 3, p. 27).

Le condizioni psicologiche della conoscenza di una legge non vanno infatti confuse con le sue premesse logiche. Una simile confusione renderebbe di per sé impossibile la distinzione tra un pensare corretto e un pensare erroneo, in quanto anche i modi errati del giudizio procedono senz’altro dalle condizioni psicologiche del pensare. Il cuore del discorso consiste quindi in una teoria del significato che si costituisca nel modo più formale possibile e per la quale la verità mostri di essere indipendente dalla mente -qualsiasi mente- che la pensa.
È questo il cosiddetto realismo delle Ricerche logiche, il quale non ha nulla a che fare con le forme ingenue di realismo ma, invece, con la gnoseologia platonica. Husserl cerca infatti una fondazione radicale, universale e certa della scienza. Cerca un’evidenza apodittica per la quale spiegare non significhi pervenire al generale attraverso il particolare, alla legge ideale mediante le intuizioni empiriche ma, al contrario, «rendere comprensibile il singolare a partire dalla legge generale, e quest’ultima a partire dalla legge fondamentale» (Introduzione alle Ricerche, § 7, p. 285).
La fondazione si radica nell’evidenza, senza la quale non c’è sapere. Un’evidenza categoriale e non empirica. Dei tre nessi che coniugano conoscenza e realtà -il nesso psicologico dei vissuti di coscienza, il nesso oggettuale delle cose teoreticamente conosciute e il nesso logico delle idee teoretiche che costituiscono la conoscenza- soltanto il terzo fonda per Husserl il luogo della verità, la quale è appunto indipendente da qualunque forma -umana, animale, divina, artificiale- di vita psichica e persino di realtà effettuale e si costituisce come puro formalismo delle regole e dei significati. La legge di gravitazione in quanto legge continuerebbe a valere anche se non ci fossero più o non ci fossero ancora masse gravitazionali. A venir meno sarebbe la sua applicazione fattuale e non il suo valore di verità.
Ogni scienza -e la scienza in quanto tale- «è una complessione ideale di significati» e non l’atto del significare; è -nei termini di Fregeder Gedanke e non das Denken: «Ciò che è essenziale e decisivo nella scienza non è il significare ma il significato, non la rappresentazione e il giudizio ma il concetto e la proposizione» (Prima ricerca, § 29, pp. 362-363). La scienza è scienza delle specie e non degli enti singoli, è scienza dei significati universali e non della «formazione fonetica pronunciata hic et nunc, questo suono fuggevole che non ritorna mai identico» (Prima ricerca, § 11, p. 309). Nelle formazioni linguistiche universali e nelle idee generali si realizzano la stessa specie e il medesimo significato che poi si differenziano nei momenti individuali e nei diversi casi empirici. Ancora una volta la realtà e la sua conoscenza sono sistole e diastole dell’identità e della differenza.

Le singolarità molteplici che formano il significato idealmente unico sono naturalmente i momenti d’atto corrispondenti del significare, le intenzioni significanti. Il significato si trova, rispetto agli atti singoli del significare (la rappresentazione logica rispetto agli atti rappresentazionali, il giudizio logico rispetto agli atti di giudizio, l’inferenza logica rispetto agli atti inferenziali) in una relazione simile a quella che il «rosso» in specie ha verso queste strisce di carta, che «hanno» tutte lo stesso rosso. […]
I significati formano, potremmo anche dire, una classe di concetti nel senso di «oggetti generali» essi non sono perciò oggetti che, se non si trovano in qualche luogo nel «mondo», si troveranno tuttavia in un tópos ourànios o nello spirito divino; una simile ipostatizzazione metafisica è infatti assurda. […]
In realtà: dal punto di vista logico i sette corpi regolari sono sette oggetti, così come i sette saggi; il teorema del parallellogramma delle forze è un oggetto così come la città di Parigi.
(Prima ricerca, § 31, pp. 368-369)

Una pagina, questa, assai vicina alla Teoria dell’oggetto di Meinong e nella quale il rifiuto del realismo metafisico di Platone si coniuga con la piena accettazione e condivisione del suo realismo concettualista. Il fondamento platonico dell’intero pensiero husserliano è del tutto evidente non solo nelle Ideen ma anche in queste Logische Untersuchungen. In esse la conoscenza delle leggi generali precede sempre quella dei fatti singolari; alla legge naturale come regola empirica viene contrapposta la legge ideale come legalità fondata sui concetti; viene posta una netta distanza tra le unità ideali -identiche ovunque- e i singoli segni linguistici nei quali esse si esprimono e che sono culturalmente differenti nello spazio e nel tempo.
Negli atti di riempimento dei significati è sempre necessario distinguere rispetto all’oggetto che viene percepito il contenuto semantico della percezione, poiché soltanto quest’ultimo è passibile di giudizio ed espressione linguistica. I numeri sono per Husserl indipendenti dall’atto empirico del contare, essi sono indipendenti persino dal fatto che siano espressi o pensati. Il logicismo antipsicologistico è quindi sotto il segno della teoresi platonica: «Nessuna arte interpretativa del mondo è in grado di eliminare gli oggetti ideali dal nostro linguaggio e dal nostro pensiero» (Seconda ricerca, § 8, p. 397).
Per lo Husserl delle Ricerche logiche la verità è del tutto ideale, non empirica e atemporale. A essere nel tempo e come tempo sono i fatti, non le leggi e i significati concettuali dei quali essi sono espressione. Leggi e significati sono fuori dal tempo, senza origine e senza fine. L’affermazione che segue è a questo proposito chiarissima:

Ciò che è vero è assolutamente vero, è vero «in sé»; la verità è unica ed identica, sia che la colgano nel giudizio uomini o mostri, angeli o dei. Le leggi logiche parlano della verità in questa unità ideale, di fronte alla molteplicità reale di razze, individui, vissuti, e noi tutti parliamo della verità in questa unità ideale, a meno che non siamo confusi dall’errore relativistico.
(Prolegomeni, § 36, pp. 132-133)

È da qui, è da tale concezione semantico-veritativa e logicistica del mondo, che discende il costante invito di Husserl a «tornare alle “cose stesse”» (Introduzione alle Ricerche, § 2, p. 271). Se le singole scienze e i diversi saperi hanno tutti bisogno della ricerca filosofica per raggiungere gli obiettivi di senso e universali che si propongono; se la filosofia scientifica rappresenta il culmine del sapere e della vita degli umani -in quanto dalle sue scoperte «è assente qualsiasi aspetto clamoroso; manca qui il riferimento utilitario, immediatamente percepibile, alla vita pratica o alla promozione di bisogni spirituali più elevati» (Introduzione alle Ricerche, § 3, p. 277)- è perché «la sistematicità propria della scienza, naturalmente della scienza vera ed autentica, non è una nostra invenzione, ma risiede nelle cose, e noi non facciamo altro che scoprirla e portarla alla luce» (Prolegomeni, § 6, p. 34).
La filosofia così intesa è gratuita come la matematica, indispensabile come essa, vera al suo stesso modo.

Oggetti

Alexius Meinong
TEORIA DELL’OGGETTO
(Über Gegenstandstheorie [1904] – Selbstdarstellung [1920])
A cura di Emanuele Coccia
Quodlibet, Macerata 2003
Pagine 132

Il volume raccoglie il testo fondamentale di Alexius Meinong –Über Gegenstandstheorie, del 1904- e la Presentazione personale da lui redatta nel 1920 in vista di un’opera dedicata all’autopresentazione dei filosofi contemporanei. Nel loro insieme, i due saggi delineano con chiarezza una delle ipotesi più originali e interessanti sul rapporto tra la mente umana e gli altri enti.
Meinong parte dall’intenzionalità per arrivare a una teoria generale dell’oggetto. Non si può conoscere senza conoscere e rappresentarsi qualcosa. La filosofia, nella varietà delle sue articolazioni, è la scienza che si occupa di questi vissuti interni. E sin qui siamo in un ambito sia psicologico sia fenomenologico. Ma l’obiettivo di Meinong è assai diverso e consiste nel delineare una «trattazione teoretica dell’oggetto in quanto tale» (p. 23). Ma che cosa significa “oggetto in quanto tale”? È l’oggetto «indifferente all’esistenza [daseinsfrei]. Ho chiamato teoria dell’oggetto [Gegenstandstheorie] questa scienza dell’oggetto in quanto tale o dell’oggetto puro» (82).
Ponendosi al di là del pregiudizio a favore del reale, tale teoria si occupa di tutti gli enti: quelli ai quali è possibile attribuire un’esistenza nella realtà (Existenz) e quelli che pur non esistendo possiedono in ogni caso consistenza (Bestand). Existieren e Bestehen significano entrambi in tedesco “esistere” ma nell’utilizzo di Meinong -e nella traduzione di Coccia- il primo si riferisce all’esistere empirico, il secondo all’esistere in quanto tale. Tutto ciò che esiste consiste ma non tutto ciò che consiste deve anche esistere.
Quali sono dunque gli oggetti che pur essendoci non esistono? Sono molti. Prima di tutto gli oggetti matematici e geometrici. Numeri e forme geometriche, infatti, non possiedono esistenza empirica, sono non reali: «Non si vorrà certo accusare la matematica di estraneità alla realtà» e tuttavia «l’essere a cui la matematica in quanto tale deve interessarsi non è mai l’esistenza e mai essa si spinge in questo senso oltre la consistenza [Bestand]: una linea retta esiste così poco quanto un angolo retto e un poligono regolare quanto una circonferenza» (25-26). La matematica è dunque sostanzialmente un settore della teoria dell’oggetto. Si può dire che essa costituisca la «teoria speciale dell’oggetto», la quale nella sua forma generale si occupa di numerosi altri oggetti (47). Essa tratta, infatti, anche di  oggetti quali “identità e differenza”, la quantità di libri in una biblioteca, il numero delle diagonali di un poligono, gli antipodi, i significati, gli oggetti impossibili, quelli assurdi, come il quadrato rotondo o la montagna dorata. Essa affronta, inoltre, gli “oggettivi” e cioè i contenuti di molte proposizioni e giudizi. Ad esempio:

Quando dico “è vero, che ci sono antipodi” non è agli antipodi ma all’oggettivo “ci sono antipodi” che la verità è attribuita. Ciascuno comprenderà immediatamente che l’esistenza degli antipodi è qualcosa che certo può consistere [bestehen] ma da parte sua non può esistere. Ciò vale anche per tutti gli altri oggettivi, così che ogni conoscenza che ha per oggetto un oggettivo rappresenta al tempo stesso un caso di conoscenza di un non-esistente. (25)

L’esistenza stessa è un tale oggettivo e quindi essa «non esiste, ma può solo consistere» (87).
Da tutto ciò si comprende che per Meinong l’oggetto appartiene all’ontologia e non alla teoria della conoscenza. La Gegenstandstheorie è dunque una scienza autonoma rispetto alla gnoseologia e a ogni altro sapere. Autonoma anche dalla metafisica, che pure sembrerebbe lo sfondo e l’ambito naturale di un discorso siffatto. Rispetto alla metafisica, la teoria dell’oggetto è a priori, è più ampia e universale. Affermazioni teoreticamente assai forti, queste, ma ben difese da Meinong, il quale scrive che

la metafisica ha senza dubbio a che fare con la totalità di ciò che esiste, ma la totalità di ciò che esiste, con inclusione di quanto è esistito ed esisterà, è infinitamente piccola se paragonata alla totalità degli oggetti della conoscenza [Erkenntnisgegenstände]. Che tutto ciò sia trascurato con tanta leggerezza si deve certamente al fatto che l’interesse particolarmente vivo per il reale, interesse che appartiene alla nostra natura, porta all’eccesso per cui si considera il non-reale come un puro nulla o, più precisamente, a considerarlo come qualcosa che non offrirebbe in alcun modo alla conoscenza dei punti di aggancio, oppure forse alcuni, ma solo scarsamente apprezzabili.
Quanto poco una simile opinione sia dalla parte della ragione lo mostrano facilmente gli oggetti ideali [ideale Gegenstände], che hanno sì una certa consistenza, consistono [bestehen] ma non esistono affatto e perciò non possono essere in nessun modo reali. Uguaglianza e diversità, ad esempio, sono oggetti di questo tipo: essi consistono forse in questa o quella situazione tra realtà fattuali, ma non costituiscono alcun frammento di realtà. (24)

Appartiene alla teoria dell’oggetto tutto ciò che può essere predicato e conosciuto di un oggetto senza tener conto della sua esistenza. È questo un sapere illimitato, universale e a priori, il cui oggetto è  «tutto il dato», mentre la metafisica sarebbe una scienza «a posteriori che del dato sottopone ad analisi ciò che appunto può esser preso in considerazione dalla conoscenza empirica, cioè tutta la realtà», la quale -dovrebbe essere ormai chiaro- non coincide con tutto ciò che è possibile conoscere (55-57).
La logica del non esistente, del fuoriessente [auβerseiend], viene da Meinong espressa con alcune formule efficaci: «ci sono oggetti per i quali vale che siffatti oggetti non ci sono» (28), il che significa che il puro oggetto si pone al di là dell’essere e del non essere. «L’essere (inteso nel suo senso più ampio) che si ha davanti a sé in ogni oggettivo, si rivela o come essere in senso stretto (il paradigma è: “A è”) o come esser-così (“A è B”) o come con-essere (“se A, allora B”)» (87). L’esser così, l’essere in un certo modo dell’oggetto, è un campo di indagine che prescinde dalla questione relativa all’esistere o al non esistere dello stesso oggetto. «Non v’è dunque alcun dubbio: ciò che è destinato ad essere oggetto di conoscenza non deve per questo necessariamente esistere» (27).
In tal modo l’analisi di Meinong si pone anche oltre idealismo e realismo, ed è in ogni caso lontanissima dal soggettivismo che pretende di creare il mondo: «Per questo l’afferrare non può mai creare il suo oggetto o anche solo modificarlo, ma solo sceglierlo per così dire dalla molteplicità di ciò che è già dato (per lo meno come fuori-essente)» (112).
Il pensiero di Meinong affronta anche altri ambiti, quali la teoria del valore, i sentimenti -che il filosofo pone in un ingiustificato rapporto di anteriorità logica rispetto ai desideri-, il libero arbitrio. Per tutti vale un’osservazione significativa e condivisibile formulata nel paragrafo conclusivo della Presentazione personale: «L’arte di rendere quanto è già popolare ancora più popolare e, per ciò stesso, di diventar popolari mi è stata interdetta; e per quanto possa esser utile per introduzioni e digressioni retoriche, la filosofia non è mai stata del resto realmente popolare nell’esercizio della scienza» (126). Questo pensatore rigoroso e inclassificabile enuncia accenti personali di grande intensità quando accenna al tramonto del proprio giorno, al «destino di tutto ciò che è umano, la caducità […]. Tra non molto lo stesso destino esigerà da me in modo ancor più evidente un tributo personale. Spero che il mio sforzo e le mie aspirazioni siano riuscite ad accrescere durevolmente le generazioni future nel sapere o per lo meno nella speranza del sapere, non importa se in misura modesta» (79).
È parte di tale caducità dell’umano il fatto che «la ricerca scientifica è destinata solo eccezionalmente a condurre a risultati permanenti e definitivi: ciò che essa porta alla luce ha espletato il suo compito se è divenuto punto di partenza per nuove e migliori elaborazioni», che altri -continua- potranno e dovranno «proseguire in forma autonoma» (120). Ed è in questo spirito che sarebbe da porre una domanda sullo statuto del tempo all‘interno della Gegenstandstheorie. Il tempo, infatti, è un oggetto intessuto di molteplicità. Esso esiste certamente nella fisicità dei movimenti naturali e nel divenire del cosmo. Ma anche consiste nella sua dimensione più interiore di ritmo matematico, di significato sonoro, di percezione della durata, di temporalità sociale e di convenzione strumentale. E ritorna a essere esistente nei corpi che vivono e che quindi vanno verso la propria dissoluzione. In questa sua natura plurale e irradiante, il tempo è forse l’oggetto per eccellenza, il quale è e consiste, sta e diviene, trasforma ogni altro ente ed è in se stesso il suo proprio mutare.

La mente

Aa. Vv.
LA MENTE
Tradizioni filosofiche, prospettive scientifiche, paradigmi contemporanei

A cura di Stefano Gensini e Antonio Rainone
Carocci, Roma 2008
Pagine 453

L’obiettivo del libro è dichiarato all’inizio ed è del tutto condivisibile: «consolidare una frequentazione» con la tradizione filosofica «oggi sembra essenziale affinché la filosofia della mente non si insterilisca in un certo teoreticismo o scolasticismo, che è fra le sue tentazioni ricorrenti, e sempre più si alimenti nel dialogo con la ricerca di punta, in settori quali le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, le scienze del linguaggio e la psicologia sperimentale, che mostrano di volersi e doversi cimentare con tematiche e vocabolari descrivibili come “mentalisti”» (Gensini-Rainone, p. 15).
Queste e altre pratiche stanno consentendo alla Filosofia della mente -e le permetteranno sempre più- di diventare una sorta di koiné, di lingua comune alla ricerca filosofica del XXI secolo. Una fecondità che appare chiara anche dalle prime due parti del libro, che affrontano tematiche specialmente (ma non solo) storiografiche. Vi si discute di molti argomenti e Autori ma soprattutto emerge la continuità delle questioni poste, pur nella varietà dei linguaggi e delle metodologie adoperate per rispondervi. Ad esempio, le tesi di Epicuro e Gassendi sulla mente animale sono assai vicine a quelle di Darwin e della zooantropologia di Roberto Marchesini, sostenendo come sia «del tutto improprio valutare la peculiarità degli animali dal punto di vista nostro: essi vanno intesi dal punto di vista delle loro caratteristiche di specie, come dotate di una propria legittimità e autonomia»; «linguaggio e mente sono, in questo paradigma, facoltà distribuite in modo graduale fra le specie animali, intrinsecamente connesse al corpo (…), soggette a evoluzione» (Gensini, 30 e 26), anche perché «ogni specie pertinentizza la realtà a seconda di come “vede” il mondo» (Diodato, 273). Oppure: Leibniz, Kant e Peirce (insieme a molti altri…) condividono la tesi della costitutiva natura semiotica del pensare e quindi la struttura linguistica della mente, ben riassunta nella formula del filosofo statunitense: «la mente è un segno che si sviluppa secondo le leggi dell’inferenza». L’esternismo di Vygotskij è uno dei caratteri pure della filosofia del linguaggio di Vico e degli sviluppi nella Teoria della Mente Allargata di Manzotti e Tagliasco o della embedded mind di Clark.

Particolare attenzione anche storica è dedicata alla biologia e alle neuroscienze, con accurate discussioni su Darwin, Broca e Wernicke, Deiters, Schultze, His, Kölliker, Golgi, Ramón y Cajal. In ogni caso, essenziale per la nascita della Filosofia della mente fu l’approccio antipsicologista di Frege, Husserl, Vygotskij, de Saussure. Le leggi del pensiero non coincidono con la modalità del pensare. La mente non sta nel cervello soltanto ma accade nella corporeità tutta intera, nelle interazioni e nei segni sociali, nella evoluzione temporale. Il corpo/mente ha natura linguistica e dunque insieme neurobiologica e relazionale. Hanno certamente ragione neuroscienziati come Changeux, Edelman, Damasio a sostenere che «la natura fisica» dell’encefalo e del SNC «-contrariamente a quanto avanzato dai funzionalisti -crea dei vincoli all’organizzazione del pensiero» (Artuso, 377). Vincoli assai complessi, visto che nel cervello non esiste alcun centro autonomo e specifico di elaborazione dei dati o di conservazione dei ricordi e l’architettura neurale è, piuttosto, distribuita. Memoria e reminiscenza, per usare i termini aristotelici, non sono strutturalmente e fisicamente separati ma costituiscono due funzioni diverse e profondamente integrate tra di loro. Una reciprocità funzionale che produce ciò che chiamiamo io e che certamente esiste (l’eliminativismo si scontra con una messe di dati così grande che solo un forte impegno ideologico e non scientifico può ritenerla irrilevante) anche se non è descrivibile in termini soltanto quantitativi: «l’io non è un’entità spaziale. L’io coincide con il continuo lavorio che un corpo determinato (…) compie per raccontare agli altri, e quindi a sé, ciò che è stato quello stesso io, e pertanto ciò che sarà» (Cimatti, 421).
La mente è dunque un dispositivo temporale e semantico perché «il soggetto umano è costituzionalmente un cercatore di senso e un produttore di significato» (De Palo, 199), la cui strutturale intenzionalità è per Searle «caratterizzata dalla nostra capacità inimitabile di “dare un senso alle cose”» (Artuso, 376) anche mediante la distinzione tra l’oggetto come struttura chimico-fisica e l’oggetto in quanto forma aspettuale, come ente/evento carico per noi di memorie vissute, di flusso di attese, di spessore semantico. In tale complessità, il rapporto tra mente e materia non è dualistico né identitivo ma costruzionistico nel rigoroso significato di una costruzione di senso dei dati materiali che si offrono ai sensi e dei percetti che immediatamente diventano.

Non esiste una realtà prima esterna, una materia di per sé significante, un’oggettività indipendentemente dalla mente. Il flusso di percezioni sensoriali che ci investe è reso possibile dall’immediata donazione di significato che l’insieme del nostro corpo, della memoria e degli apprendimenti dà al nostro esistere spazio-temporale. I significati non stanno negli enti, nei processi e negli eventi. Essi abitano nella mente che da questo fluire di enti, processi ed eventi è costituita. Esternalismo e internalismo vanno entrambi oltrepassati e «sarebbe dunque auspicabile una terza via che riconsiderasse, insieme alla necessaria dimensione neuropsicologica, anche quella “pubblica” e “linguistica” del significare, in tutte le sue implicazioni, anche empiriche» (Diodato, 283).
Per quanto breve sia, credo che anche da questa sintesi emerga chiara la ricchezza di una Filosofia della mente che, pur nella varietà delle posizioni e nella naturale vivacità delle polemiche, si sta avviando verso prospettive sempre più integrate e non mutualmente esclusive.

Magritte. Il mistero della natura

Milano – Palazzo Reale
Sino al 29 marzo 2009

Il Surrealismo è diventato attraverso Magritte parte del nostro modo di vedere il mondo. La semplicità del fatto che quella dipinta «n’est pas une pipe» -certo!- perché non può essere caricata e fumata ma è soltanto la rappresentazione di una pipa, sembra ancora turbare. Al di là di questa anche troppo celebre icona, l’arte di Magritte è complessa e del tutto consapevole. La discrasia tra percezione e realtà è uno dei temi filosofici per eccellenza, dall’invito di Eraclito e Parmenide -pur così diversi- a diffidare dell’«occhio che non vede e dell’udito che rimbomba di suoni illusori», fino agli insegnamenti della Gestalt passando per la rassegnata rinuncia kantiana a conoscere la realtà come essa è in sé. Magritte germina da qui e per questo è costante il suo invito a cogliere l’enigmaticità assoluta dell’ovvio: «le mie opere sono tutte impregnate della certezza che noi apparteniamo, di fatto, a un universo enigmatico».

L’enigma è il quotidiano, l’arte cerca solo di dirlo. In questa mostra l’attenzione si concentra sui segreti del mondo naturale, dentro il quale Magritte opera la contaminazione fra i tre regni. Appaiono quindi le piante-uccelli, le aquile che si trasformano in montagne, uova/sculture, donne il cui corpo diventa cielo, intrecci impossibili di luci e di ombre come nell’intenso L’empire des lumières, la cui potenza è data dalla contemporaneità di una abitazione-giardino immersa nella notte e del cielo pienamente diurno che la sovrasta. In ogni caso, è ancora Magritte a parlare, «non si deve temere la luce del sole con la scusa che è servita quasi sempre a illuminare un mondo miserabile». La Luce è pura, come il mondo. A poter essere spento e quindi miserabile è -semmai- l’occhio umano che guarda. Il Surrealismo è un modo per aprire gli occhi sull’invisibile: «essere surrealista significa bandire dalla mente il già visto, ricercare il non visto». Il Surrealismo è una filosofia.

Vai alla barra degli strumenti