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Sfruttamento / Discriminazione

«Quando al negro capita di guardare il Bianco con ferocia, il Bianco gli dice: ‘Fratello, non c’è differenza fra noi’. Eppure il negro sa che vi è una differenza»
(Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, 2015)

Più che opportuno, un approccio critico all’idea e all’ideologia dei diritti umani è proprio necessario in un’epoca che sembra vedere in essi una nuova religione. È questa la prospettiva del numero 2/2018 del «Giornale critico di storia delle idee. Rivista internazionale di filosofia / Critical Journal of Ideas. International Review of Philosophy», che ha come titolo Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (Mimesis, 2019; vi è è stato pubblicato anche un mio contributo dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo).
L’obiettivo metodologico, scrivono i due curatori del volume, «era quello di fornire una mappatura sul dibattito intorno ai diritti umani con il fine di portarne in superficie le contraddizioni, le paradossalità e le antinomie, per far deflagrare ed esplodere l’immagine della loro presunta neutralità e naturalità. […] Compito della storia critica delle idee è infatti quello di porre in discussione e ripensare i ‘diritti dell’uomo’ al di là tanto della loro presunta naturalezza, nella forma dell’evidenza della loro definizione, quanto della presunta neutralità della loro applicazione» (Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Nota editoriale, pp. 7-8).
L’origine borghese di questi diritti li caratterizza ab ovo non soltanto come puramente formali e quindi  adattabili a qualsiasi autorità, istituzione e scopo -emblematica una formula quale «guerra umanitaria»– ma soprattutto come falsamente universali. Dietro e dentro la loro formulazione abita infatti (come è ovvio) una certa e determinata idea di umano, quella dell’Occidente cristiano, che è una delle molte possibili ma che si presenta e si impone come l’unica pensabile.
La relatività, il particolarismo, la cangiabilità, la funzionalità a determinati obiettivi della teoria dei diritti umani sono mostrate in modo evidente e plastico dal plesso semantico terrorismo/terrorista. Nel suo saggio -uno dei più interessanti del volume– dal titolo Artefatti, ostensione e realtà istituzionale. Le ‘Unità anti-terrore’ nella guerra siriana, Davide Grasso analizza le ragioni per le quali individui, gruppi e istituzioni vengono definiti e si definiscono anche reciprocamente ‘terroristi’ e pertanto la grave debolezza epistemologica di questa caratterizzazione, che acquista senso soltanto in una prospettiva di propaganda politica: 

L’alone semantico del termine ‘terrorismo’ è estremamente oscuro tanto nel linguaggio giuridico che nel linguaggio ordinario. […] Il termine terrorismo è quindi da considerarsi, nei fatti, uno strumento concettuale utilizzato da attori differenti per squalificare questa o quella manifestazione di potere, che si origini contro le istituzioni o da parte di istituzioni considerate illegittime. Questo spiega in gran parte la difficoltà giuridica, e ancor più metafisica, di definire il terrorismo. […] Una qualifica attribuita dagli stati, da almeno un secolo, alle organizzazioni armate che promuovono o difendono istituzioni alternative a quelle esistenti (136-137).

I diritti umani sono, anche e specialmente, un dispositivo del tutto impolitico e per questo molto pericoloso. Hannah Arendt, filosofa di acuta intelligenza sulle cose umane, nelle Origins of Totalitarianism ha sostenuto che «i Diritti dell’Uomo sono i diritti di coloro che sono solo esseri umani, che non hanno altra proprietà rimasta loro se non quella di essere umani. In altre parole, sono i diritti di chi non ha diritti, la mera parodia del diritto» (Jacques Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, p. 27).
Una parodia del diritto che fa da fondamento alla sostituzione dell’elemento politico con quello morale e psicologico. Sostituzione che giustifica ogni struttura oppressiva. Un esempio tratto da un ambito apparentemente lontano ma spero chiaro è il concetto francescano di povertà. Esso favorisce la rassegnazione alla diseguaglianza economica perché giustifica la condizione di povertà, addirittura esaltandola come veicolo di santità, e permette a chi non è povero di mostrarsi solidale e umanitario dando parte della propria ricchezza a chi sta peggio. A condizione che questo scambio volontaristico e personale non intacchi le strutture economiche e sociali che generano povertà e ricchezza: «i poveri li avrete sempre con voi; e quando volete, potete far loro del bene», come disse il Rabbi galileo (Mc., 14,7, trad. Nuova Diodati).
Significativo sino a risultare fondamentale è anche lo slittamento semantico che ha in pratica cancellato dalla saggistica e dal discorso pubblico la parola sfruttamento sostituita dal termine discriminazione. «Sfruttamento» si riferisce infatti a una struttura socioeconomica, «discriminazione» a un atteggiamento psicologico-giuridico. La prima parola implica la necessità di un cambiamento oggettivo, per la seconda è sufficiente una modifica formale dei rapporti di potere.
La «recensione critica» che Andrea Caroselli e Miguel Mellino hanno dedicato al libro di Didier Fassin Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente (Gallimard 2010; trad. it. DeriveApprodi 2018) si intitola La trappola umanitaria: l’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale. Ne riporto alcuni brani che non hanno bisogno di commento.

Le molteplici ‘emergenze’ degli ultimi anni mostrano come il discorso umanitario, che trasforma l’appello a una medesima condizione umana nella sostanza stessa della politica, necessiti non solo di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, ma, ancor più significativamente, di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale sarebbe possibile riconoscerci perché garantiti da una presunta unità del genere umano. Un’economia dello sguardo, dunque, nella quale all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti (242-243).
[…]
Il dispiegamento della logica umanitaria, difatti, non fa che spogliare gli eventi di qualsiasi specificità di ordine storico-politico-economico e, nella ripetizione senza differenze di eventi drammatici, riafferma continuamente sia lo stato di emergenza da cui è legittimata, sia i rapporti di disuguaglianza entro cui si iscrive (243).
[…]
Ed è qui che risiede l’essenza  e la forza (ideologica) della ‘ragione umanitaria’ come nuovo dispositivo egemonico di governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica organizzato attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia, con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono nozioni di tipo morale come compassione, sofferenza, solidarietà (243).
[…]
Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni, ‘il governo umanitario’ sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso la figura del ‘bisognos* d’aiuto’. Descrivere i dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione ’istituzionale’ di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore (244-245).
[…]
Per quanto la lotta per cercare di salvare vite umane sia assolutamente importante, ci sembra necessario che essa si rifletta all’interno di un’analisi che tenga conto della complessità del presente. Un’accettazione acritica del paradigma umanitario rischia infatti non solo di non rivelarsi all’altezza della sfida, ma di produrre effetti politici perversi (247)
.

Analisi come queste segnano la differenza tra una prospettiva economico/politica -e quindi strutturale ed emancipatrice dallo sfruttamento– e una prospettiva soltanto morale e sentimentale, limitata alla discriminazione formale e quindi reazionaria.

Nati morti

Certo, «die Stunde ihrer Geburt ist die Stunde ihres Todes», ‘l’ora della loro nascita è l’ora della loro morte’1, è una verità che vale per ogni ente, evento e processo che si dà in natura. Compresi gli eventi politici. E tuttavia il Governo italiano che si è appena insediato è una manifestazione evidente del fatto che alcuni eventi mostrano il loro morire appena accadono. E dico questo non solo e non tanto nel senso che tale Governo sarà di breve durata. No, potrà  anche durare anni o l’intera legislatura (lo escludo, comunque) ma anche e soprattutto nel senso che è un Governo di morti.
Quando infatti uno zombie abbraccia un vivente, lo uccide. Il poco che del Movimento 5 Stelle era ancora vivo dopo la sottomissione alla Lega è già stato trasformato dal Partito Democratico in cosa morta. I capisaldi del Movimento, quelli che lo hanno condotto a ottenere la maggioranza relativa nell’attuale Parlamento italiano, erano costituiti:
-dalla difesa della plurale identità europea contro il colonialismo finanziario dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America (è questo, in sintesi, il cosiddetto sovranismo);
-dalla difesa dell’ambiente, che in concreto vuol dire rifiuto categorico delle opere che devastano il territorio, prima tra tutte il Treno ad Alta Velocità, questione insieme economica, antropologica e simbolica;
-dall’affrancamento del Parlamento e delle Pubbliche Amministrazioni rispetto alle forze e ai gruppi che agiscono per l’interesse economico di pochi contro la Res Pubblica (ciò che in una formula si chiama lotta alla corruzione);
-dalla difesa dei diritti sociali e collettivi, al di là dell’enfasi liberale e liberista sui diritti individuali;
-dalla salvaguardia e dall’incremento dei posti di lavoro;
-dall’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, contro i privilegi che pervadono la società italiana.

Se una simile ispirazione era di difficile incarnazione in un Governo condiviso con la Lega, diventa del tutto irrealizzabile in un Governo condiviso con il PD e con le forze tanto piccole ed elitarie quanto asservite alla finanza internazionale, come +Europa e affini. Si può obiettare, certo, che il Movimento 5 Stelle non ha da solo la maggioranza e dunque non può esprimere un proprio Governo. È vero ma la risposta non è difficile: se il Movimento è uno strumento politico e non un fine in sé -come dai suoi esponenti è stato sempre detto– si doveva andare alle elezioni rivendicando ciò che di fecondo l’esperienza di governo aveva ottenuto e chiedendo al corpo elettorale un maggiore sostegno. È accaduto invece che motivazioni evidenti -il potere è dolce a chi lo esercita– e altre probabilmente nascoste hanno portato il Movimento 5 Stelle alla morte politica. Quella elettorale seguirà inevitabilmente.
Osservo di passaggio -ma è circostanza piuttosto grave– che il Governo è ostaggio in Parlamento non soltanto di piccoli gruppi come +Europa e Liberi e uguali ma anche e soprattutto dei senatori fedeli a Renzi; ciò significa che questo senatore del PD avrà in mano il Governo, lo potrà condizionare e ricattare come gli sembrerà più opportuno per i propri interessi.  Che il Movimento 5 Stelle non se ne accorga è implausibile; probabilmente le pressioni (e le promesse) sono tali da dover accettare questa eutanasia del Movimento.
Tramonto che era iniziato già prima della crisi di Governo, con il concorso determinante del M5S all’elezione di Ursula von der Leyen quale Presidente della nuova Commissione Europea, vale a dire del governo dell’UE. Questo esponente politico della CDU tedesca (Unione Cristiano Democratica) rappresenta molto bene la continuità di quelle politiche economiche recessive e inique alle quali il M5S si era dichiarato avverso. Von der Layen è stata eletta con la risicata maggioranza di 383 voti, soltanto 9 in più del numero necessario. Numero al quale i deputati europei del Movimento 5 Stelle hanno dunque fornito un contributo decisivo, del quale -certo- risponderanno storicamente.

Che l’alleanza con il PD sia più grave dell’accordo con la Lega è mostrato da (almeno) altri tre fattori:
–la Lega non controlla l’informazione, il PD sì, anche per l’alleanza con Mediaset, sancita a suo tempo da D’Alema e da Violante e confermata dai successivi capi del Partito;
la Lega è coerente con i propri presupposti, che non ha mai nascosto. Il PD è responsabile in Italia della morte (in ordine cronologico): della prospettiva comunista, della sinistra, dei diritti sociali. È un partito di centro che ha abbracciato in pieno l’ideologia e la pratica neoliberista ma che si presenta ancora come erede anche del Partito Comunista Italiano, affermazione evidentemente insensata ma che fa da presupposto di una formula altrettanto risibile quale «governo giallorosso», il ‘rosso’, infatti, non c’è;
–il PD è abilissimo quando si tratta di conquistare posizioni strategiche; aver regalato a questo partito il commissario europeo (nella persona di Paolo Gentiloni Silveri), cioè un ministro che in ogni caso rimarrà in carica per cinque anni a rappresentare l’Italia nel governo dell’Unione Europea, è solo una prima, grave e significativa tappa del piano inclinato che porterà al declino il M5S. È come per Gertrude, la monaca di Monza: il primo «sì» porta con sé tutti gli altri.

Qualunque tema sia indicato nel Programma concordato con Conte, l’interesse del Partito Democratico è stato tornare al governo e da lì poter logorare il Movimento 5 Stelle sino a quando quest’ultimo o romperà l’alleanza -e sarà quindi tacciato di ‘inaffidabilità’, se per la seconda volta (dopo la Lega) l’alleanza con esso stipulata non funziona- o cancellerà la propria identità. Anche un Machiavelli di sei anni lo capirebbe, figuriamoci uno adulto. Nella mia vita ho imparato -sia, appunto, dallo studio di Machiavelli, sia dall’esperienza- che un politico può avere molte qualità e molti limiti anche diversi ma non può essere ingenuo. In politica questo è un peccato mortale. Che infatti sta portando alla morte il M5S.
Se avessi previsto un’alleanza del Movimento 5 Stelle con il Partito Democratico non gli avrei naturalmente dato il mio voto. E infatti non lo darò più. E tuttavia ho fatto bene nel marzo 2018 a compiere tale scelta. Ha rappresentato l’ultima possibilità parlamentare di liberare l’Italia dal malaffare, dai privilegi e dal destino di miseria e subordinazione che l’obbedienza totale all’Unione Europea comporta. Così non è stato. Pazienza. La politica si fa anche in altri modi. Questo piccolo sito, ad esempio, è un’espressione politica anche quando parla di arte, di cinema, di libri, di filosofia. E qui coloro che hanno ucciso la sinistra, gli zombie del Partito Democratico, non mettono piede. Questo è un luogo vivo :–)

Nota
1. Hegel, Wissenschaft der Logik I, «Sämtliche Werke», Frommann 1965, Band IV, p. 147.

Merce, incanto, simboli

Il consumismo? Si può presentare anche come ecosostenibile
il manifesto
1 giugno 2019
pagina 11

Oltre l’economia, i simboli. Il fondamento economico delle strutture sociali è indubitabile ma da solo non basta a comprendere quanto si muove nei labirinti delle vite individuali e collettive. L’incanto della merce diventata social è sempre più pervasivo, illimitato e sovrano, sino a delineare un vero e proprio «totalitarismo simbolico», capace  di assumere aspetti progressisti, umanitari, ‘ecosostenibili’. Discutendo sul manifesto il libro di Gianpiero Vincenzo Starbucks a Milano e l’effetto Don Chisciotte. I rituali sociali contemporanei, cerco di analizzare brevemente condizioni e forme di questa dinamica che intrama il presente.

«L’Unione Europea di Hayek»

Il titolo di questa brachilogia non è mio ma è quello di un articolo della giornalista economica Giovanna Cracco, direttrice della rivista Paginauno. Il testo è stato pubblicato sul numero 61 (febbraio/marzo 2019) .
Degli economisti Friedrich August von Hayek e Milton Friedman ho parlato qualche giorno fa. Riprendo adesso il discorso in relazione alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. A distanza infatti di poco più di un anno dall’auspicio che nel marzo 2018 formulavo sul successo elettorale del Movimento 5 Stelle, alcuni elementi del programma di quel partito sono stati realizzati, molti altri no. E tuttavia confermo il mio sostegno al M5S.
A convincermi è stata anche e specialmente l’analisi che Cracco propone dei fondamenti e delle scelte politiche di un Parlamento Europeo di impronta liberale e liberista, come quello che ha rappresentato e governato l’Unione Europea negli ultimi cinque anni e continuerebbe a dominarla se prevalessero le formazioni politiche favorevoli al potere liberista. In Italia: il Partito Democratico; Forza Italia -la cui proposta di Mario Draghi a capo di un nuovo governo italiano (che avrebbe certamente il sostegno del PD), ha il pregio della chiarezza, Draghi è infatti l’emblema stesso dell’ultraliberismo dell’Unione Europea–; la Lega, che si presenta come ‘sovranista’ ma le cui scelte politiche sono nel segno del liberismo occidentalista.
Ho illustrato più volte le ragioni per le quali ritengo negative sino alla catastrofe le politiche liberiste; l’ho fatto ad esempio qui: Brexit. Assai meglio di quanto possa enunciarle io, che economista non sono, tali motivazioni vengono riassunte con grande chiarezza nell’articolo di Cracco, la cui rivista è decisamente ‘di sinistra’. Invito dunque a leggere queste poche pagine, nel cui pdf si trovano anche alcune mie evidenziazioni.

Ridere

Invito a gustare il video di una trasmissione satirica tedesca – Die Anstalt  dedicata ai neoliberali della Mont Pelerin Society. Quest’ultima è una organizzazione internazionale nata nel 1947 per difendere, promuovere e diffondere i principi del liberismo e della ‘Società Aperta’. Otto dei suoi membri sono stati insigniti del premio Nobel per l’economia, che si conferma in questo modo un premio frutto di ben precise opzioni ideologiche. Tra questi economisti, Friedrich von Hayek (qui sopra a sinistra) e Milton Friedman (a destra), che sono i più significativi ispiratori dell’attuale politica economica mondiale, messa in atto dai presidenti USA, dal Cile di Pinochet, dall’Unione Europea e dalla più parte dei suoi Stati membri.
Il video, che mi è stato segnalato da Pasquale D’Ascola, dura 13 minuti. Non è una lezione universitaria o una conferenza ma un programma satirico che ha il merito di spiegare con grande chiarezza e in modo divertente alcune tendenze fondamentali della politica e del potere contemporanei. E tutto questo è andato in onda il 7 novembre 2017 sulla ZDF (Zweites Deutsches Fernsehen), televisione pubblica tedesca. In Germania i comici fanno anche questo. In Italia si concentrano sulle battute di un politico, sull’abbigliamento di un altro, sui congiuntivi di un altro ancora. Satira da miserabili, insomma, che non sfiora neppure lontanamente chi e che cosa comanda veramente. Spesso si tratta di superficialità, altre volte è una scelta ben precisa, compiuta allo scopo di distrarre i cittadini e lasciarli nella loro ignoranza di sudditi che ridono di questioni apparentemente politiche ma politicamente insignificanti. 

Resistenza

La dimensione pubblica va dissolvendosi nella supremazia della finanza sulla politica; una trasformazione che è cifra, senso e spiegazione profonda di quanto sta accadendo nel XXI secolo.
Ne discuteremo al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania venerdì 10 maggio 2019, alle 16,00 in un incontro dal titolo Elementi di resistenza. Io parlerò delle ragioni e dei modi per Resistere all’ultraliberismo.

 

Das Kommunistische Manifest

Il giovane Karl Marx
(Le jeune Karl Marx)
di Raoul Peck
Francia-Germania-Belgio, 2017
Con: Auguste Diehl (Karl Marx), Stefan Konarske (Friedrich Engels), Vicky Krieps (Jenny von Westphalen), Hannah Steele (Mary Burns), Olivier Gourmet (Pierre Proudhon)
Trailer del film

La scena iniziale racconta di impiegate in un call center che si sentono male sul lavoro e il cui padrone dichiara di non obbligare nessuna di loro a rimanere. Quando la più libera denuncia le condizioni di sfruttamento viene licenziata in tronco. Una delle scene centrali descrive un industriale che giustifica i bassi salari e l’utilizzo di manodopera immigrata e precaria affermando che se non facesse così non potrebbe reggere la concorrenza, dovrebbe aumentare i prezzi dei suoi prodotti e l’azienda fallirebbe. Inoltre, «se non lo faccio io, lo farebbero altri».
Siamo negli anni Quaranta dell’Ottocento e naturalmente non si tratta di call center ma di industrie tessili, non di manodopera immigrata ma di lavoro minorile. E tuttavia la tipologia, le motivazioni, le modalità dello sfruttamento sono le stesse. E anche le leggi sono simili, specialmente da quando la riforma del diritto del lavoro  in Italia -il cosiddetto Jobs Act- e analoghe legislazioni in Europa hanno legalizzato il precariato, i salari infimi, il ricatto padronale e le tante altre forme con le quali il capitale vive e uccide.
Ne hanno discusso con lucidità Noam Chomsky e Yanis Varoufakis. Il primo afferma che «the predators in the so-called private sector are there [nelle Università e nei Centri di ricerca] to see what they can pick up from the taxpayer-funded research in the fundamental biological sciences, and that’s called free enterprise and a free-market system. So speak of hypocrisy, it’s pretty hard to go beyond that» e il secondo conclude che la ricchezza «is being created collectively and appropriated privately but right from the beginning» (Full transcript of the Yanis Varoufakis | Noam Chomsky NYPL discussion). Fin dal principio e tuttora.
Bisognerebbe pensare a tutto questo quando si osserva il crollo dei partiti socialdemocratici in Europa. Mentre i partiti di destra difendono i loro tradizionali referenti -industriali, imprenditori, finanzieri, alta borghesia-, i partiti che si autodefiniscono di sinistra, come il Partito Democratico et similia, hanno tradito interamente la loro base sociale, che in Italia si è rivolta a forze quali il Movimento 5 Stelle e la Lega. Altrove gli operai hanno fatto lo stesso. È ciò che giustamente osserva Giovanni Dall’Orto, quando scrive che «la non-gestione dei flussi migratori serve alla creazione di un “esercito industriale di riserva” che non avendo nessun diritto, a partire da quelli di cittadinanza, è costretto ad accettare lavori al puro livello di sussistenza o in alternativa a morire di fame, spingendo così il proletariato “nazionale” ad abbassare le proprie pretese troppo “choosy“. I marxisti italiani che sento invocare porti aperti per tutti, sono protetti da tale concorrenza lavorativa dalla cittadinanza e dal fatto che svolgono lavori (in genere pubblici e burocratico-amministrativi) in cui la madrelingua italiana e la cittadinanza è necessaria. Non è quindi per un caso se oggi gli operai votano Lega e la sinistra “fa il pieno” nei quartieri ricchi delle grandi città» (“Aiutiamoci a casa nostra”. Migranti, ipocrisie e contraddizioni in «Sinistrainrete. Archivio di documenti e articoli per la discussione politica nella sinistra», 23.6.2018). È così che si ragiona in politica e in sociologia, non mediante isterismi moralistici o appelli sentimentali. Chi opta per tali modalità semplicemente non capisce, e quindi perde.
Le jeune Karl Marx è un film storico, a tratti coinvolgente, a volte ingenuo e anche inevitabilmente un poco didascalico -comunque quasi sempre corretto- che racconta le vicende private e politiche del Marx ventenne, le difficoltà economiche, gli sforzi per sostentare la moglie Jenny e le due bambine, il carattere impetuoso e difficile, gli inizi del sodalizio con un altrettanto giovane Friedrich Engels, l’accordo e poi la rottura con gli anarchici -Proudhon e Bakunin-, l’abilità con la quale Marx ed Engels trasformarono la Lega dei giusti -permeata di ciò che oggi si definirebbe buonismo– nel Partito Comunista, alla cui base venne posta una rigorosa teoria delle forze, dei modi e dei rapporti di produzione, che nulla possiede -tuttora- di psicologico e molto, invece, di analitico e plausibile.
Perché «la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi. […] Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia […] ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. […] La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro. […] Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e e al consumo di tutti i paesi [oggi il fenomeno di chiama Globalizzazione]
[…] Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente. […] Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie. […] La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia [anche a questo principio fa riferimento il Sovranismo].
[…] Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l’esistenza della società borghese. Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari [nell’originale: Philanthropen, Humanitäre], miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanze e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori». E così via.
(Marx-Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza 1981, pp. 54;  57-59; 61; 73; 74; 109-110).
Lessi queste pagine per la prima volta quando avevo 17 anni e non le ho dimenticate. Le ho rilette più volte insieme ai miei studenti quando insegnavo filosofia a scuola. Ho commesso l’errore di non leggerle anche insieme agli studenti universitari, immaginando -a torto- che le conoscessero. E invece in un Paese irrimediabilmente cattolico, e quindi ferocemente sentimentale, le lacrimevoli immagini di Internet, gli appelli a favore «di donne e bambini» pretendono di sostituire le analisi più oggettive dell’umano e delle società. A vantaggio, come sempre, della borghesia globalizzata e dei suoi interessi. È anche per questo che le tesi di Karl Marx sono ancora vive, poiché è ancora vivo l’inganno borghese-umanitario che Das Manifest der Kommunistischen Partei aveva disvelato. Nel 1848. 

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