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Banksy / Blob

A VISUAL PROTEST. The Art of BANKSY
Milano – Museo delle Culture
A cura di  Gianni Mercurio
Sino al 14 aprile 2019

Un B-movie degli anni Cinquanta –The Blob– racconta di una entità proveniente dagli spazi siderali e con il potere di inglobare tutto ciò con cui entra in contatto. Una massa viscida, gelatinosa e nera, capace di espandersi sino a coincidere con tutto. Il film e l’entità sono stati resi celebri dalla omonima trasmissione televisiva di Rai3, che si apriva con alcune delle sue scene e l’immancabile frase «è la cosa più mostruosa che abbia mai visto». Blob è un programma nato da un’idea situazionista di Enrico Ghezzi. Il situazionismo -in particolare il gruppo CoBrA- praticava la tecnica del détournement, della metamorfosi, spostamento e trasformazione di ciò che è normale in qualcosa di bizzarro, inquietante, semanticamente altro. E questo anche tramite la mescolanza degli elementi più comuni. Il Blob televisivo metteva insieme spezzoni di altri programmi facendone emergere la profonda, intima, inemendabile mostruosità.

Banksy -artista britannico del quale non si conoscono identità, vita, eventi- pratica in modo magistrale il détournement dipingendo sui muri delle città, sulla tela e su altri materiali dei soggetti del tutto comuni o delle vere e proprie icone dell’immaginario collettivo, ai quali aggiunge particolari, segni, modalità che ne mutano e capovolgono il significato.
La regina Elisabetta è una scimmia incoronata. Delle tranquille nonnine lavorano maglioni con su scritte alcune frasi punk. La celebre bambina vietnamita nuda e ustionata dal napalm (una foto di Nick Ut) avanza mano nella mano con sorridenti personaggi disneyani. E poi topi, topi dappertutto, abbigliati con i vestiti e le identità più diverse. Perché, afferma Banksy, i ratti «esistono senza permesso, sono odiati, braccati e perseguitati. Vivono in una tranquilla disperazione nella sporcizia. Eppure sono in grado di mettere in ginocchio l’intera civiltà. Se sei insignificante e non amato, allora i topi sono il modello di riferimento definitivo».
Una street art rivoluzionaria, quindi, o almeno ribelle? Certo, nelle intenzioni, nella passione, nelle provocazioni. Gianni Mercurio, curatore della mostra, scrive infatti che «parafrasando Gramsci, Banksy ci dice che se il potere esercita la sua egemonia culturale in televisione, nel cinema, nella pubblicità, nelle chiese, nelle scuole e nei musei, lo street artist trova nella strada il luogo ideale nel quale mettere in atto una contro-egemonia» (dalla cartella stampa della mostra). E tuttavia la civiltà ordoliberista che trionfa nel nostro presente è un Blob capace di trasformare in se stessa qualunque ente, evento e processo con cui entra in contatto.
E allora questo artista dei ratti, questo punk antistituzionale, questo situazionista geniale, estremo ed accorto viene celebrato in una mostra impeccabile, intelligente e assolutamente godibile ma resa possibile dal sostegno economico del maggior quotidiano finanziario che si stampi in Italia e da una numerosa serie di sponsor che vendono e promuovono automobili, caffè, birre, prodotti assicurativi, alberghi, supermercati e grandi magazzini. Tutta gente dotata di un brand e che si muove sempre per ragioni fiscali e di lucro.
E non basta. Il Comune di Milano dal 27 novembre 2018 al 15 gennaio 2019 ha messo a disposizione degli artisti milanesi 600 manifesti collocati per tutta la città, sui quali hanno dipinto ciò che hanno voluto, trasformando in questo modo «il manifesto in una creazione virtuale. Ogni 15 giorni verranno affissi 220 manifesti, pronti a ospitare le creazioni degli artisti: 15 giorni di tempo quindi per ammirare i lavori. Poi, come da regolamento comunale, i manifesti verranno sostituiti per dare spazio alle nuove creatività; lo stesso destino, del resto, che subiscono le opere di alcuni street artist, godute solo dai pochi fortunati prima della loro cancellazione, strappo, distruzione o furto».
E così aziende private e istituzioni pubbliche si mostrano democratiche e trendy, attente al marketing -come attento è, del resto, lo stesso Banksy che coltiva il proprio anonimato come strumento fondamentale di promozione- e aperte all’anticonformismo.
Dimostrazione evidente di questa blobizzazione della street art è un video girato dallo stesso Banksy sulla situazione della guerra in Siria -visibile anch’esso in parte nella mostra milanese-, che spinge in modo abile e banale su tonalità lacrimevoli, sentimentali e totalmente apolitiche. La rivolta è diventata spettacolo, inesorabilmente.

Aveva ancora una volta ragione il fondatore del Situazionismo quando scriveva che lo spettacolo «est le soleil qui ne se couche jamais sur l’empire de la passivité moderne. Il recouvre toute la surface du monde et baigne indéfinitement dans sa propre gloire» (Guy Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992,  af. 13, p. 21), è il sole che mai tramonta sull’impero della moderna passività; un sole che pervade l’intera superficie del pianeta e si bagna senza fine nella propria gloria. E soprattutto quando afferma -definizione davvero geniale- che lo spettacolo nella sua essenza altro non sarebbe che «le capital à un tel degré d’accumulation qu’il devient image» (Ivi, af. 34, p. 32); l’arte di Banksy è formalmente molto bella, godibile, figurativa, immediata, di una grande potenza metaforica ma è nella sua essenza e nel suo destino ‘il capitale a un grado tale di accumulazione da essere diventato immagine’.
Non c’è dunque via di scampo? No, nelle arti visive, sonore e forse anche letterarie non c’è via di scampo. Per esistere si deve stare nel mercato, si deve abitare in ciò che Giuseppe Frazzetto -le cui teorie estetiche questa mostra conferma in modo clamoroso- definisce «il Collettivo» e che opera mediante lo «spostamento da una centralità dell’artista a un’enfasi sul sistema dell’arte: a risultare significativa non sarà tanto la concreta opera del singolo artista, ma la vicenda complessiva del sistema dell’arte. Non a caso certi resoconti sembrano ‘storie dell’arte senza nomi’ nelle quali gli artisti finiscono con l’apparire gli esecutori di mutamenti, alternanze stilistiche, fratture e ritorni che si sarebbero determinati in ogni caso» (Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione, Fausto Lupetti Editore 2017, p. 113).
Banksy è, appunto, un nome fittizio, un senza nome.
Una via d’uscita dalla totalità di un presente senza residui non la si può trovare nel sistema dell’arte, tanto meno in quello dell’informazione. Se una possibilità c’è, essa -come sempre- abita nel pensiero critico, nel rigore della metafisica, nella filosofia.
Per il resto, uno sponsor vi seppellirà.

Archetipi tribali

KEITH HARING
About art

Milano – Palazzo Reale
A cura di Gianni Mercurio
Sino  al 18 giugno 2017

Uno dei massimi artisti del Novecento fu Keith Haring. Giovane -visse 32 anni-, vivace, ironico, innovatore. E insieme assai colto. Nella sua opera si racchiude e squaderna una ricca varietà di prospettive, fonti, sintesi: come la semiologia, l’etnologia, le culture tribali. Quella di Haring è una etnopittura rinascimentale e astratta nella quale l’uomo vitruviano di Leonardo assume le sembianze di un pittogramma antropomorfo -l’«omino»- che si sostanzia di riferimenti espliciti all’arte antica. Scrisse infatti Haring che «I feel in some way that I may be continuing a search, continuing an exploration that other painters have started. I am not a beginning. I am not an end. I am a link in a chain. […] There is a lot to be learned from antiquity and their use of symbols». Anche per questo fu propenso a utilizzare «basic structures that are common to all people of all times» e con esse fu capace di esprimere gli archetipi universali di una specie che ha bisogno di simboli come si nutre di pane. Il pane lo produce dal grano che germina nei campi, i simboli dalla distesa spaziotemporale della propria storia ontogenetica e filogenetica.
E così in questa mostra alle opere di Haring si affiancano il calco di un Combattimento di centauri e lapiti e una ceramica antica  in forma di Antefissa con Gorgone; un grande fregio del 1984 è messo a confronto con un  fregio tratto dalla Colonna Traiana; un bronzo in tre parti sta accanto a una antica pala d’altare, della quale Haring ricrea lo spessore ieratico, la materia sacra.
Profonda è in questo artista l’ammirazione per l’opera di Hieronymus Bosch, che ritorna nella moltiplicazione di simboli i quali pongono in continuità l’umano e altri animali; nelle ripetute immagini di draghi; nella visionarietà materica e arcaica. In Untitled (1986, riprodotto qui sopra) dentro un giallo lampante sono nascoste e insieme risultano evidenti citazioni da Michelangelo, Cranach, Picasso, Bosch. In altri quadri emerge il postmoderno, con riferimenti a Dubuffet, Mondrian, Léger, Pollock, Alechinsky. Alcuni dipinti sembrano ispirati a decorazioni arabe. Ovunque un flusso di geometrie scandite e intrise di tenerezza, dalle quali gorgogliano totemismo e sciamanesimo, culture africane e azteche.
L’ultima sala raccoglie opere e video dei disegni realizzati da Haring per la metropolitana di New York. In due di essi -che chiudono questa preziosa mostra- è possibile riconoscere una Madonna col bambino e una Trinità. Ancora una volta, dall’inizio alla fine della sua breve e scintillante parabola, Keith Haring coniuga aniconismo e simbologia. Lo fa in modo profondo in un Untitled del 1989 (qui a sinistra), nel quale convergono dentro un cerchio i corpi in movimento. Come una danza di grande bellezza.

Semiotica della distanza

Jean-Michel Basquiat
Milano – Museo delle Culture
A cura di Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio
Sino al 26 febbraio 2017

Un’energia senza riposo, una creatività rabbiosa e senza requie. Archetipi, paure, sogni, diventano forme solo apparentemente semplici e immediate, immerse invece nella conoscenza della storia dell’arte e costruite con un sicuro dominio della tecnica. «Non so come descrivere la mia arte, non è mai la stessa cosa», disse una volta Basquiat. Ed è vero.
Il corpo, sempre e dappertutto. Con la sua fragilità, la sua decadenza, la sua bruttezza, la sua tenacia. La serie Anatomy disegna con bianca precisione parti dello scheletro umano su uno sfondo nerissimo.
Il potere con le sue corone. Il gioco, come nell’ironica casetta infantile -proprio identica a quella che tutti disegniamo all’asilo- sotto la quale è scritto A house built by Frank Lloyd Wright for his son. O come nella divertita serie di piatti in ceramica dipinti tra il 1983 e il 1984 con nomi di pittori, registi e altri artisti del passato e del presente.
La rabbia ma anche l’ascesi, come nel bellissimo Ciclista del 1984 che sembra assorbire e ricreare una delle possibili maniere di Picasso. In un’intervista Basquiat affermò che Guernica era da bambino il suo quadro preferito; come preferito avrebbe potuto essere Bacon.
I quadri di Basquiat sono impastati dei colori più accesi e dei più scuri: nero, giallo, rosso, bianco, verde, marrone. E su tutto domina il segno. In queste opere, infatti, i segni grafici sono scrittura e la scrittura diventa un segno grafico; «uso le parole come fossero pennellate».
L’opera di Basquiat è una semiotica della distanza, semiotica di una controllata e consapevole ribellione alla vita, assai più che alla società, ai cui riti e regole l’artista infine cedette insieme al campione della società dello spettacolo: Andy Warhol.
Nelle teste e nei ritratti appare chiaro che uno dei  segreti di quest’arte è la sua classicità.

La materia, lo specchio

Anish Kapoor
Milano – Rotonda della Besana
A cura di Gianni Mercurio e Demetrio Paparoni
Sino al 9 ottobre 2011

Sette grandi opere dentro la struttura regolare e magnifica della Rotonda della Besana. Al centro domina My Red Homeland, una grande installazione fatta di cera rossa, con un braccio in acciaio che passando sull’enorme massa la spiana e la trasforma a ogni istante. Tra le colonne dell’antica chiesa si riverberano sei specchi a forma di parallelepipedo, di parabole, di curve. Specchi che creano intensi effetti spaziali e danno vita all’opera, la quale esiste soltanto quando una figura consapevole la attraversa, si riflette, riflette. In S-Curve l’ordine perfetto del convesso si sbriciola subito nella dissoluzione del concavo. E viceversa. Non Object (Door) deforma il corpomente che vi si specchia, Non Object (Plane) gli trasmette una magia tridimensionale che -avvicinandosi ancora- diventa luce bianchissima che a guardarla stordisce. Quasi una droga estetica. E in ogni punto di questo luogo a croce greca si crea un nuovo artefatto, una rinnovata visione. «Oltre Oriente e Occidente» recita la presentazione della mostra di questo artista/architetto nato a Bombay nel 1954. Di più: oltre soggetto e oggetto, contenuto e forma, materia e sguardo. Il mondo è tutto nella visione e la visione è cosmica.

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