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Potere / Grottesco

Teatro Stabile –  Torino
L’ispettore generale
(1836)
di Nikolaj Vasil’evič Gogol’
Con: Alessandro Albertin (il sindaco), Luca Altavilla (Pëtr Ivanovic Dobcinski 1), Alberto Fasoli (il giudice), Emanuele Fortunati (Pëtr Ivanovic Dobcinski 2), Michele Maccagno (sovrintendente alle opere pie), Fabrizio Matteini (ispettore scolastico-commissario di polizia), Eleonora Panizzo (la figlia del sindaco), Silvia Paoli (la moglie del sindaco), Pietro Pilla (Osip), Alessandro Riccio (ufficiale postale), Stefano Scandaletti (Ivan Aleksandrovic Chlestakov)
Scene di Paolo Fantin
Costumi di Carla Teti
Regia di Damiano Michieletto
Sino al 9 marzo 2014

Un bar sporco e decadente in una cittadina sperduta da qualche parte nel mondo. Il televisore sempre acceso sul vaniloquio dello spettacolo. Il locale è abitato dal sindaco affarista e cialtrone, ben coadiuvato dal direttore ospedaliero, dal giudice, dal provveditore agli studi, dall’ufficiale delle poste. Se la vivono e se la spassano con i soldi pubblici, che si dividono con commercianti e appaltatori, intascando tangenti e scambiandosi favori.
Finché non si diffonde la notizia dell’arrivo dalla Capitale di un ispettore generale in incognito. Panico. Smarrimento. Organizzazione di piani per neutralizzare il funzionario. Prima di tutto il danaro, è ovvio. Si cercano i segni della presenza dell’ispettore e lo si identifica in un giovane squattrinato che da giorni è ospite in uno degli alberghi della città. Tutti si convincono che l’ispettore sia lui e lo riempiono di lusinghe, di soldi, di compiacenza, compresa quella della moglie del sindaco. Il fortunato soggetto sta naturalmente al gioco. Intasca tutto quello che può, promette di sposare la figlia del sindaco e se ne va con i soldi che ha racimolato. Sicuri di imparentarsi con un simile potentato, si fa una grande festa in discoteca, si beve e si sogna a più non posso. Sin quando un piccolo particolare fa emergere la verità. A questo punto la figlia del sindaco (che sino ad allora aveva subìto tutto con umiliazione) comincia a ridere e a impacchettare nel cellophane l’intera combriccola, immobilizzata nell’istante in cui dalla bocca di ciascuno vengono fuori delle banconote.
Il testo di Gogol’ è un’immagine immortale dell’umano infetto e complice. Questa magnifica messinscena ne esalta ogni fibra, ogni parola, ogni intenzione e ogni divertimento. Una spettacolare rappresentazione del potere nella sua essenza sempre grottesca, miserabile e corrotta.

Sesso / Denaro / Morte

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume
di Michel Garneau, da Fernando de Rojas
Traduzione di Davide Verga
Con: Giovanni Crippa, Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Fausto Russo Alesi, Maria Paiato, Licia Lanera, Fabrizio Falco, Lucia Marinsalta, Bruna Rossi, Lucia Lavia, Gabriele Falsetta, Riccardo Bini, Pierluigi Corallo, Angelo De Maco
Scene: Marco Rossi
Costumi: Gianluca Sbicca
Regia di Luca Ronconi
Produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 1 marzo 2014

celestinaTra il 1484 e il 1492 Fernando de Rojas compose il Libro de Calisto y Melibea y de la puta vieja Celestina, un lungo romanzo che il canadese Michel Garneau ha sfrondato e ha tradotto in francese dandogli come titolo Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume. Davide Verga ha tradotto in italiano la tragedia/commedia di Garneau. Luca Ronconi l’ha messa in scena.
Testi dentro altri testi, linguaggi dentro altri linguaggi. Da questo libro nacquero -ancor prima del Quijote– il romanzo e il teatro moderni. I tanti riferimenti alla classicità -Plauto in particolare-; alla morale del Medioevo -il peccato e la sua punizione-; al disincanto dal quale attinse anche Machiavelli; all’amore e al sesso; tutto questo si mescola, si altera, si trasforma in un trionfo del linguaggio ora raffinato e retorico ora immediato e plebeo. Allora come ora il denaro si mescola all’amore, dando prezzo a ogni desiderio. «I poveri non sono quelli che hanno poco ma quelli che desiderano molto», afferma uno dei personaggi. E un altro, riferendosi all’amore, esclama: «Che fatica, che seccatura, che piaga!». Da parte sua la puta vieja, la vecchia prostituta e mezzana Celestina pronta a servire gli ardori di ogni maschio o femmina e del diavolo stesso se necessario, dichiara che «può tutto il denaro, non c’è luogo così elevato che un asino carico d’oro non riesca a salirvi».
Ora Celestina è chiamata da Sempronio a guarire il suo padrone Calisto da un mortale fuoco che lo spinge verso Melibea, intravista per caso nuda in un giardino e da allora inchiodata nella mente e nei genitali di colui. La ragazza lo respinge inorridita, non ne vuol sapere. Ma le arti magiche e linguistiche di Celestina la gettano tra le braccia di Calisto. Dopo averla avuta, il giovane chiede a se stesso sconsolato «Sono felice?» e risponde «No». Torna certo più volte dalla sua dea, angelo e pollastra (così la chiama nell’ordine cronologico del dire) e addirittura muore per lei ma la felicità che cercava e della quale era sicuro, quella non l’ha avuta no.
Nella ricca e geometrica messa in scena di Ronconi gli innumerevoli incontri dei quali la commedia/tragedia è fatta -e che spingevano Gadda a chiedersi come sarebbe stato mai possibile «ridurre nella unità scenica le concomitanze multiple dell’azione, e le dislocazioni divergenti? la torre, le scale, il padre in giardino, lei in camera, il volo dalla finestra?» (Programma di sala, p. 18)-, gli ambienti così diversi in cui la vicenda si svolge, le strade, le scale, le siepi, i muri e tutto il resto, sono restituiti con porte che si innalzano d’improvviso sulla scena, botole da cui emergono letti e personaggi, distanze dalle quali precipitano i morti.
Le passioni, dunque, degli umani. Passioni per i soldi, passioni per la fessura, passioni per il membro verticale. Questo infinito sciabordare e la risacca che ne segue, la quale tutto con sé trascina sino alla successiva ondata di maroso, è ulteriore ragione di compatimento per l’umano. Mentre altri animali si piegano alla necessità della copula e della riproduzione della specie -e lì sembra finire- la nostra ha bisogno di condire con l’olio del sentimento la meccanica dell’accoppiamento per farla meglio scorrere. E scorre scorre infatti la morte dentro il nucleo stesso della vita appassionata.

 

United States of America

The Wolf of Wall Street
di Martin Scorsese
Con: Leonardo Di Caprio (Jordan Belfort), Jonah Hill (Donnie Azoff), Margot Robbie (Naomi Lapaglia), Kyle Chandler (Patrick Denham), Matthew McConaughey (Mark Hanna), Jean Dujardin (Jean-Jacques Saurel)
USA, 2013
Trailer del film

Nel fiume di parole, di urla, di sniffate, di risate, di orge, di azioni e di colori di cui questo film è fatto, c’è un’espressione che lo svela: «La Stratton Oakmont è gli Stati Uniti d’America». Lo afferma il fondatore e proprietario di questa società di brokeraggio in uno dei numerosi discorsi che rivolge al pubblico osannante e festoso dei cofondatori e degli impiegati. E in effetti è vero. Gli Stati Uniti d’America sono nati nel culto del successo professionale in quanto segno della salvezza ultraterrena, come Max Weber ha in maniera persuasiva dimostrato. E quando la benevolenza divina è passata in secondo piano, a dominare la cultura statunitense è rimasto il dollaro, sulle cui banconote è infatti scritto «In God we trust».
Il lupo di Wall Street non è soltanto un simbolo della borsa di New York e delle sue pratiche. Esiste veramente (lo si vede nella foto qui sopra), ha raccontato in un libro la sua storia, che Scorsese e Di Caprio trasformano in una delle rappresentazioni più allegre ed efficaci di quel culto del successo, di quell’orrore della medietà che da sempre distingue e segna la cultura statunitense. Di modestissime origini, Jordan Belfort esordisce come broker il 19 ottobre 1987, proprio il giorno del crollo di Wall Street. Alla ricerca di un nuovo lavoro, incappa in un’agenzia di scalcagnati venditori che cercano di piazzare penny stock, titoli assai economici ma ad altissimo rischio, titoli spazzatura insomma. Il suo successo di telefonista/venditore gli consente di creare una propria società -la Stratton Oakmont per l’appunto- e di arricchirsi enormemente, tanto da avere il problema di come spendere questi soldi. In droghe soprattutto, di qualunque genere e forma. In donne. In aerei, barche, gioielli, palazzi, feste.
Questa vita è raccontata da Scorsese in modo frenetico, esagerato, senza soste e senza misura. Un vero e proprio poema epico al dollaro e a tutto ciò che con esso si può raggiungere. Sino alla galera, anche, ma poi si ricomincia. Un eccellente Di Caprio -sempre più vicino al suo modello Jack Nicholson- è capace di restituire le sfumature più ambigue di un personaggio apparentemente monocorde ma in realtà fatto di tutti gli umori profondi e di tutta la follia esistenziale che intessono il «sogno americano». Il divertimento è assicurato, come il crimine. Ma è assicurato soprattutto il cinema. Non c’è qui altro che cinema, infatti. Nessun messaggio, nessuna redenzione o giustizia, nessun bisogno di riscatto o invito a migliorarsi. Nessuna condanna e nessuna giustificazione. Nessuna morale. Soltanto cinema.

Scrittura / Danza

Tre balletti senza musica, senza gente, senza niente
di Louis-Ferdinand Céline
(Testi scelti da Progrés suivi d’Œuvres pour la scène et l’ecran, Gallimard, 1988)
A cura di Elio Nasuelli
Archinto, 2005
Pagine 75

Alcuni testi di Louis-Ferdinand Céline sono ancora interdetti, maledetti, clandestini. Nel più famoso di essi, Bagatelles pour un massacre (1937), compaiono tre balletti che nessun impresario teatrale volle mettere in scena. Ecco perché si tratta di ballets sans musique, sans personne, sans rien. Ma i tre puntini ricorrono più frenetici che mai in queste trame esotiche nelle quali la danza ctonia e infinita dei popoli selvaggi, della natura primordiale, della lussuria, della gratuità e del dono si contrappone alla finta misura borghese, al trionfo del danaro, ai mariti che d’improvviso dimenticano «tutti i loro doveri!» (p. 30), ai notabili che come in un quadro di Bosch vanno dietro musiche ebbre e silenziose. Un catalogo antropologico feroce e dolente nel quale

tutti si mettono a ballare come possono…ciascuno alla sua maniera… Il giudice con i suoi condannati… Il giudice bello, rubicondo, i condannati magri magri, con le palle e le catene… le loro donne portano i riscatti… il vecchio avaro danza con gli ufficiali giudiziari, con i debitori rovinati… Il generale con i soldati morti in guerra, esangui, con gli scheletri e i mutilati di guerra tutti sanguinanti… Il professore con gli scolari mocciosi, le piccole pesti… dita nel naso… orecchie d’asino… Il grosso pappone con le sue puttane, le viziose, le donne di strada… Il droghiere con i suoi clienti derubati… i pesi falsi… le bilance truccate… Il notaio con le vedove rovinate… i clienti truffati… Il curato con le suorine allegre e i chierichetti pederasti… ecc. (36-37)

Tutti preda anche del Progresso, che si presenta nelle sembianze mostruose e sferraglianti del Fulmicoach, «il fenomenale antenato di tutti gli autoveicoli… L’antenato della locomotiva, dell’auto, del tram, di tutti i fulminanti marchingegni…», un «macchinario che viene dall’America» (56-57), dal luogo di quella riduzione dell’umano a cosa e a banconota che la narrativa di Céline ha saputo descrivere con una potenza non eguagliata. Una forza che qui si fa danza, letteralmente. Ballare contro «la guerra, la fabbrica, il colonialismo, il progresso» (Prefazione di E. Nasuelli, p. 6), questo ha sempre fatto la scrittura di Céline. Che anche per questo dal balletto era affascinato, avvolto.

Stucchevole

Il grande Gatsby
(The Great Gatsby)
di Baz Luhrmann
Con: Leonardo Di Caprio (Jay Gatsby), Tobey Maguire (Nick Carraway), Carey Mulligan (Daisy Buchanan), Joel Edgerton (Tom Buchanan), Jason Clarke (George B. Wilson), Isla Fisher (Myrthe)
Australia – USA, 2013
Trailer del film

 

Chi è Jay Gatsby? Chi è veramente? A raccontarlo è Nick Carraway in un testo scritto su consiglio del suo terapeuta per uscire dalla condizione di disagio psichico in cui si trova. Nick è stato vicino di casa di Gatsby (lui in una casetta, Gatsby in un castello incantato) ed è stato sopratutto l’unico vero amico, colui che in un momento di disperata speranza gli disse: «Tu sei migliore di tutti costoro. Tu sei pulito». Mentre gli altri vivevano in un’immensa noncuranza del prossimo, Gatsby aveva un sogno incorruttibile. Per raggiungere il quale organizzava feste sontuose alle quali poteva partecipare chiunque. Era un amore, naturalmente, a spingerlo. Amore per una donna che aveva costruito nella propria mente, a partire da pochi fugaci incontri. Come fanno tutti. La sua grandezza consistette nell’edificare un impero architettonico e finanziario all’unico scopo di poterla rivedere, incontrare.
I momenti migliori del film consistono nelle feste di Gatsby -anni Venti del Novecento- durante le quali si eseguono e ballano musiche techno del presente. Accade allora uno straniamento che interrompe un flusso tanto sovrabbondante di iconica frenesia quanto tradizionale nel tessuto narrativo. Gli effetti speciali si moltiplicano sino a diventare stucchevoli. Persino il barocco può essere noioso se non lo si sa dosare. In Baz Luhrmann l’artificio ha così la meglio sull’arte.
La perennità di questa storia consiste nel fatto che è una storia di soldi. Il danaro è più potente di ogni sentimento. Tranne che in Gatsby, il quale appunto per questo è the Great.

 

Madre / Capitale

Pietà
di Kim Ki-duk
Con: Cho Min-Soo (Mi-sun), Lee Jung-Jin  (Kang-do)
Corea, 2012
Trailer del film

In un fatiscente quartiere di una città coreana, Kang-do è un sicario specializzato nello storpiare i debitori di usura che non pagano il dovuto, in modo da poter incassare l’assicurazione. Svolge il suo lavoro con freddezza, immerso nella solitudine e in una profonda miseria esistenziale. Un giorno gli appare una donna che gli chiede perdono per averlo abbandonato appena nato, dichiarando di essere dunque lei la responsabile dei suoi crimini. L’uomo non le crede, la sottopone a varie prove sino a quando non è sicuro che la donna sia davvero sua madre. Comincia allora a non portare più a termine gli incarichi ricevuti e a non poter tollerare il pensiero che lei se ne vada un’altra volta. La madre scompare e riappare, forse vittima della vendetta di quanti sono stati sciancati da suo figlio. O forse no.
Un’apoteosi/descrizione dell’amore materno nelle sue forme più radicali. Una rappresentazione/metafora del capitalismo che distrugge i corpi e le vite di quanti da esso sperano lavoro, reddito, credito. Tutte le vittime si rivolgono al sicario definendolo un “diavolo che uccide promettendo danaro”. Due livelli apparentemente molto diversi della vita umana -innato l’uno, storico l’altro; intimo il primo, collettivo il secondo; biologica la maternità, economico il capitale- si fondono integralmente nella violenza della quale entrambi, maternità e capitalismo, sono intessuti. Alla domanda di Kang-do su che cosa siano i soldi, la madre risponde: «L’inizio e la fine di ogni cosa». Vincitore della Mostra del Cinema di Venezia 2012, quello del regista coreano è ancora una volta  un capolavoro nichilistico e mistico.

Esotiche vecchiaie

The Best Exotic Marigold Hotel
di John Madden
Con: Judi Dench (Evelyn), Tom Wilkinson (Graham), Bill Nighy (Douglas), Penelope Wilton (Jean), Dev Patel (Sonny), Celia Imre (Madge), Ronald Pickup (Norman), Maggie Smith (Muriel), Diana Hardcastle (Carol), Tena Desae (Sunaina)
USA 2012
Trailer del film

 

«Delocalizzare la vecchiaia» è il programma con il quale un giovane indiano di Jaipur intende rivitalizzare un albergo ormai decadente. Nel mondo occidentale gli anziani non contano più nulla, qui invece potranno diventare i protagonisti assoluti. Per attirare i primi clienti Sonny ritocca un po’ le immagini dell’hotel. A cadere nel benevolo inganno è un variegato gruppo di inglesi: un giudice in pensione, una coppia in crisi, due signore sole, un attempato casanova, una governante licenziata dopo aver speso l‘intera vita al servizio di una famiglia britannica. Nonostante l’iniziale sorpresa nel trovarsi in un luogo ben diverso rispetto a quello pubblicizzato su internet, queste persone si fanno quasi tutte avvolgere e travolgere “dal fascino dell’India”, luogo dove ciascuno cerca se stesso, vecchi ricordi, nuova vita.
Il rischio che un film del genere potesse cadere nell’esotismo di maniera era altissimo e non è stato evitato. Una cultura assai complessa come quella indiana e indù viene ridotta alle solite cartoline e a luoghi comunissimi. Si respira, inoltre, una greve atmosfera british nei rapporti tra gli ex colonizzatori e gli ex colonizzati. La bravura degli interpreti -tutti caratterizzati da una misura veramente anglosassone- e alcune riuscite battute nei dialoghi non riscattano l’evidente forzatura di tutta l’operazione, confermata dal lieto fine.

Per un regista e per degli sceneggiatori europei è forse semplicemente impossibile capire l’India e restituirne con un minimo di correttezza l’antropologia. Tra i dipendenti del Marigold Hotel c’è, ad esempio, una ragazza che appartiene ai “paria”, vale a dire agli infimi fuori casta. Bene, come si fa a rendere il significato e la peculiarità del sistema indiano delle caste da un punto di vista occidentale? Gli “intoccabili”, infatti, sono sì molto spesso ma non necessariamente dei “poveri”. Anzi, numerosi paria sono piuttosto ricchi. Ed è a volte il modo in cui hanno raggiunto tale ricchezza che conferma il fatto che si tratta di intoccabili. Un appartenente alla casta dei bramini può essere, invece, poverissimo ma viene giudicato un individuo superiore. Le caste esistono anche in Occidente e sono quasi altrettanto rigide. Solo che da noi il criterio di appartenenza all’una o all’altra è dato dal possesso del danaro e dall’esercizio del potere politico. (Una notazione personale: nel conversare attribuisco a volte ad alcuni uomini politici nazionali e a degli amministratori locali che conosco la qualifica di “miserabili e intoccabili”, pur essendo costoro ricchissimi tanto che al loro confronto sono un vero poveraccio. Mi ispiro, per l’appunto, al sistema indiano delle caste).

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