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La bellezza del molteplice

Che cos’è la vita umana? Che cos’è la vita in generale? È una parte della materia universale che acquisisce caratteristiche di metabolismo, omeostasi, percezione, reazione. E affinché tali funzioni possano essere utili all’organismo vivente è necessario non spezzare la continuità tra la materia organica -che tali funzioni possiede in vari gradi- e la materia inorganica. Ritenere che una piccola parte della materia organica -l’animale umano- abbia dei privilegi ontologici ed etici significa ignorare l’essenziale, ignorare il limite. Ignoranza che si esprime in modo completo nei monoteismi abramitici, i quali ritengono che un Dio persona, e quindi totalmente antropomorfico, sia ontologicamente separato dalla materia, l’abbia prodotta per un inspiegabile -vista l’autonomia del Dio- atto di volontà e abbia posto uno dei suoi elementi come padrone e signore di tutto il cosmo, vale a dire di ciò su cui nessuna parte del pianeta Terra può minimamente influire.
L’implausibilità e l’ingenuità di simili concezioni risultano evidenti a chiunque abbia un minimo di oggettività teoretica; è altrettanto evidente il narcisismo umano che tali concezioni ha generato e continua a tenere in piedi.
Molto diverse sono le prospettive animistiche, politeistiche, panteistiche. Esse infatti, pur partendo sempre e inevitabilmente dalla prospettiva umana, cercano di cogliere con maggiore misura ed esprimere con più equilibrio la struttura olistica che intrama tutti gli enti e li rende reciprocamente dipendenti. Ciò che Diego Infante afferma del buddismo vale infatti per l’animismo, il paganesimo mediterraneo, l’induismo: la consapevolezza della «impermanenza di tutte le cose, la loro caducità e fragilità, il loro perire e ritornare alla natura» (Diego Infante, La ragione degli dèi. La bellezza del molteplice e la dittatura dell’unico, italic & pequod 2015, p. 116).

infanteL’originale nucleo di questo libro consiste pertanto non nella contrapposizione ma nel convergere di razionalismo europeo e spiritualità orientale «in una prospettiva di superamento della scissione dualistica soggetto-oggetto, o almeno di una sua limitazione ad opera dell’antica phronesis dei Greci, in modo da contenere quell’eccesso di individualità che si esprime nel delirio narcisistico del proprio ego, ormai sempre più smisurato e illimitato» (98). In maniera assai chiara vi si afferma infatti che «l’unico modo oggi per tornare ad approcciarsi al sacro è passare attraverso la ragione» (8) e che bisogna «invertire decisamente la rotta verso una prospettiva maggiormente olistica, valida e necessaria anche alla luce, piaccia o no, degli imprenscindibili e intramontabili lumi della ragione» (18).
La fecondità filosofica dei politeismi consiste anche e soprattutto nella loro capacità di coniugare il molteplice degli enti -compresi gli enti divini- con il monismo olistico, nel porre a fondamento di tutto una Identità plurale permeata della ricchezza della Differenza. Dualismi, idealismi, materialismi vengono così oltrepassati perché l’essere non è il due di soggetto/oggetto, non è l’uno separato dall’intero ma è l’uno molteplice che accoglie in sé l’energia, la massa, la vita, il pensiero, il sacro.
Questo è lo spirito naturaliter religioso della specie umana. Esso si è espresso per millenni nelle forme  rituali, dottrinarie, cultuali più diverse. Su di esso si è poi innestato con forza dirompente e di fatto distruttiva il principio abramitico dell’esclusione, del primato di una forma religiosa su tutte le altre. «È solo con il monoteismo abramitico che si spezzano del tutto i rapporti tra l’uomo e il cosmo» (25). Bibbia e Corano costituiscono dunque la radice della desacralizzazione del mondo e della sua distruzione per opera di una parte che si è proclamata signora e padrona del mondo, immagine dell’unico Dio. Ebraismo, cristianesimo e islam sono intrinsecamente totalitari -la loro storia lo dimostra ampiamente- proprio perché partono dalla «riduzione del molteplice alla dittatura dell’unico» (30). Ne conseguono gli elementi comportamentali tipici di ogni gerarchizzazione totalistica, di «un approccio aggressivo, maschilista, dogmatico, omofobo e sessuofobico» (97).
Vi è un’enorme distanza tra l’ossessione sessuofobica cristiana (oggi temperata) e islamica (tuttora violentissima verso le donne e il piacere) e i templi di Khajuraho, nei quali eros e gioia vedono il loro trionfo nella pietra. «Shiva […] non è infatti raffigurato esclusivamente da un’immagine antropomorfica: oggetto delle offerte dei fedeli, nella parte più interna e sacra del tempio, è la forma aniconica di Shiva, ovvero una pietra fallica (linga), spesso inserita in un’altra di forma tondeggiante, simbolo della vagina femminile (yoni), che insieme vanno a costituire un Tutto dove i due principi, maschile e femminile, complementari e interdipendenti, rappresentano la fonte della vita» (107).
Anche per tali ragioni mi sembra contraddittorio l’uso polemico che in questo libro si fa di categorie come materia e animalità. Nel primo caso si può capire che l’obiettivo critico è il ‘materialismo consumistico’ che dall’Occidente invade il mondo e distrugge culture. Il secondo, invece, rimane incomprensibile, soprattutto quando si parla di riduzione dell’uomo «alla sua componente animalesca e istintuale» (55). Animalità e umanità non sono due strutture contrapposte ma costituiscono espressioni diverse della stessa sostanza.
Assai più convincente è il discorso quando si paragona l’angoscia bulimica e la devastazione ambientale degli attuali padroni del mondo -gli Stati Uniti d’America, permeati di calvinismo- all’equilibrio individuale e collettivo che caratterizza l’esistenza di popoli come i Sami (in Scandinavia) e i Kalash (in Pakistan), i quali hanno conservato sino a oggi forme, costumi, credenze pagane e vivono quindi in equilibrio con le risorse naturali e con l’alterità non antropica. Tra queste comunità «l’ego individuale si dissolve nel Tutto organico delle forze cosmiche primordiali in continuo divenire» (129). Gli USA, invece, sono nati da un «consumo indiscriminato del territorio lasciato in condizioni di verginità dai nativi e distrutto man mano sotto i colpi delle accette a partire dai primi coloni puritani. Essi intendevano eliminare il ritmo ancestrale e dionisiaco della foresta, che nella loro accezione costituiva l’istintualità e la barbarie contro cui si scagliavano, forti di una rivelazione divina da esportare in nome del bieco utilitarismo antropocentrico della sua morale» (51).
La proposta culturale e politica che emerge da questa ricerca è dunque condivisibile e certamente anticonformista rispetto agli schemi geopolitici ossessivamente ribaditi dal mainstream mediatico. È infatti «necessario riposizionare il baricentro culturale altrove, al di là dell’Atlantico, e precisamente tra un’Europa razionalistica e un oriente spirituale, complementari e interdipendenti» (54).

«Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante»


Riprendo qui sotto un testo che avevo pubblicato nell’aprile del 2011. Lo faccio per varie ragioni: di ciò che vi scrissi sono sempre più consapevole; il Giubileo voluto dall’attuale pontefice ha per tema la ‘misericordia’ e anche di questo si parla nelle poche righe di questa riflessione; ho pensato a queste parole in occasione di un funerale al quale ho partecipato pochi giorni fa.
Il celebrante ha ricordato, infatti, che il Cristo sarebbe «il nostro fratello maggiore che si è sacrificato per noi davanti al Padre». Al cospetto di tali affermazioni -incomprensibili da ogni punto di vista: etico, ontologico, logico, teologico, esistenziale- penso, ancora una volta, che una divinità onnipotente e buona (qualunque cosa significhi questa parola) non elimina la finitudine ma certamente cancella il dolore. Non si immerge in esso dicendo: “Vedete? Ho fatto soffrire tremendamente mio Figlio. E quindi anche voi dovete accettare il dolore che vi tormenta”. Che salvezza è questa? Piuttosto, un Dio afferma: “Ecco, tolgo ogni dolore dal mondo, perché sono un Padre e voglio la gioia di tutti i miei figli, prediletti e no”.
In una lettera a Heinrich von Stein dei primi di dicembre del 1882 Nietzsche affermò di volere «liberare l’esistenza umana da ciò che essa ha di straziante e di crudele» (Epistolario, Vol. IV 1880-1884, Adelphi, 2004, p. 270). E in un coevo frammento postumo scrisse: «Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante» (Frammenti postumi 1882-1884 – Parte Prima, in “Opere”, vol. VII/1, parte II, Adelphi 1982, fr. 4[34], p. 110).
Se questo è il sentimento di un umano -con tutte le sue miserie e limiti- come fa a non essere il sentimento di una divinità che può tutto e che, se lo volesse, potrebbe rendere perfetto l’Essere eliminando da esso ogni sofferenza?

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Sono il padre. So che gli esseri umani soffrono ogni giorno per le ragioni più diverse. So che crudeltà, malattia e abbandono scandiscono la vita di tutti coloro che nascono. Sono anche onnipotente. Potrei trovare non una ma innumerevoli soluzioni che pongano immediatamente fine al fiume di dolore che avvolge le creature viventi. Ma invece di provvedere con un gesto autenticamente divino a cancellare il dolore dal cosmo, mando il mio figlio prediletto a patire, a essere seviziato, a morire asfissiato e sanguinante in una delle più atroci torture. Dopo lo faccio risorgere, ma l’universale sofferenza continua come se niente fosse accaduto.

È incredibile come questa orribile storia che ha per protagonista una delle più cupe divinità mai concepite -l’ebraico Jahweh- venga associata a parole quali “amore” e “misericordia”. Un padre che agisce in questa maniera se è davvero onnipotente è anche sadico; se non riesce a porre rimedio in altro modo, allora è uno di coloro che l’antica gnosi chiama “arconti”, divinità inferiori, demiurghi incapaci. Un amore onnipotente genera la gioia, non moltiplica sofferenze e crocifissi.

Jahvé

Il manifesto del 1 agosto 2015 ci informa di come dei coloni ebrei abbiano dato fuoco a una casa palestinese in Cisgiordania. Un bambino di 18 mesi è morto bruciato vivo. I genitori e un fratello di 4 anni sono ricoverati in ospedale.
Ali Dawabsheh è stato bruciato vivo a 18 mesi di vita. Eretz Yisrael, il Grande Israele promesso da Jahvé il maledetto ai suoi fanatici credenti, continua a mietere vittime in modo atroce. Con questa fede, nata nei deserti del Vicino Oriente, si è generato il culto dell’Uno contro la gloria della Differenza, si è generato il monoteismo più intransigente contro l’apertura pagana alla molteplicità degli dèi. Dall’ebraismo sono scaturiti il cristianesimo e l’islam, le tre forme della più radicale violenza che la storia mediterranea abbia conosciuto.
Céline ha ragione: «Bibbia il libro più letto del mondo…più porco, più razzista, più sadico che venti secoli di arene, Bisanzio e Petiot mescolati! …di quei razzismi, fricassee, genocidi, macellerie dei vinti che le nostre più peggio granguignolate vengono pallide e rosa sporco in confronto» (Rigodon, Einaudi 2007, p. 14).

Sul Dio abramitico

Mente & cervello 123  – marzo 2015

 

«Violento, arrogante, intollerante con i nemici, benevolo solo se blandito con offerte e atti di sottomissione. Non è il ritratto di un bullo di quartiere ma di un dio, anzi del Dio onorato dalle religioni del Libro, ebraismo, cristianesimo e islam» (P.E.Cicerone, p. 26). È quanto emerge dall’analisi del monoteismo condotta da Hector A. Garcia nel suo libro Alpha God. The Psychology of religious violence and oppression (Prometheus Books, 2015, pp. 287).
E in effetti basta leggere la Bibbia, leggerla davvero per ciò che vi è scritto e non tramite filtri allegorici o pregiudizi di fede, per comprendere che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio violento: «Lo scrittore Steve Wells si è preso la briga di contare quante sono le persone uccise da Dio durante tutta la narrazione e si arriva alla cifra di 24 milioni. Per avere un riferimento, le persone uccise da Satana nella stessa narrazione sono 60» (Garcia, p. 27); Hitler e Stalin messi insieme non arrivano a un tale successo.
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio che ama l’ignoranza: «Una delle mistificazioni trasmesse dalla fede è l’idea che la conoscenza sia un peccato: le religioni tendono a sopprimere la cultura, il pensiero critico» (30).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio vanitoso (e antispinoziano): «In effetti è curioso pensare che un essere morale e onnipotente richieda rispetto: il rispetto è una conferma del proprio potere, di cui potrebbe avere bisogno un maschio dominante. Ed è uno dei modi con cui è gestito il potere nelle gerarchie maschili, perché implica che la posizione dominante possa essere assunta da qualcun altro, e che sia necessario impegnarsi per mantenerla» (29).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è un Dio inquinante e nemico della Natura: «In una religione di questo tipo l’uomo è visto come colui che deve dominare le altre forme di vita piuttosto che instaurare con esse un rapporto egualitario» (31).
Il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani è quindi un Dio maschio alfa, «e quando nella religione si fa strada la psicologia del maschio dominante, combattere la violenza diventa impossibile. Come si fa a contrastare la volontà dell’essere più potente dell’universo? Come si esprime il dissenso, quando andare contro il volere di dio è considerato blasfemia?» (28). Bisogna ricordare che il comandamento mosaico del ‘Non uccidere’ si riferisce «ai membri della tribù, della comunità, non all’umanità in generale»; e infatti «la Bibbia è piena di stragi, rapimenti, stupri. Nel Nuovo Testamento la violenza è meno presente, ma accanto agli inviti alla mitezza non mancano minacce contro i non credenti. […] D’altronde la Chiesa ha sempre combattuto  e sterminato popolazioni in nome di Dio. Pensiamo a quello che è avvenuto in Sud America con i conquistadores» (28-29). Stragi, genocidi, guerre, torture non costituiscono comportamenti ‘da deboli peccatori’ ma rappresentano il modo più coerente di essere ebrei, cristiani e musulmani.
Anche le religioni animistiche e politeistiche presentano alcuni caratteri violenti ma essi sono del tutto incommensurabili con ciò che ebraismo, cristianesimo e islam hanno generato: «Le religioni più antiche sono state religioni politeistiche con divinità di entrambi i sessi, spesso ispirate a fenomeni naturali. Più avanti l’organizzazione delle società è diventata più complessa, i sistemi di potere hanno sentito l’esigenza di tutelarsi, e così in Medio Oriente è nato il monoteismo, da cui poi si sono evolute le religioni abramitiche» (26-27).
Capisco che leggere simili affermazioni può risultare disturbante ma è dalla Bibbia che scaturisce l’abominio. Bisogna comunque riconoscere che se tutto questo è stato ed è ancora possibile è anche perché «la religione, in particolare le sue tendenze oppressive, è radicata nel nostro passato evolutivo profondo» (27). Forse possiamo difenderci dalle più disastrose conseguenze di tale eredità filogenetica, dalla demenza monoteistica, con gli stessi strumenti con i quali è possibile difenderci dall’Alzheimer: «La lettura, l’apprendimento e il gioco accrescono la cosiddetta riserva cognitiva, che permette di rallentare il declino cognitivo e il rischio di demenza. D’altra parte la pratica di un’attività fisica regolare favorisce la liberazione di molecole dette neurotrofine e la produzione di nuovi neuroni -o neurogenesi- che contribuiscono allo sviluppo di questa riserva cognitiva» (L.Buée, 78-79).
M&C_123_marzo_2015I giovani europei che lasciano le loro vite per entrare nell’ISIS o in analoghe organizzazioni -come Boko Haram allo scopo di imporre mediante lo sterminio delle esistenze altrui la verità secondo cui «Allah è l’unico Dio e Maometto è il suo profeta»; allo scopo di distruggere i resti di millenni di civiltà politeistiche e animistiche; allo scopo di rinunciare per sempre alla libertà del corpomente; tali giovani avrebbero tutto da guadagnare da qualche conoscenza filosofica e storica in più, da qualche esercizio fisico nello spazio libero della natura. Quello spazio che il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani contrae sino alla propria piccola persona.

Mammona

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Lehman Trilogy
di Stefano Massini
Regia di Luca Ronconi
Con: Massimo De Francovich (Henry Lehman), Fabrizio Gifuni (Emanuel Lehman), Massimo Popolizio (Mayer Lehman), Paolo Pierobon (Philip Lehman), Roberto Zibetti (Herbert Lehman), Fausto Cabra (Robert Lehman), Martin llunga Chishimba (Testatonda Deggoo), Fabrizio Falco (Salomon Paprinskij), Raffaele Esposito (Pete Peterson), Denis Fasolo (Lewis Glucksman), Francesca Ciocchetti, Laila Maria Fernandez
Scene di Marco Rossi
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 15 marzo 2015

Henry, Emanuel e Mayer Lehman provenivano da Rimpar, un paesino della Baviera. Nel 1850 fondano a Montgomery (Alabama) la loro società. Da commercianti di tessuti che erano si sono inventati un nuovo mestiere, quello di mediatori. Comprano il cotone dalle piantagioni e lo rivendono agli industriali che lo trasformano in tessuti. Dopo la Guerra di Secessione si trasformano in banchieri, oltre che in commercianti di caffè. Finanziano le ferrovie attraverso le obbligazioni, con le quali diventano ricchi, molto ricchi. Poi il petrolio, l’impegno in politica di uno dei loro figli come governatore di New York e senatore. Sopravvivono al crollo del 1929. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale estendono i loro affari in tutti i continenti. Finanziano l’industria dello spettacolo, la televisione, i prodotti di consumo. Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento la Lehman Brothers giunge al culmine del suo Beruf, della vocazione-professione a «comprare soldi per vendere soldi, per prestare soldi, per scambiare soldi», come afferma Philip Lehman già alla fine dell’Ottocento. Il core business della Lehman Brothers diventa quindi il trading, la pura speculazione sui prodotti finanziari più rischiosi, sui titoli spazzatura, sui mutui subprime, sui derivati, sulle truffe più legali che esistano. Sino al crollo finale. Il 15 settembre del 2008 la Banca dei fratelli Lehman cessa di esistere.
Centosessanta anni di storia del capitalismo ebraico-statunitense narrati in modo calmo, lucido, onirico, interiore e oggettivo dalle voci dei Lehman, dalle loro azioni, dai loro entusiasmi, dalla loro abilità, dalla loro spregiudicatezza, dai loro sogni e incubi, dai loro matrimoni, dalle loro mogli, dai loro figli, dalle loro morti. All’inizio veniva rispettato lo Shivà, i sette giorni di lutto alla morte di un membro della famiglia, poi gli affari non potranno più aspettare, la Borsa non chiude mai.

La componente religiosa emerge in tutta la sua forza da questo testo e dalla sua messinscena. Una componente identitaria, dove la struttura fondamentale è sempre il danaro. Produzione di danaro per mezzo di danaro, Baruch Aschem, benedetto il Signore. Una produzione infinita che causa una rovina determinata non «da fenomeni di corruzione o di malaffare, quanto invece da un insieme, verrebbe da dire, di patologie sistemiche» (Stefano Massini, Programma di sala, p. 14). Sistemica perché a un certo punto della storia europea prima e mondiale poi, il danaro non è stato più cercato per ottenere qualcosa ma è stato cercato per se stesso. Una differenza fondamentale rispetto al millenario desiderio di essere ricchi e di vivere più agiatamente. Una patologia che non è rimasta limitata a cerchie ristrette di banchieri, usurai, avari, paperon de’ paperoni nuotanti nell’oro, ma è diventata la frenesia di milioni di persone che affidano i loro risparmi e le loro speranze a una finanza molto più rischiosa del gratta e vinci o del gioco delle tre carte negli angoli più nascosti delle città perdute. Massini ricorda che il vicepresidente di Lehman «al momento del crollo non ebbe problemi a dichiarare che nessuno di loro aveva idea di quanti e quali fossero i debiti della banca» (p. 19).
Ma davvero tali patologie non hanno nulla di corrotto o di malaffare? «Le agenzie di rating  nel 2007, alla vigilia di una nuova crisi, promuovevano ancora con ottimi voti alcune banche virtualmente fallite» (Sergio Romano, p. 25). Solo incompetenza? Non lo credo possibile. «Richard Fuld, l’amministratore della banca, aveva da tempo presentato dei falsi bilanci e negli ultimi dieci anni aveva versato 300 mila dollari a deputati e senatori del congresso americano per corromperli, è stato messo sotto inchiesta da altri membri del congresso stesso» (Wikipedia). Complicità, dunque, e conflitti di interesse: «Il valore teorico di tutte le categorie di derivati è aumentato negli ultimi vent’anni di venti volte ed è oggi calcolato in 600 trilioni di dollari, vale a dire 10 volte il prodotto interno lordo mondiale» (S. Romano, pp. 25-26).

I Lehman Brothers attinsero alla volontà di ricchezza di milioni di persone e ne fecero il fondamento del loro desiderio di non morire, di diventare immortali, come dichiara Robert Lehman. Il modo in cui Massini, Ronconi e i magnifici attori che interpretano Lehman Trilogy mettono in scena tutto questo è coinvolgente sino all’immedesimazione e al divertimento. Il ritmo variabile della scrittura e del testo raggiunge un vertice e un vortice durante una delle scene finali, quando Robert Lehman, dopo aver creato una specifica Divisione Trading nella Banca assumendo a questo scopo i più spregiudicati finanzieri, comincia a ballare insieme a due di loro il twist. In quel tremare e godere di tutto il corpo dei tre attori sembra di toccare e sentire la follia più fonda, la ὕβρις.
Cinque ore di teatro, di affabulazione, di passioni, di epica vissuta su un palcoscenico assai semplice, nel quale ogni oggetto, ogni insegna, ogni sedia, ogni movimento dice una cosa sola: Mammona. «Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona» (Lc. 16,13). Ma c’è chi ci riesce benissimo.

Libertà di espressione

Il 7 gennaio ho scritto di getto a proposito del massacro di Charlie Hebdo poiché quel giorno è stata colpita nel modo più violento e ripugnante la libertà di parola, anche la libertà di bestemmiare. Cosa che la rivista parigina fa costantemente contro i simboli ebraici, cristiani, islamici. Penso infatti che l’essere umano sia tempo e linguaggio, che Homo sapiens sia un animale simbolico e che dunque la libertà di esprimere ciò che pensa –qualunque cosa pensi– sia una funzione intrinseca al suo essere. Spinoza ha argomentato con grande chiarezza che agli individui si può proibire di parlare ma non di pensare (o almeno per fortuna non ancora) e che dunque il risultato di ogni censura è l’ipocrisia collettiva. Secoli di storia del potere, degli Stati moderni, delle Inquisizioni lo dimostrano. E quindi si debbono eventualmente perseguire le azioni e mai le parole in modo che le controversie dottrinali non si trasformino in scatenata violenza: «& quod ad seditiones attinet, quæ specie religionis concitantur, eæ profecto inde tantum oriuntur, quod leges de rebus speculativis conduntur, & quod opiniones tanquam scelera pro crimine habentur, & damnantur; quarum defensores et asseclæ non publicæe saluti, sed odio ac sævitiæ adversariorum tantum immolantur. Quod si ex jure imperii non nisi facta arguerentur, & dicta impune essent, nulla juris specie similes seditiones ornari possent, nec controversiæ in seditiones verterentur» (Tractatus theologico-politicus, Præfatio, § 7).
Pertanto io credo che la libertà di espressione non debba avere alcun limite, poiché appena si cominciano a porre dei confini, rischia di essere prima o poi cancellata. Contro ogni atteggiamento autoritario travestito da garanzia collettiva, penso che tale libertà debba essere garantita a qualunque idea, anche a quella che -secondo i criteri di una determinata società- appare la più ‘aberrante’: che sia l’eliocentrismo per la comunità scientifica antica, il cristianesimo per i politeisti, il politeismo per i cristiani, l’ateismo per il medioevo (e oltre), la blasfemia per le società musulmane, il nazionalsocialismo per le società democratiche, lo stalinismo per la società nordamericana, il fondamentalismo islamico e il razzismo per le società politicamente corrette.
Chi si dovesse sentire personalmente insultato da qualcuno, può ricorrere ai tribunali imputando di diffamazione chi lo ha attaccato. Ma chiedere che i tribunali condannino ciò che viene detto o scritto sui princîpi che per l’uno o l’altro sono indubitabili, fondamentali, venerabili, oppure che -peggio- delle leggi proibiscano preventivamente la formulazione di idee, concetti e anche pregiudizi significa che si è falsamente libertari, significa che si vuole la libertà di parola per le parole con le quali concordiamo. Rosa Luxemburg ha ben detto che «Freiheit ist immer nur Freiheit des anders Denkenden [la libertà è sempre solo la libertà di chi la pensa diversamente]» (Zur russischen Revolution, IV).
La libertà di espressione non si deve fermare davanti a nessun principio, nessun dogma politico-culturale, nessun libro ‘rivelato’. Se sembrava ovvio che nessuno dovesse venir inquisito o ucciso per le sue bestemmie, ora ci accorgiamo di avere ancora bisogno dell’illuminismo e della sua dimensione radicale, eversiva dell’ordine della parole.
Attenderei inutilmente la solidarietà del Foglio o della Lega Nord con chi dovesse disegnare la Madonna come una prostituta. E temo che attenderei altrettanto vanamente la solidarietà dei ‘democratici’ (per autodefinizione) nei confronti dei negazionisti dello sterminio ebraico. E infatti ora molti esponenti della destra cominciano a capire che Charlie Hebdo bestemmia pure la trinità -e prendono quindi le distanze-, molti esponenti della sinistra cominciano a capire che Charlie Hebdo è un po’ razzista -e prendono quindi le distanze. E nell’orgia dello ‘scontro di civiltà’ il potere si va appropriando per i propri scopi dell’azione  di un gruppo di fanatici «sottomessi» al Profeta: capitali militarizzate, richiesta di leggi speciali, moltiplicazione dei controlli, estendersi delle censure. Al di là della retorica spettacolare del Je sui Charlie il massacro contro Charlie Hebdo rischia di trasformarsi in un’ulteriore occasione per «sorvegliare e punire».

Dante, Maometto e Charlie Hebdo

«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ‘l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”

vedi come storpiato è Mäometto!’»

(Inferno, XXVIII, 22-31).

Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i CharlieHebdo_Maomettopiù pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.

veil-charlie-hebdo«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […]  Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).
«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).
«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).
«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).

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