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La Sfinge

Teatro Elfo Puccini – Milano
Verso Tebe. Variazioni su Edipo
di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Con: Edoardo Barbone, Ferdinando Bruni, Mauro Lamantia, Valentino Mannias
Produzione: Teatro dell’Elfo
Sino al 1 marzo 2020

C’è qualcosa di magnetico in Edipo. Qualcosa di terribile e, insieme, di compassionevole. Qualcosa di incomprensibile per una cultura, la nostra, che fa della coscienza morale il proprio santuario. Come ho scritto più volte (ma ogni volta va ricordato alla civiltà cristiana), «i Greci nulla sapevano di colpe soggettive e interiori –peccati– ma erano esperti del danno oggettivo e comunitario al quale il comportamento di un singolo può condurre. Ed è per questo danno, di cui non è moralmente responsabile, che Edipo viene punito dagli dèi nel modo più duro».
Questo è terribile, questo è compassionevole, questo è incomprensibile.
Il Teatro dell’Elfo sta cercando di avvicinarsi a tale enigma. Le Variazioni su Edipo di Bruni e Frongia costituiscono la prima tappa. Tre uomini elegantemente vestiti, ma dai piedi nudi, giocano i ruoli di Laio, Giocasta, Tiresia, della Pizia, dei messaggeri, del Coro, e soprattutto della Sfinge, alla quale dà voce e corpo uno sciamanico Ferdinando Bruni.
Di fronte a loro sta Edipo, un uomo qualsiasi ma incosciente e che in questa sua temerarietà rischia la morte davanti alla Sfinge, la sconfigge ma ne subisce –a distanza di dieci anni– la vendetta. La Sfinge è morta, certo, uccisa dallo scioglimento edipico dell’enigma ma la sua forza è intatta perché è forma ed espressione della potenza stessa della Terra. E infatti, proclama uno dei brani di cui lo spettacolo è intessuto (tratti, tra gli altri, da Dürrenmatt, von Hofmannsthal, Mann, Seneca), «gli uomini devono morire prima che per mano degli uomini muoia la Terra».
Muovendosi verso Tebe si intuisce dunque una delle ragioni più profonde che rende i Greci e le loro tragedie qualcosa di terribile, di compassionevole e di incomprensibile: i Greci sono nemici di ogni umanesimo. Lo conoscono, lo disprezzano, lo oltrepassano.
Le passioni, i mostri, l’orrore che intridono le loro opere dalla Teogonia alle Enneadi, dal magma gorgogliante delle origini alla gelida oggettività della fine, costituiscono la più grande potenza di comprensione dell’essere e degli enti che sia mai stata tentata. In questo itinerario verso la tremenda luce del mondo, la vicenda di Edipo costituisce uno snodo fondamentale anche perché in essa la curiosità e il sesso, la maternità e l’arroganza (quella di Laio, specialmente), il sacro e l’animale, Apollo e la Sfinge, sono tutti la stessa realtà.
«Muss ich hinzufügen, dass der weise Oedipus Recht hatte, dass wir wirklich nicht für unsere Träume, – aber ebenso wenig für unser Wachen verantwortlich sind, und dass die Lehre von der Freiheit des Willens im Stolz und Machtgefühl des Menschen ihren Vater und ihre Mutter hat?
(Devo aggiungere che aveva ragione il saggio Edipo, che in realtà noi non siamo responsabili dei nostri sogni –o lo siamo tanto poco, quanto della nostra veglia, e che la dottrina della libertà del volere ha per padre e madre l’orgoglio e il sentimento di potenza dell’uomo?)»
[Nietzsche, Aurora, II, af. 128, Der Traum und die Verantwortlichkeit, «Il sogno e la responsabilità», trad. di F. Masini, Adelphi 1964, p. 95].

[Trailer dello spettacolo]

Vita / Opera

Teatro Elfo Puccini – Milano
Il vizio dell’arte
(The Habit of Art, 2009)
di Alan Bennet
Con: Ferdinando Bruni (Auden), Elio De Capitani (Britten), Umberto Petranca (Carpenter), Ida Marinelli (Kay), Alessandro Bruni Ocana (Tim), Vincenzo Zampa (George), Michele Radice (Neil), Matteo De Moiana (Tom)
Regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
Sino al 31 gennaio 2016

vizio_arteIl poeta Wystan Hugh Auden e il compositore Edward Benjamin Britten si incontrano a Oxford nel 1972, dopo molti anni di distante amicizia. Le loro passioni, il disincanto, l’omosessualità, le forme, la socialità, convergono nel vizio dell’arte che è la loro esistenza.
Questo incontro è messo in scena nel 2009 da una compagnia che lo interpreta, lo prova, lo commenta, ci litiga sopra, lo modifica insieme all’autore del testo.
Noi vediamo questa compagnia all’opera, nel doppio tempo dell’azione narrata e della sua messa in scena. Teatro nel teatro a livelli altissimi di sincronia, di ambizione drammaturgica, di penetrazione nel tessuto creativo di due dei massimi artisti inglesi del Novecento. L’ironia british di Alan Bennet diventa sorriso, riso, battute folgoranti, continuo divertimento. Uno spettacolo che restituisce per intero il piacere e la fatica del teatro, del farlo e del vederlo. Auden ribadisce lungo tutta la commedia che per un artista -come per un filosofo o per uno scienziato- ciò che conta è l’opera e non la biografia. Assunto del tutto condivisibile e che in questo spettacolo trova un’espressione felicemente paradossale. È delle vite che infatti si parla -della loro forza e delle loro miserie- ma lo si fa attraverso l’opera, in un’opera, per l’opera. Per ciò che davvero rimane degli umani che hanno la fortuna di scrivere e creare. È anche questo il senso della poesia che Auden dedicò alla morte del poeta William Butler Yeats, della quale riporto qui i versi conclusivi: «Prendi un ospite onorato, / terra: William Yeats è stato. […]  Il Tempo che è insofferente / con l’ardito e l’innocente, / e insensibile in un giorno / ad un corpo tutto adorno, / il linguaggio onora, e approva / chi gli dona vita nuova; / vanità e viltà perdona, / finalmente le incorona. […] E, poeta, tu, sprofonda / nella tenebra più fonda, / la tua voce sempre voglia / liberarci d’ogni doglia; / messi i versi tuoi a coltura, / rendi vigna la sventura, / la miseria umana in canto / volgi estatico nel pianto; / nei deserti d’ogni cuore / apri il fonte guaritore, / chi, dei giorni schiavo, gode / libertà muovi alla lode» (Trad. di Nicola Gardini).

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