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Lo scambio simbolico

Lo scambio simbolico e la morte
(L’échange symbolique et la mort, 1976)
di Jean Baudrillard
Traduzione di Girolamo Mancuso
Feltrinelli, 2007
Pagine 255

Nelle società avanzate il principio di simulazione ha sostituito il principio di realtà. Alla contraffazione della prima età moderna e alla produzione di quella industriale, segue la simulazione, intesa da Baudrillard in termini assai complessi, a partire dalla universale riproducibilità tecnologica, artificiale e mediatica di ogni ente, evento e processo: «Per le opinioni, come per i beni materiali, la produzione è morta, viva la riproduzione!» (pag. 78) e, con essa, una cultura impregnata della morte artificiale e della equivalenza generale di ogni cosa con ogni altra, fondamento dello scambio capitalistico che ha sostituito e distrutto lo scambio simbolico.
Lo scambio tra forza lavoro e salario si fonda sulla morte, «bisogna che un uomo muoia per diventare forza-lavoro. È questa morte che egli monetizza nel salario» (55). La morte diventa così l’equivalente generale della socializzazione. Nel passaggio «dallo scambio simbolico delle differenze alla logica sociale delle equivalenze» (188), reale diventa «ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente. […] Al termine di questo processo di riproducibilità, il reale è non soltanto ciò che può essere riprodotto, ma ciò che è sempre già riprodotto. Iperreale» (87).
La simulazione è anche il simulacro al quale i rapporti sociali vengono ridotti e la stessa struttura politica della democrazia. Il suffragio universale è in realtà «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza» (77), nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (81). Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (79). Non solo: coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici di classe mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (35).
Le forme dell’equivalenza si possono trovare in ambiti molto diversi tra di loro, quali: la centralità nella medicina contemporanea del Körper, del corpo-cadavere, rispetto al Leib, il corpo vissuto; la natura razziale dell’Umanesimo, poiché prima di esso culture e razze «si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d’una Ragione universale. Non c’è un criterio dell’uomo, non la divisione dell’Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il nostro concetto indifferenziato dell’Uomo che fa sorgere la discriminazione» (137); la profonda corrispondenza tra monoteismo e potere politico unificato, così diverso dallo scambio molteplice dei politeismi; il sostanziale matriarcato delle società senza Padre quali sempre più vanno diventando le nostre “avanzate” strutture sociali, un matriarcato dell’equivalenza tra madri e figli che impedisce la crescita autonoma del «soggetto perverso» il cui lavoro «consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e di trovarvi l’appagamento del suo desiderio –in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (127).
L’equivalenza tesa a cancellare ogni differenza si esprime soprattutto nell’utopia negativa e mercantile della abolizione della morte, in ciò che Norbert Elias ha definito la «solitudine del morente» e che Baudrillard descrive come «paranoia della ragione, i cui assiomi fanno sorgere ovunque l’inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e insolubile» (179) poiché «tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l’ambivalenza della morte a solo vantaggio della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte –è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni: quella della sopravvivenza e dell’eternità per le religioni, quella della verità per la scienza, quella della produttività e dell’accumulazione per l’economia» (162).
Contro questi deliri di equivalenza vanno difesi il senso e la realtà dello scambio simbolico che permette ai primitivi di vivere con i loro morti «sotto gli auspici del rituale e della festa» mentre «noi commerciamo con i nostri morti con la moneta della malinconia» (148).
Ecco perché, rispetto alla sterile superficialità di ogni riduzionismo economicistico, psicologistico, sociologico, Baudrillard può giustamente asserire che «la rivoluzione è simbolica, o non è affatto» (219). Lo spazio del simbolico è infatti l’ambito nel quale l’umano esplica le proprie esigenze più fonde, le speranze assolute, le forme delle culture e delle comunità, la potenza dei sentimenti, l’edificazione delle arti e delle filosofie, la sfera del senso.
L’umano è un dispositivo semantico perché non vive di solo pane e per riuscire letteralmente a muoversi, agire, prendere la costante serie di decisioni che intesse la vita, ha bisogno di trovare un significato –un qualsiasi significato- al tempo che è e che le cose da sole non hanno. L’incessante scambio simbolico in cui la vita consiste comprende in sé anche la morte, soprattutto la morte, e solo in questa com-prensione le può dare un significato né soltanto biologico né malinconicamente disperante né economicamente in perdita ma colmo della pienezza del dono che ogni presente è, anche quello della fine.

«Dance me very long»

Dance Me to the End of Love
di Leonard Cohen
(da Various Positions, 1984)

«Dance me to your beauty with a burning violin / Dance me through the panic ’til I’m gathered safely in / Lift me like an olive branch and be my homeward dove / Dance me to the end of love […] Dance me to the wedding now, dance me on and on / Dance me very tenderly and dance me very long»
Una danza malinconica e tenace. Cohen afferma di averla pensata anche in relazione ai campi di sterminio ma l’importante è che si tratta di parole e di ritmi capaci di esprimere tutto il desiderio degli amanti di giungere ai limiti del loro sentimento, di esplorare lo spazio e il tempo come un riverbero di energia nel quale finalmente congiungersi. È il vino di cui parla il mistico fiammingo Ruysbroeck, un vino che inebria al solo nome.

[audio:Dance_Me.mp3]

Foristeri

Teatro Greco – Siracusa
Le Supplici
da Eschilo
Adattamento scenico in siciliano e greco moderno di Moni Ovadia, Mario Incudine, Pippo Kaballà
Musiche di Mario Incudine
Regia di Moni Ovadia
Con: Mario Incudine (Cantastorie), Angelo Tosto (Danao), Donatella Finocchiaro (Prima Corifea), Moni Ovadia (Pelasgo), Marco Guerzoni (Araldo degli Egizi)
Scene Gianni Carluccio
Costumi Elisa Savi
Sino al 28 giugno 2015

I cinquanta figli di Egizio sono decisi a prendere le cinquanta cugine Danaidi, anche contro la loro volontà. Le ragazze e il loro genitore fuggono e cercano rifugio ad Argo, terra d’origine di Io, loro antenata amata da Zeus e per questo perseguitata in tutti i modi da Era, anche quando Zeus trasforma la ragazza in giovenca per nasconderla agli occhi della dea. Le sue discendenti supplicano ora Pelasgo di dare loro ospitalità; dopo qualche titubanza il re la concede, anche se questo significherà guerra certa con gli Egizi.
Le Supplici descrive dunque la ἀνδρών ὕβριν (v. 528), la dismisura del maschio che non sa fare dell’Eros qualcosa di diverso rispetto all’accoppiamento che genera altri umani, altro dolore. I Greci sanno infatti che «iridescenti sono i guai» e «sempre cangiante tu vedrai l’ala del dolore» (vv. 328-329, trad. di Franco Ferrari).
Di tutto questo, e di molto altro, nulla resta nelle Supplici di Moni Ovadia e del compositore Mario Incudine. L’idea della contaminazione etnica, del testo tradotto in siciliano e in greco moderno, trasformato in canto (ritmate e cantate erano infatti in Grecia le tragedie) sarebbe stata molto interessante ma la musica è assolutamente inadatta, sviante, banale. Ovadia e Incudine avrebbero potuto optare per dei ritmi arcaici, o per delle cadenze orientali, o per strutture sperimentali. Per qualcosa che in ogni caso potesse restituire la distanza dei Greci. E invece la musica è quasi quella folcloristica tipo «Sciuri sciuri». Mi ha ricordato coloro che nel mio paese d’origine vengono chiamati i foristeri, venditori ambulanti di frutta e verdura che arrivano dai paesi limitrofi e si fanno notare per le strade diffondendo ad alto volume canzoni siculo-napoletane. In quel contesto va benissimo ma non altrettanto per i foristeri di cui parla Eschilo, la cui tragedia viene utilizzata come strumento di una visione del mondo «umanistica», vale a dire quanto di più lontano ci sia dall’Ellade.
Le-Supplici.-Donatella-Finocchiaro-ph-Maria-Pia-BallarinoSe gli Elleni «di nessun uomo si dichiarano schiavi, di nessun uomo sudditi» (v. 242), è perché la loro non è una libertà soltanto politica, non è la «democrazia» come la si spaccia lungo tutto questo spettacolo ma è una radicale libertà dalla consolazione, dalla speranza, dall’illusione dell’istante che si tramuta in disperazione del sempre. I Greci riconoscono la potenza, la liceità, la naturalità del desiderio che produce «la freccia di seducente sguardo» (v. 1005) ma sanno anche che solo un’entità non umana può evitare il dolore che ogni desiderio, anche realizzato, porta con sé. Sanno che soltanto «ogni atto dei numi è senza pena» (παν απονον δαιμόνιον, v. 110) e mai gli atti degli umani. Tutto questo rimane qui radicalmente estraneo, foristeri.

La Prisonnière

La prigioniera
di Marcel Proust
(La Prisonnière, 1921-22)
Trad. di Paolo Serini
Einaudi, 1978 (1954)
Pagine XVIII – 460

Proust_La PrigionieraIl presentimento di sofferenza con il quale si era chiuso Sodoma e Gomorra si dispiega in una parte dell’affresco proustiano che forse meglio si sarebbe potuta intitolare “Il prigioniero”. Più che Albertine, infatti, è il Narratore a essere recluso nell’insaziabilità del desiderio, nell’illusione dell’amore dato e ricevuto, in una gelosia che quando sembra attenuarsi bastano una parola, un gesto, un’immagine a ricostituire. Tuttavia la dolorosa saggezza che dell’amore è sostanza prepara il Narratore alla rivelazione definitiva –non a caso Albertine viene definita «una grande dea del Tempo» (pag. 398)1 anche attraverso la musica e la letteratura, evocate dal “Settimino” di Vinteuil e dalla morte di Bergotte. È l’arte a farsi espressione dell’identità molteplice, che è capace di «riunire in sé più individualità diverse» (160)2.
La centralità di Albertine nell’itinerario della Recherche consiste nell’essere testimone della inevitabile crudeltà del sentimento amoroso, «come se tra due esseri esistesse fatalmente una certa quantità d’amore disponibile, di cui il troppo preso da uno venga sottratto all’altro» (353)3. Ed è per questo forse che in Sodome et Gomorrhe dell’amore si dice che è un «sentimento (qualunque ne sia la causa) sempre erroneo» (Einaudi 1978, p. 214)4. Il fatto è che Albertine «mi poteva procurare soltanto sofferenza, non mai gioia. E solo la sofferenza manteneva in vita il mio fastidioso attaccamento» (23)5.
L’impossibilità di conoscere e possedere l’Altro è un’allegoria –la fisicizzazione quasi- di una più vasta impossibilità, quella della verità, la quale si dissolve nell’intuizione che il mondo è identico per tutti e differente per ciascuno. L’impossibilità dell’amore e della verità fa sì che l’Altro non esista, che egli sia l’inafferrabile e mutevole risultato del cangiante moto dei nostri sentimenti, al di fuori dei quali egli è il niente. L’Altro c’è fino a quando il nostro amore perdura. Sparisce poi in quel nulla dal quale le nostre emozioni lo hanno tratto alla vita. Anche per questo «la vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, è la letteratura» (Il tempo ritrovato, Einaudi 1978, p. 227)6, la vera vita è la parola in grado di dire a noi e agli altri la sostanza del mondo. Ed è per questo che durante la notte funebre dello scrittore Bergotte «i suoi libri disposti a tre a tre vegliarono come angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione» (190)7.

 

Note

1. «une grande déesse du Temps» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1894)

2. «réunir diverses individualités» (1722)

3. «comme s’il y avait fatalement entre deux être une certaine quantité d’amour disponible, où le trop pris par l’un est retiré à l’autre» (1861)

4. «sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (Sodome et GomorrheÀ la recherche du temps perdu, 1358)

5. «était capable de me causer de la souffrance, nullement de la joie. Par la souffrance seule, subsistait mon ennuyeux attachement» (1623)

6. «la vraie vie, la vie enfin découverte et éclaircie, la seule vie par conséquent pleinement vécue, c’est la littérature» (Le temps retrouvéÀ la recherche du temps perdu, 2284)

7. «ses livres, disposé trois par trois, veillaient comme des anges aux ailes éployées et semblaient pour celui qui n’etait plus, le symbole de sa résurrection» (1623)

 

Theorein / Kairós

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Pornografia
(1960)
di Witold Gombrowicz
Con: Riccardo Bini (Witold), Paolo Pierobon (Federico), Ivan Alovisio, Jacopo Crovella, Loris Fabiani, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
Traduzione di Vera Verdiani
Scene di Marco Rossi
Regia di Luca Ronconi
Sino al 5 aprile 2014

 

Pornografia_3Un romanzo, Pornografia di Gombrowicz, dai molti strati, dai numerosi enigmi. Ronconi lo trasforma in un’azione teatrale nella quale gli attori raccontano i personaggi, descrivono quello che fanno mentre lo fanno. Non soltanto Witold, colui che nel romanzo dice ‘io’, ma anche tutti gli altri. Si raccontano mentre «si comportano» per «non fare altro», mentre parlano allo scopo quasi sempre «di non dire qualcos’altro», mentre sono spesso a terra, striscianti come il verme protagonista di una scena chiave dove amore e morte ancora una volta si accompagnano e si fondono.
I due protagonisti -Witold e Federico- vivono un soggiorno nella campagna polacca mentre intorno infuria la guerra. Loro sono concentrati sulla figlia dell’amico che li ospita e sul ragazzo al loro servizio. Vorrebbero che i due si amassero, si unissero, copulassero. E invece Enrichetta e Carlo mostrano reciproca indifferenza. Il parossismo del desiderio induce Federico e Witold non soltanto a guardare ma anche a costruire situazioni che favoriscano il loro obiettivo. Non li ferma l’arrivo di Venceslao, fidanzato di Enrichetta, di Amelia -madre di lui e donna «cattolica e di alti sentimenti morali»- di un partigiano in crisi, di un giovane ladro che uccide Amelia. Anzi. Ogni evento è inserito in una trama nella quale i due vivono e proiettano la loro potenziale ma evidente omosessualità. Si sentono gli echi del desiderio che muove von Aschenbach in Morte a Venezia, la frenesia che anima Bouvard e Pécuchet, la guerra antieroica e grottesca della Trilogia del Nord celiniana, il modello classico di Aminta.
Il semplice vedere, l’aprire gli occhi e guardare, è in sé pornografico perché l’umano (come ogni altro animale) è una macchina del desiderio che trova nell’eros il culmine del tempo destinato alla vita di ciascuno. In una pagina del suo Diario Gombrowicz scrisse che il vero problema della nostra specie non è la morte ma è «l’invecchiare, questa forma di morte che sperimentiamo ogni giorno. E non tanto l’invecchiare in sé, quanto il fatto di essere così completamente, così terribilmente tagliati fuori dalla bellezza. Quello che ci disturba non è che stiamo morendo, ma che il fascino della vita ci diventi inaccessibile. Al cimitero ho visto un ragazzo che camminava fra le tombe come una creatura di un altro mondo, misteriosa, rigogliosamente in fiore, mentre noi sembravano dei mendicanti» (1953; cit. nel Programma di sala, p. 23). Creatura intessuta di un tempo che appare infinito ma che può anche di botto sparire non nella morte ma nella trasformazione del desiderio in vita, in generazione, in figli. Gombrowicz lo dice con chiarezza: «La bellezza e la gioventù non dovrebbero essere qualcosa di gratuito e di fine a se stesso, un meraviglioso dono della natura, una specie di coronamento? E invece, nella donna, il fascino serve a generare, è foderato di gravidanze e pannolini e la sua massima realizzazione comporta un figlio che segna la fine del poema. Un ragazzo, incantato da una ragazza e da se stesso con lei, non fa in tempo a toccarla che è già padre e lei -madre; quindi la ragazza è una creatura che sembra praticare la gioventù, ma in realtà serve solo a liquidarla» (1954; ivi, p. 25). È la verità. È la negazione del presente in vista di un futuro altrui. È la «liquidazione» della bellezza a favore della generazione di qualcosa che a sua volta diventerà funzionale ad altra carne senza senso.
La corporeità metafisica che intesse Pornografia è anche un modo di affrancamento dal ciclo del nascere e del morire, per diventare il presente nel quale converge il tempo/ora, il Καιρός.

 

Sodome et Gomorrhe

Sodoma e Gomorra
di Marcel Proust
(Sodome et Gomorrhe, 1921-22)
Trad. di Elena Giolitti
Einaudi, 1978 (1949)
Pagine XVII – 631

 

Proust-Sodoma_e_GomorraDalla lucida descrizione della “stirpe” di Sodoma e Gomorra alla sofferenza di vederne discendere Albertine, si compie la fase di vita del Narratore prima della drammatica rivelazione che muterà  la sua esistenza. Dentro questo tempo la mondanità si rivela sempre più superficiale e insulsa decadendo, tra l’altro, dai Guermantes di Parigi alla «setta» dei Verdurin alla Raspelière.
Se la protagonista dei timori del Narratore è Albertine, dall’altro lato della stirpe maledetta trionfa nel suo fascino complesso e profondo la figura del Barone di Charlus, il capolavoro di Proust, una scultura fatta di intelligenza e di lussuria, di smisurato orgoglio e di affettuosa umiltà, di malvagità e di cortesia.
Il Desiderio mostra come l’Altro sia sempre un essere di fuga, poiché il destino di chi ama è «quello d’inseguire solo fantasmi, esseri la cui realtà per buona parte dimorava nella mia fantasia; vi sono infatti esseri [che] rinunciano a tutto il resto, mettono tutto in opera, si servono d’ogni cosa per incontrare un fantasma»1, desiderio che è parte e forma della potenza stessa della Natura, dell’energia eternamente ritornante del «querulo avo della terra», il mare, «che proseguiva ancora, come nel tempo in cui non esistevano esseri viventi, il suo demente e immemore tumulto»2 (pag. 439).
Il quarto volume della Recherche si chiude con il presentimento tragico e fatale di inaudite sofferenze future ma anche con la percezione di una nuova vita, che sarà dedicata all’Adoration perpétuelle, al Tempo. Il giorno in cui ha scoperto l’omosessualità e quindi la distanza della sua donna, precipitato nel gorgo della peggiore forma di gelosia, quella retrospettiva, il Narratore scrive:

Com’è ingannevole il senso della vista! Un corpo umano, anche amato, com’era quello di Albertine, ci sembra, a pochi metri, a pochi centimetri di distanza, lontano da noi. Ed egualmente l’anima che gli appartiene […]. Mai non avevo veduto cominciare una mattina così bella, né così dolorosa. Pensando a tutti i paesaggi indifferenti che si sarebbero illuminati tra poco, e che il giorno prima ancora non mi avrebbero colmato che del desiderio di visitarli, non potei trattenere un singhiozzo quando, in un gesto d’offertorio meccanicamente compiuto e che mi parve simboleggiare il sacrificio sanguinante ch’io stesso stavo per fare d’ogni gioia, ogni mattina, fino al termine della mia vita, rinnovellamento celebrato solennemente ad ogni aurora del mio dolore quotidiano e del sangue della mia piaga, l’uovo d’oro del sole, come propulsato dalla rottura d’equilibrio determinata al momento della coagulazione da un cambiamento di densità, dentato di fiamme come nei quadri, squarciò d’un balzo la cortina dietro la quale lo si sentiva, da un minuto, fremente e pronto ad entrare in scena e a slanciarsi avanti, e di cui si dissolse sotto fiotti di luce la porpora misteriosa e rappresa.3 (561-562)

È qui, nel nucleo geometrico dell’opera, che Proust disvela in modo impareggiabile ed esatto l’essenza dell’amore, la struttura del desiderio, la natura sacra e ironica delle passioni, l’illusione suprema che ci spinge verso l’Altro:

Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro. […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle. […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero. 4 (560-561)

In ogni caso l’amore è «un sentimento che (qualunque ne sia la causa) è sempre erroneo».5 (214)


Note

1.«de ne poursuivre que des fantômes, des êtres dont la réalité pour une bonne part était dans mon imagination»» (À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1999, p. 1517)

2. «plaintive aïeule de la terre, poursuivante comme au temps qu’il n’existait pas encore d’êtres vivants sa démente et immémoriale agitation» (Ivi)

3. «Comme la vue est un sense trompeur! Un corps humain, même aimé comme était celui d’Albertine, nous semble à quelques mètres, à quelques centimètres distant de nous. Et l’âme qui est à lui de même. […] Je n’avais jamais vu commencer une matinée si belle ni si douloureuse. En pensant à tous les paysages indifférents qui allaient s’illuminer et qui la veille encore ne m’eussent rempli que du désir de les visiter, je ne pus retenir un sanglot quand, dans un geste d’offertoire mécaniquement accompli et qui me parut symboliser le sanglant sacrifice que j’allais avoir à faire de toute joie, chaque matin, jusqu’à la fin de ma vie, renouvellement solennellemente célébré à chaque aurore de mon chagrin quotidien et du sang de ma plaie, l’œuf d’or du soleil, comme propulsé par la rupture d’équilibre qu’amènerait au moment de la coagulation un changement de densité, barbelé de flammes comme dans le tableaux, creva d’un bond le rideau derrière lequel on le sentait depuis un moment frémissant et prêt à entrer en scène et à s’elancer, et dont il effaça sous des flots de lumière la pourpre mystérieuse er figée» (1602-1603)

4. «J’incline même à croire que dans ces amours (je mets de côté le plaisir physique qui les accompagne d’ailleurs habituellement, mais ne suffit pas à les constituer), sous l’apparence de la femme, c’est à ces forces invisible dont elle est accessoirement accompagnée que nous nous adressons comme à d’obscures divinités. C’est elles dont la bienveillance nous est nécessaire, dont nous recherchons le contact sans y trouver de plaisir positif» (1602)

5. «L’amour, sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné» (1358)

 

Diversa, diffusa, molteplice

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Un amore di Swann
di Marcel Proust
Traduzione di Giovanni Raboni
Drammaturgia di Sandro Lombardi
Con: Sandro Lombardi (Charles Swann), Elena Ghiaurov (Odette de Crécy), Iaia Forte (Madame Verdurin)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 19 maggio 2013

La volgarità è uno dei temi della Recherche du temps perdu.
Volgarità dei salotti, di una società che vive di snobismo, di pettegolezzi, di meschinità elevate al rango di significati. Madame Verdurin ne costituisce l’emblema. Charles Swann la descrive come un uccello le cui piume sono state bagnate nel vino caldo. Questa donna spregevole articola con i suoni appunto di un uccello il proprio odio per tutto ciò che non riesce a comprendere e che la supera.
Volgarità della seduzione. Della finzione d’amore volta soltanto al dominio sull’altro. Di dolci parole vibrate come pietre a colpire il cuore di chi le ascolta. E sottometterlo. Per poi -una volta ottenuto l’obiettivo di farsi sposare o mantenere- volgere la seduzione in insulto, tradimento, ironia. Odette de Crécy -prostituta d’alto bordo, ignorantella e fasulla- conquista in questo modo il tempo e il rango di Charles Swann.
Volgarità del desiderio. Che non si accorge di come stiano arrivando tempeste di sabbia nella vita, onde di polvere, a intasare la lucidità dei neuroni e la calma dei sentimenti. Charles Swann in verità se ne accorge, tanto da rispondere ai primi gesti seduttivi di Odette dicendole che non vuole conoscerla meglio “per non diventare infelice”. Ma cede poi alla menzogna di una donna della quale, molti anni dopo, dirà «j’ai gâché des années de ma vie, j’ai voulu mourir, j’ai eu mon plus grand amour, pour une femme qui ne me plaisait pas, qui n’était pas mon genre!» (À la recherche du temps perdu, “Du côté de chez Swann”, Gallimard 1999, p. 305).
I tre attori che danno vita a questa fenomenologia della ferocia alternano la voce del Narratore con quella dei personaggi, riuscendo in tal modo a trasmettere almeno un’idea della magnifica ricchezza del testo proustiano. Esso ci mostra che L’Altro è un pericolo, l’Altro è un concorrente, l’Altro è un fastidio, l’Altro è anche “l’enfer” (Sartre) ma questa differenza dell’Altro è così drammatica perché l’Altro è la nostra identità, l’Altro siamo noi. L’alterità è costitutiva della vita mentale. Un’alterità che nella vita amorosa diventa  identità. Il soggetto amoroso è un soggetto nichilistico in quanto vorrebbe eliminare la differenza duale a favore dell’identità unica. Ma l’altro rimane irriducibile. È altro perché non è io, è un io che non è me e che non potrà mai diventare me come io non potrò diventare lui. Se lo diventassi, lo annullerei. Se lo diventassimo, ci annulleremmo come alterità. Se infatti l’Altro fosse raggiunto, esso sarebbe negato in quanto Altro. Anche per questo, dato che la ripetizione amorosa è una ripetizione seriale (Deleuze), l’innamorato è un serial killer che opera in base ai due principi della ripetizione e della differenza.
Insignificanza, volgarità, nullità costituiscono la condizione naturale dell’Altro. È soltanto il desiderio di possedere il suo corpotempo -fatto di eventi e di memorie, assai più che il corpo fatto di organi e tessuti- a trasfigurare l’oggetto amoroso nella favolosa e asintotica meta della nostra passione. L’oggetto amoroso è dunque un segno. Un segno dell’intero al quale vogliamo pervenire, là dove la scissione tra il tempo che siamo e il tempo che è possa finalmente annullarsi nella totalità. «Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e  invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo» (Beckett, Proust, SE 2004, p. 41).
La dea del tempo innamorato è una sorta di Madonna del Desiderio. Appare con volti diversi, abita istanti diffusi, occupa luoghi molteplici. Swann la incontra sotto le specie di una cortigiana bella e feroce. È per Swann e tramite Swann che Odette assume la figura di una Dea sotto il cui incedere “si volgono i mondi”: «Tout d’un coup, sur la sable de l’allée, tardive, alentie et luxuriant comme la plus belle fleur et qui ne s’ouvrirait qu’à midi, Mme Swann apparaissait. […] Or, autant que du faîte de sa noble richesse, c’était du comble glorieux de son été mûr et si savoureux encore, que Mme Swann, majestueuse, souriant et bonne, s’avançant dans l’avenue du Bois, voyait comme Hypatie, sous la lente marche de ses pieds, rouler les mondes» (À la recherche du temps perdu, “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”, Gallimard 1999, pp. 503 e 506).

 

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