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Maternità

Stitches
(Savovi)
di Miroslav Terzic
Con: Snezana Bogdanovic (Ana), Jovana Stojiljkovic (Ivana), Pavle Cemerikic (Marko), Dragana Varagic (ginecologa)
Serbia, Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, 2019

Belgrado, 2018. Ana lavora come sarta e – tra un punto e l’altro della macchina da cucire – la sua mente, la sua memoria, la tensione, il silenzio tornano di continuo a diciott’anni prima, quando in ospedale le dissero che il figlio che aveva messo al mondo era morto. Non le avevano consentito di vederlo. Ana cerca la tomba del bambino e tuttavia sente o meglio sa che suo figlio è ancora vivo.
Un gorgo di corruzione e di avidità ha fatto sparire, in Serbia ma non solo, centinaia di neonati, che ginecologi, infermieri, poliziotti hanno destinato a un vero e proprio traffico di bambini sottratti e venduti. Il muro di fronte al quale Ana si trova sembra inscalfibile. È costruito con i mattoni non dei singoli ma delle istituzioni, a cominciare dagli ospedali e dalla polizia. Anche il marito, la figlia, la sorella, sono stanchi di una ostinazione che non si rassegna. A questa impossibilità Ana oppone una determinazione silenziosa, uno sguardo teso, un camminare incessante. Che la porteranno al nome che cerca, al luogo, alla verità. Gli ultimi gesti saranno i più generosi. Su tali gesti il film si chiude.
La vicenda è ispirata a eventi realmente accaduti, a una cupidigia che di fronte a nulla si arresta pur di soddisfarsi. La cupidigia di persone che pur di avere un bambino sono disposte a corrompere, giungono al crimine. Ma che cosa c’è di così potente nel desiderio di pulire gli escrementi infantili, di trascorrere notti insonni al pianto incomunicabile di un pargolo, di osservare adoranti un volto ancora informe e in tutti uguale, volti brutti come quelli dei neonati della nostra specie? L’unica motivazione plausibile è l’egoismo ontogenetico – del singolo – che si fa perpetuazione filogenetica –della specie. Il desiderio di sopravvivere, insomma, nei geni che trasmettiamo ad altri conspecifici, e che ci renderanno in qualche modo ancora vivi anche quando saremo morti.
Questo vale per i genitori naturali. Ma l’ossessione che porta a desiderare un figlio non proprio pur di chiamarsi ‘madre’, pur di dirsi ‘padre’, è inspiegabile, è una delle tante forme della patologia mentale degli umani. Una delle più oscure.
A queste dinamiche il film accenna con un’idea formale ben precisa, fatta di sottrazione. Il montaggio è asciutto, la sceneggiatura sobria, la recitazione di Ana (Snezana Bogdanovic) tanto più potente quanto silenziosa nel suo muoversi in una spirale che sembra continuamente tornare su se stessa, scendere nel buio e in questa oscurità trovare finalmente pace.

Mente & cervello 81 – Settembre 2011

Che cos’è un rito? Come nasce? Quale funzione svolge? A queste domande cercano di rispondere da tempo discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia della cultura, l’etologia. Un contributo importante può venire anche delle scienze della mente. Il ricco dossier di questo numero di M&C lo dimostra.
«Nella definizione dei rituali -specialmente di quelli che non riguardano la realtà quotidiana- spiccano di solito quattro caratteristiche fondamentali: ruolo del corpo, formalità, modalità e trasformazione» (A. Michaels, p. 54). A essere coinvolto in un rito è sempre l’intero corpomente in modi formalmente stabiliti e rigorosi, con modalità che differenziano lo stesso gesto se compiuto nel quotidiano o se invece inserito in una forma rituale, avendo come obiettivo una trasformazione di condizione interiore o di status comunitario.
I riti di iniziazione e di passaggio, ad esempio, sono tra i più importanti e prevedono tre fasi: di separazione dal luogo o dallo status precedente, liminale di transizione e di abolizione dell’ordine precedente, di integrazione nel nuovo luogo o nella nuova condizione. In generale, un rito fa parte di una ben precisa cultura e solo in quel contesto acquista il suo senso, si struttura in un linguaggio che spesso produce azioni -come quando un funzionario civile o religioso dichiara due persone marito e moglie-, ha una qualità estetica specifica e caratterizzante, segna una interruzione e un rallentamento del consueto flusso temporale attraverso il tempo della festa, del passaggio o del lutto. 

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Neuroni e identità

Il Sé sinaptico.
Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo
di Joseph LeDoux
(Synpatic Self. How our Brain Become Who We Are, Viking Penguin 2002)
Trad. di Monica Longoni e Alessia Ranieri
Prefazione di Edoardo Boncinelli
Raffaello Cortina Editore, 2010
Pagine 556

Uno degli elementi più discutibili della ricerca neurologica -e medica in generale- sta nell’utilizzo di quelli che anche LeDoux definisce “animali da esperimento”. Una formula chiaramente inaccettabile, che riduce la dignità dell’animale vivente a una cosa. Il retaggio cartesiano di molta neurologia è evidente anche in questa scelta lessicale e nell’estensione per analogia alla mente umana dei risultati di esperimenti attuati su altre specie. Di converso si continua ad applicare agli altri animali l’illogica pretesa di essere come l’Homo sapiens. Dato che tale pretesa è per definizione impossibile da soddisfare, se ne deduce che gli altri animali non abbiano coscienza, consapevolezza, mente. C’è da dire che per fortuna l’autore di questo libro tempera di tanto in tanto simili tesi antropocentriche, come quando scrive che «una volta che si accetta che il Sé di un essere umano abbia aspetti consci e inconsci, diviene facile osservare come gli altri animali possano essere pensati come aventi dei Sé, purché si sia cauti circa quali aspetti del Sé vengano attribuiti a ciascuna specie in questione» (p. 30).

Un altro limite del libro è la prospettiva nel complesso discreta e non olistica nella quale si pone. Vengono infatti narrate in dettaglio le vicende dei neuroni, dei dendriti, degli assoni, delle sinapsi. E si dà quasi per scontato che questo basti per comprendere il Sé. Ora, se è vero che tutti i pezzi e le parti di un motore devono essere attivi e funzionanti affinché si dia il movimento dell’automobile, il moto dell’auto nello spazio è altra cosa rispetto al funzionamento dei singoli pezzi meccanici. Il tutto, come l’empirista Aristotele sapeva, è superiore alla somma delle parti. Sembrerebbe quindi che anche LeDoux sia un riduzionista al pari di molti suoi colleghi. Ma più sopra ho sottolineato il “quasi”. Si tratta infatti di un riduzionismo temperato che ammette come le strutture e le dinamiche neuronali non si pongano in contrapposizione alla mente e al mondo ma con essi si integrino: «per quanto cominciamo a pensare a noi stessi in termini sinaptici, non dobbiamo sacrificare altre modalità di comprensione dell’esistenza» (18); «ritengo che le impostazioni non scientifiche (letteratura, poesia, psicoanalisi) e le scienze non riduzioniste (linguistica, sociologia, antropologia) possano coesistere con le neuroscienze, integrandole» (454).

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