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Religione, invidia, figli

Mente & cervello 99 – marzo 2013

Nell’esagono che compone le scienze cognitive -psicologia, neurologia, linguistica, filosofia, antropologia, intelligenza artificiale-, l’antropologia sta emergendo sempre più. Essa, infatti, rende possibile l’individuazione delle radici più profonde di molti fenomeni della vita individuale e collettiva e mostra la loro dimensione olistica, lontana da ogni interpretazione troppo riduttiva di realtà assai complesse nel loro statuto e nelle loro conseguenze.
Di tali realtà fa parte l’esperienza religiosa. Le ricerche sperimentali sembrano dimostrare che «più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta» (S. Upson, p. 25). Le ragioni di questo fenomeno vanno naturalmente al di là delle specifiche credenze dell’ebraismo, del cristianesimo, dell’islam, dell’induismo o di altre fedi e hanno a che fare anche con i contesti nei quali l’esperienza religiosa viene vissuta: «I credenti saranno forse più felici dei senza Dio, ma solo se la società in cui vivono dà molto valore alla religione, e questo non succede sempre» (Id., 26). Altri studiosi offrono risposte di tipo evoluzionistico. Le credenze religiose, infatti, rispondono assai bene al bisogno che i mortali hanno di trovare un significato forte e totalizzante alle proprie esistenze: «I bambini vengono al mondo con una propensione fortissima ad attribuire significato ai fenomeni dell’ambiente in cui vivono, rintracciando continuamente pattern e relazioni causali negli eventi del mondo» (V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, 34). Tali relazioni causali sono all’origine dell’individuazione di agenti consapevoli ai quali ascrivere l’origine di ciò che accade: è assai più pericoloso attribuire al vento l’agitarsi di un ramo, se invece è un predatore a esserne la causa, che vedere un predatore là dove agisce soltanto il vento. «Questa ipersensibilità del meccanismo per la rilevazione degli agenti deve essere stato un motore cruciale nell’evoluzione delle credenze nel sovrannaturale» (Id., 36). Ovviamente lontano dalla forma mentis evoluzionistica, già Spinoza aveva comunque attribuito a fattori naturali la credenza nel teleologismo, nella presenza di divinità che agiscono al fine di favorire o danneggiare gli umani.
Favoriti o danneggiati siamo dagli altri mortali, i quali a volte -spesso- ci tradiscono e che noi tradiamo. Il tradimento può essere rivolto non soltanto a una persona ma anche a un’idea, un’organizzazione, una fede. Tra le tante possibili cause, una delle più tristi è l’invidia, sentimento che personalmente giudico ripugnante e con il quale il soggetto che lo nutre attesta da sé la propria inferiorità nei confronti dell’invidiato. Intervistato da Paola Emilia Cicerone, Mario Perini sostiene che «le persone, le qualità, le idee oggetto di ammirazione possono trasformarsi in oggetti odiati nel momento in cui la loro superiorità suscita nel soggetto un intollerabile sentimento di inferiorità. Il tradimento può essere un modo per allontanarsi dalla fonte del dolore, e insieme attaccarla e distruggerla» (47).
Quanto meglio sarebbe, invece, valorizzare ciò che ci accade e ciò che siamo, senza confrontarlo con ciò che accade agli altri e con ciò che gli altri sono. Positività e gratitudine, infatti, «migliorano la salute e il benessere psicofisico» non soltanto nostro: «Cercare di essere felici può apparire uno sforzo egoista, ma in effetti è un obiettivo utile da perseguire non solo per se stessi, ma per la nostra comunità» (E. Seppala, 102 e 103).
Motivo di invidia e di tristezza potrebbe essere il non avere figli ma in un loro libro –Senza figli. Una condizione umana, recensito da P.E. Cicerone- Duccio Demetrio e Francesca Rigotti difendono la condizione di «chi sceglie di essere genitore e figlio di se stesso e il senso della vita lo cerca altrove, magari proprio nel “partorire con la mente”. […] E forse, concludono gli autori,  la discriminante vera “non è tra chi di figli ne ha avuti e chi no, ma tra chi non si interroga sul senso amaro, dolente del vivere e chi invece dedica a tale scopo la sua inesausta, sempre incompiuta ricerca”» (104).

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