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Un elegante morire

Living
di Oliver Hermanus
Gran Bretagna, 2022
Con: Bill Nighy (Williams), Aimee Lou Wood (Margaret Harrisen), Tom Burke (Sutherland)
Trailer del film

Tratto dall’omonimo film di Akira Kurosawa (1952), scritto da Kazuo Ishiguro, interpretato da attori veramente british, primo dei quali il protagonista Bill Nighy, Living riesce a trasmettere il pulsare della vita in due strutture che sembrano negarla.
La prima è una burocrazia che gira a vuoto negli uffici del Comune di Londra formalmente inappuntabili ma di fatto pigri, incapaci, incompetenti, i quali respingerebbero all’infinito la semplice richiesta di alcune madri di trasformare un fatiscente cortile in un piccolo parco giochi per bambini. Parco che viene realizzato solo quando il responsabile dell’ufficio dei lavori pubblici, Mr. Williams, prende nelle mani e nel cuore la pratica e testardamente agisce, implora, ordina che il parco venga realizzato. La cosa appare ancor più stravagante in quanto Mr. Williams è una persona gelida, solitaria, riservata e priva di emozioni. Tanto che una giovane impiegata lo ha definito Mr. Zombi.
Il carattere di questo signore è il secondo elemento che sembra appunto negare ogni vita. Ma tutto muta quando Mr. Williams riceve una diagnosi infausta. È a quel punto, un punto temporale, che il bisogno animale di vita riemerge ed esplode – per quanto possa farlo nella Londra perbenista degli anni Cinquanta – attraverso decisioni, pratiche, relazioni, sorrisi, lacrime. La giovane collega precaria che lo ha definito zombi diventa la sua amica, confidente, complice.
Chi sta intorno a Mr. Williams, che a nessun altro confida il proprio male, non capisce che cosa stia accadendo. Ma è bastata la tenacia che conduce alla realizzazione del parco giochi per fare di quest’uomo e della sua memoria un movimento ancora vivo nell’altalena che oscilla sotto la neve e sulla quale il film si chiude.
Un racconto esistenziale narrato al modo dei vecchi film: raffinato, cromaticamente irrealistico, capace di andare senza pregiudizi e senza mode (uno dei rari film contemporanei in cui non appaiono neri, militanti gender e omosessuali) al cuore della vita, della sua precarietà assoluta, del suo esserci come attesa e come memoria, come futuro che nel presente si fa passato.

Brazil. Terrorismo e burocrazia

Brazil
di Terry Gilliam
USA, 1985
Con: Jonathan Pryce (Sam Lory), Kim Greist (Jill Ayton), Michael Palin (Jack Lint), Ian Holm (Kurtzmann), Robert De Niro (Archibald Tuttle), Katherine Helmond (Ida Lowry). Bob Hoskins (Spoor), Ian Richardson (Warren), Jim Broadbent (Il Dottor Jaff)

Uno degli oppositori -definito naturalmente terrorista viene investito da fogli su fogli che mulinano al vento e che lo coprono interamente. Forse viene proprio ucciso dalle carte. Moduli su moduli, uffici su uffici, commi su commi, code su code. Un delirio burocratico minuzioso e bizzarro cerca di rendere razionale, organizzato ed efficiente l’arbitrio più feroce e la violenza più cruda del sistema totalitario, vale a dire del potere finalmente svelato a se stesso, nella sua effigie, sostanza, scopo ed essenza. Il potere di 1984, al quale il film molto liberamente si ispira.
La burocrazia come lifting, dunque. Lo stesso lifting che cerca di nascondere la decadenza di alcune vecchie signore amiche del regime e che invece le riduce alla fine a maschere orrende e a cadaveri liquefatti. Ma a loro si dice che devono stare tranquille, il problema avrà presto soluzione. Il Natale disneyano nel quale il film è immerso è la conferma delle tesi di Adorno sulla complicità tra ottimismo e barbarie. La citazione della scena/scalinata della Corazzata Potëmkin è un altro tassello ancora di questo doloroso itinerario nell’assurdo della iperrazionalizzazione.
Grottesco, postmoderno e visionario, Brazil è un incubo. Alla lettera.

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