Skip to content


I taccuini di Heidegger

Friedrich-Wilhelm von Herrmann
Francesco Alfieri
Martin Heidegger. La vérité sur ses Cahiers noirs
Traduit de l’italien et de l’allemande par Pascal David
Gallimard, Paris 2018
Pagine 487

Dopo la traduzione in tedesco (Duncker & Humblot, 2017) esce anche quella in francese di un libro destinato a rimanere tra i più lucidi e significativi nella assai estesa bibliografia heideggeriana: Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri, di Friedrich-Wilhelm von Herrmann e Francesco Alfieri (Morcelliana, 2016). Il volume, elegante come sempre accade con Gallimard e tradotto con grande cura da Pascal David, è stato pubblicato nella prestigiosa collana «L’infini». La Postface ha il significativo titolo Retour aux sources, ritorno alle fonti. David afferma che lo studio e la traduzione di questo libro gli hanno aperto «de nouveaux horizons» (449), come accade a tutti coloro che leggono e leggeranno senza pregiudizi La verità sui Quaderni neri.
La ricchezza della documentazione testuale, il rigore filologico, la profondità esegetica del libro costituiscono un gesto teoretico che indica ai lettori e agli studiosi i contenuti, il contesto, le condizioni e la fecondità di quelli che più correttamente si dovrebbero chiamare i Quaderni di lavoro heideggeriani, i suoi taccuini. «Les Cahiers noirs», infatti, «ne sont intelligibles que rapportés aux grands traités dont ils accompagnent la gestation et la rédaction à titre, pour ainsi dire, de marginalia» (‘sono comprensibili solo in relazione ai grandi trattati dei quali accompagnano la gestazione e la redazione, come -per così dire- dei marginalia’; 452). E questo conferma che sui testi e sul pensiero di Martin Heidegger bisogna esercitare una analisi sempre ontologica e mai soltanto ontica.
Se non si procede in questo modo, grande è il rischio di non comprendere una prospettiva complessa, rizomatica e radicale, proiettando su di essa preoccupazioni, termini e obiettivi che nulla hanno a che fare con il tentativo heideggeriano di restituire alla filosofia il compito di leggere in modo complesso la complessità del mondo. La vérité che dà titolo al libro è stata, specialmente negli anni più recenti, «quelque peu malmenée par leur réception médiatique et académique, qu’il ne s’agit pas seulement ici de rétablir, mais de dégager, de faire apparaitre selon le geste phénoménologique de la monstration, à l’encontre de toute occultation ou contrefaçon, en la laissant se dire par elle-même» (‘così maltrattata dalla sua ricezione mediatica e accademica, che non si tratta soltanto di ristabilirla, ma di renderla chiara, di farla apparire tramite il gesto fenomenologico del mostrare, contro ogni occultamento o contraffazione, lasciandola parlare da sé’; 449).
Dare la parola a Heidegger, accompagnando il lettore lungo i suoi itinerari. È questo che von Herrmann e Alfieri hanno saputo fare in modo magistrale, come conferma il meritato successo internazionale dell’opera, la quale è in corso di traduzione anche in portoghese, rumeno, inglese, lettone, russo, cinese, ceco, spagnolo.

[Il numero 1/2017 del Giornale di Metafisica pubblicò una mia ampia analisi dell’edizione italiana del libro]

Αδελφοι

Apollineo e Dionisiaco
di Giorgio Colli
A cura di Enrico Colli
Adelphi, 2010
Pagine 269

Il filologo è un grande amante (p. 34)

La «filologia non più morta» (p. 181) del giovane Colli è, semplicemente, filosofia. Per lui i filosofi sono gli oltreumani di cui parlano Nietzsche e Schopenhauer. Sono uomini capaci di percorrere i sentieri del dolore e della vita scegliendo sempre il meglio, il dominio su se stessi e quindi sull’intero, l’abbraccio verso il tutto, l’attingimento delle essenze. È questa parola platonica a costituire il nucleo teoretico del pensiero di Colli, per il quale l’obiettivo di ogni attività filologica e quindi filosofica è il mondo delle forme. Un mondo fatto di vita vissuta prima che di concetti, di immersione nelle passioni e nell’enigma dell’esistere.
Schopenhauer e Nietzsche vengono da Colli unificati e trasfigurati in uno schema che vede l’apollineo come rappresentazione ed espressione, il dionisiaco come volontà e interiorità. Uno schema in ogni caso irriducibile alla semplice contrapposizione dualistica poiché la complessità, la ricchezza, l’universalità di apollineo e dionisiaco li rende l’uno sostanza dell’altro.
Il libro che scoprì e inventò questa Grecità -la Geburt der Tragödie– è il risultato di un «lavorio filologico eccezionale» (56), che soltanto una metodologia asservita alle note e all’apparato critico poté svalutare e non capire, proprio perché note e apparati lasciano in esso il posto alla comprensione più radicale ed empatica che i Greci abbiano mai ricevuto. La Nascita della tragedia «rimane senza dubbio il tentativo più notevole di penetrare profondamente la grecità» (123).
Colli rileva naturalmente anche i limiti della Geburt così come dell’intero pensiero di Nietzsche e di quello di Schopenhauer, limiti dovuti in gran parte alle concrete esistenze e passioni dei due filosofi. Ma al di là dell’umana miseria che tutti ci accomuna, Schopenhauer «è l’uomo che ha impostato il problema filosofico, nel suo senso più generale, in modo definitivo ed insuperabile» (75) e in Nietzsche «la teoria del dionisiaco, dal punto di vista sia estetico che morale, è un germe fecondo, una ricchezza inesauribile di pensiero e di sentimento, è in fondo come la formula della sua vita -si può dire che egli non ha che da svilupparla per giungere all’indipendenza assoluta. Questo è il segreto di Nietzsche, che tanto lo accomuna ai Greci, di rifulgere cioè di grandezza più nel suo modo di affrontare la vita che nelle sue opere» (69).
Critico severo anche di se stesso -come si vede nei materiali qui raccolti in Appendice-, le venerazioni di Colli sono inseparabili dalla lucida consapevolezza delle manchevolezze dei filosofi e delle opere che analizza. Si potrebbe fare la stessa cosa con lui e con queste pagine, che rivelano spesso una giovanile e a volte eccessiva immaturità. È però più sensato rilevare le tante intuizioni e argomentazioni che fanno di questo volume una libera introduzione al mondo greco.
Un mondo fatto di uomini che non potevano concepire alcuna separazione tra vita, filosofia e politica poiché la filosofia è per «il popolo ellenico […] la massima attività umana -significativa è la preponderante posizione politica che ottengono nelle loro città molti dei Presocratici, o la lotta inesausta di Platone per realizzare il suo ideale politico» (49). Una posizione alla quale Colli è così vicino da pronunciare parole che nel suo tempo erano già radicali ma che oggi sarebbero proprio indicibili, «comprendendo ad esempio l’immenso valore positivo dell’istituzione della schiavitù, e non accontentandosi di condannarla senz’altro per sentito dire, secondo il punto di vista moderno e cristiano» (50) e attribuendo l’anima «come unitario principio noumenico» soltanto agli «uomini superiori, in quelli mediocri invece si tratta di un centro di relativa stabilità nella connessione causale della rappresentazione» (175).
Meno estreme ma sempre inattuali sono le tesi sul conflitto come istinto dei Greci; sulla «furia schiettamente ellenica di ripagare il male con il male» (93); sul dionisiaco quale «impulso a superare tutto ciò che è umano, come interiorità del grande individuo» (127); sulla scultura greca come perfettamente conclusa in ciò che di essa appare, dietro la quale non si dà alcuna anima né simbolo né ineffabilità; sull’ascetismo ellenico che «non ha nulla a che fare con la patologia dell’ascetismo cristiano [ma] deriva da un sentimento insostenibile del male del mondo, ritrovato nella propria anima, insito nelle fibre più nascoste, che avvelena ogni purezza e risorge immediatamente appena annientato, che deve essere in ogni istante combattuto con tutte le forze perché si possa pronunciare una parola od una verità senza vergogna. Asceti a questo modo furono dopo i Greci soltanto i più grandi e i più diritti tra i mistici ed i conoscitori: Pico della Mirandola, Spinoza, Boehme, Nietzsche» (108); sull’amore come «mezzo ad un odio più grande» (84) e come «movimento -di unione o di creazione- se lo guardiamo nel fenomeno, ma la sua radice è nella cosa in sé, poiché esso è interiorità, come raggiungimento o desiderio di traboccare» (151); sull’Ἀνάγκη quale «principio del mondo come espressione -principio apollineo. La libertà è il principio dionisiaco che non esiste in questo mondo di modi -esiste solo nel cuore della verità e non si può esprimere razionalmente, perché la razionalità vuole la necessità» (211).
Μοῖρα e Ἀνάγκη costituiscono una delle più esplicite manifestazioni del principio dionisiaco, compagne del sonno e della morte, le quali intrecciano «con gesti di diamante le infinite / trame degli eventi a cui non si sfugge / Άτροπος, Κλωθώ e Λάχεσις, / figlie della Notte» (Simonide, Alle dee del destino, vv. 2-3).
Uno dei significati più profondi di questa raccolta di scritti giovanili di Colli si può riassumere nell’affermazione di uno studioso appartenente a tutt’altra tradizione e stile di pensiero: «Una volta afferrata la verità, la dobbiamo dimenticare: la lucidità apollinea deve lasciare il passo all’ebbrezza dionisiaca»1 . Chi non fa questo, chi nella propria vita dà spazio soltanto all’intelligenza cognitiva e non anche a quella emotiva, in realtà non comprende il mondo, nel duplice senso che non lo capisce e non lo porta dentro di sé. Filosofia è anche il non aver paura delle passioni, della loro potenza sulle nostre vite.

Nota

1. Stanley Rosen, La questione dell’essere. Un capovolgimento di Heidegger (The Question of Being. A Reversal of Heidegger, 2002), trad. di G. Frilli, Edizioni ETS, Pisa 2017, p. 212

Filologia del Sessantotto

Après mai
(Titolo italiano: Qualcosa nell’aria)
di Olivier Assayas
Con: Clement Metayer (Gilles), Lola Creton (Christine), Felix Armand (Alaine), Carole Combes (Laure), India Menuez (Leslie),
Francia, 2012
Trailer del film

Non proprio il Sessantotto, ma ciò che ne è scaturito. Il titolo (quello originale, non l’insulsa versione italiana) è infatti del tutto adeguato al contenuto. 1971, Gilles è uno studente liceale. Militanza, assemblee studentesche, scontri con la polizia e con la destra, autonomia dalla famiglia, stampa clandestina, rapporti affettivi liberi, suggestioni orientali, musica ribelle. Ma anche la bella casa di famiglia, il denaro dei genitori e soprattutto una grande inclinazione per la pittura, l’unica sua vera passione. Gilles infatti attraversa i suoi anni, compie le sue azioni, viaggia per la Francia e per l’Italia in modo quasi anaffettivo, senza mai arrabbiarsi, piangere, senza mai ridere né sorridere. In maniera non troppo dissimile si comportano anche i suoi amici, le sue ragazze e l’intero mondo nel quale è immerso. Una cortina narcisistica e ideologica sembra separarli da quella realtà che pure dicono di voler trasformare.
Il valore e il significato di questo film consistono nel non nutrire né mostrare pregiudizi positivi o negativi e nel non formulare giudizi. È una intelligente e rigorosa fenomenologia del Sessantotto e di ciò che è venuto appunto après, dopo il Maggio francese. Una descrizione di caratteri, azioni, ambienti, libri, oggetti, strade, manifesti, contesti, abiti, capigliature e soprattutto sguardi, occhi, domande, inquietudini, incertezze. Un’autentica, accuratissima, meticolosa filologia della rivolta giovanile, del suo slancio, dei suoi limiti, del suo senso.
Si comincia con il professore che in classe legge un testo di Pascal – «Entre nous, et l’enfer ou le ciel, il n’y a que la vie entre deux, qui est la chose du monde la plus fragile» (Tra noi e l’inferno o il cielo, c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo; Pensées, 349 [Ed. Chevalier], 213 [Ed. Brunschvicg])-, evidente riferimento alla breve durata della giovinezza e delle sue passioni. Si chiude con le parole più sincere di Gilles: «Abito nella mia immaginazione, e quando la realtà bussa alla porta io non le apro». L’immaginazione al potere.

I Greci e l’Irrazionale

di Eric R. Dodds
(The Greek and the Irrational, 1950)
Trad. di Virginia Vacca De Bosis
La Nuova Italia, Firenze 1978
Pagine XIII-387

dodds_greci_irrazionale

«Un semplice professore di greco» (p. 314), così si definisce Eric R. Dodds (1893-1979). Ma questo suo libro ha contribuito a modificare a fondo l’immagine edulcorata e neoclassica della Grecità. Se i Greci pervennero alla ricchezza di risultati, alla molteplicità di prospettive, al rigore razionalistico che stanno a fondamento della cultura europea, fu anche perché non ebbero timore di scorgere nell’umano la tenebra.
«I Greci avevano sempre sentito l’esperienza delle passioni come un fatto misterioso e pauroso in cui sperimentiamo una forza che è in noi, e che ci possiede, anziché venir posseduta da noi» (222). Questa ipotesi guida l’itinerario di Dodds dall’VIII secolo al II d.C. Nei poemi omerici l’ate si impadronisce della mente, annebbia la coscienza, rende temporaneamente folli. Si tratta quindi di una forza esterna e oggettiva, che si inscrive in una civiltà di vergogna per la quale ciò che conta non è la buona o la cattiva coscienza del soggetto ma il godere o meno della pubblica stima. Con l’irrompere della tragedia, invece, quella greca si trasforma in una civiltà di colpa, nella quale spira -specialmente in Eschilo– «un’atmosfera oppressiva, popolata di spettri», di angosce, di indicibili colpe (55). Tale civiltà trova ulteriore espressione nel mito dei Titani, in fenomeni come lo sciamanesimo, nella credenza in premi o in castighi post mortem, nella paura dei corpi. In questo modo, e prima dell’Ellenismo, si sarebbe sviluppata una dottrina della colpa: «Il mito dei Titani spiegava in modo soddisfacente ai puritani greci perché si sentissero contemporaneamente dèi e criminali; il senso “apollineo” del distacco dal divino, e quello “dionisiaco” di identificazione con la divinità, erano ambedue spiegati e ambedue giustificati» (208-209).

Il tentativo di reagire a un quadro così incontrollabile non ebbe inizio secondo Dodds con la Sofistica ma assai prima, con le origini stesse della filosofia nella Ionia. Dai pensatori greci arcaici prenderebbe avvio il razionalismo dell’età classica, del quale Platone rappresenta la più complessa e controversa manifestazione. Dodds scrive un vero e proprio saggio su di lui. Platone sarebbe sempre rimasto un autentico figlio di Socrate e dell’Illuminismo ellenico. Tuttavia la progressiva indipendenza dal maestro, la morte stessa di Socrate, gli eventi politici ai quali partecipò, indussero Platone a operare sul tronco del razionalismo «un fecondo innesto delle idee magico-religiose che hanno remota origine nella civiltà sciamanistica settentrionale» (245-246). Dodds giunge ad affermare che i tanto controversi Custodi della Repubblica sarebbero «una specie nuova di sciamani razionalizzati» (248). Nel pensiero platonico pulsa dunque una duplice e contraddittoria spinta: da un lato la fiducia nella ragione umana propria del V secolo, dall’altro la disincantata e amara consapevolezza di che cosa sia l’umano e di quanto poco esso valga.

Mentre Platone e anche Aristotele erano consapevoli della, per dir così, rarità della ragione e della necessità di comprendere i fattori irrazionali del comportamento, filosofi come Epicuro e gli Stoici vollero invece eliminare il nocciolo duro della prassi e, in ciò necessariamente fallendo, aprirono la strada a ogni sorta di pensiero della salvezza, a riti e culti lontani dalla mediazione razionale. L’analisi di Dodds si chiude proprio con l’invito a tener conto del cavallo (le tendenze più nascoste) per conoscere meglio le possibilità e i limiti del cavaliere (la razionalità). Solo così si potrà «affrontare il salto decisivo» oltre ogni chiusura, paura, fanatismo «e saltare felicemente» (316).

Il libro costituisce anche una messa alla prova filologica della Nascita della tragedia. Dodds cita Nietzsche soltanto una volta (molto più di frequente, invece, Rohde) ma fra i due libri vi è un legame inevitabile, che si esprime, tra l’altro, in due tesi care a Nietzsche e qui ribadite e argomentate con un apparato filologico più agguerrito.
La prima sostiene che «il senso schiacciante dell’ignoranza umana, dell’assenza di sicurezza in cui vivono gli uomini, la paura del phthonos [invidia] divino, la paura del miasma [contaminazione]» sarebbero stati intollerabili «se un divino consigliere onnisciente non avesse garantito ai Greci, dietro il caos apparente, l’esistenza di una sapienza e di una finalità» (100). Apollo, il dio solare, nasce da tale abisso di angoscia, dalla densità di questa paura.
In un’altra pagina Dodds rileva quanto spesso il razionalismo si mostri miope col non tener conto che anche quando la divinità scompare i suoi riti possono sopravvivere assai più a lungo nella coscienza dei popoli e dei singoli. E questo mi sembra il fondamento culturale e psicologico della definizione nietzscheana delle chiese come «die Grüfte und Grabmäler Gottes» (“le fosse e i sepolcri di Dio”, La Gaia scienza, af. 125, p. 130 della traduzione Adelphi).

Diventa così molto più ricca, contraddittoria, feconda, la visione di un mondo -i Greci- la cui suprema forza è forse consistita nella consapevolezza dello strato ctonio e indicibile della razionalità, nel percepire l’orrore della luce.

Vai alla barra degli strumenti