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Antropologia italica

Il capitale umano
di Paolo Virzì
Con: Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi), Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola), Fabrizio Gifuni (Giovanni Bernaschi), Matilde Gioli (Serena Ossola), Valeria Golino (Roberta Morelli), Luigi Lo Cascio (Donato Russomano), Bebo Storti (l’ispettore), Gianluca Di Lauro (il ciclista), Giovanni Anzaldo (Luca Ambrosini), Gugliemo Pinelli (Massimiliano Bernaschi)
Italia, 2014
Trailer del film

Capitale_umano_Dino_OssolaLe parole sono il mondo, si sa. Definire un ente e un evento in una maniera o in un’altra significa conferirgli una diversa realtà. Nell’epoca dell’ultraliberismo vincente e di sinistra -da almeno vent’anni- uomini e donne che lavorano sono diventate delle risorse umane, la fine dei finanziamenti a fondamentali bisogni sociali si chiama spending review, la subordinazione della politica alla finanza ha preso il nome di governamentalità, le più squallide operazioni di potere e una miriade di intrallazzi vengono definite responsabilità. E così via nello schifo che soltanto il servilismo dei giornali e dei giornalisti di proprietà delle banche e dei partiti può trasformare in profumo.
Questo in tutto l’Occidente e, di fatto, nel mondo. In Italia, solita fortunata, si aggiunge da vent’anni la presenza di un bandito ricattato e ricattatore, le cui televisioni -come Pasolini ben aveva previsto- hanno trasformato non soltanto il vivere sociale ma assai più a fondo l’antropologia di questo popolo, il quale possedeva già comunque tutte le condizioni per diventare ciò che è. Tale popolo ha infatti per due volte nello stesso secolo dato credito e gloria a due scaltri buffoni carismatici come Mussolini e Berlusconi. Il risultato è un modo di esistere e di pensare che il film di Virzì ben esprime attraverso una storia brianzola (la Brianza di Carlo Emilio Gadda!) intrisa di ferocia, di tracotanza, di culto verso il denaro, di dissoluzione di ogni legame sociale, di provincialismo e soprattutto di volgarità. Una volgarità culturale (nel senso antropologico) incarnata da due magnifici attori che interpretano -rispettivamente- la cialtroneria del piccolo imprenditore che vuole diventare ricco in poco tempo (Dino Ossola) e l’elegante spietatezza di uno squalo della finanza (Giovanni Bernaschi).
Assistendo alla progressiva parabola discendente di questi e degli altri personaggi ho goduto, augurando a tutti i loro emuli e consimili nella vita reale il medesimo destino.  Il loro personale «lieto fine» con il quale il film si chiude è, certo, l’ammissione della sconfitta di una giustizia più alta di quella del diritto, l’ammissione del fatto che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214) ma è anche la conferma della nullità assoluta di queste vite, degne soltanto di disprezzo. Lo stesso disprezzo che meritano gli italiani.

 

Arcaici / Ora

Gran parte delle moderne esegesi sui pensatori delle origini derivano da Aristotele e da Teofrasto, poiché la stessa dossografia greca trae dai due peripatetici le proprie informazioni, i testi, gli schemi. Il problema consiste nel fatto che Aristotele e la sua scuola sono molto lontani dalla dimensione dionisiaca, misterica, iniziatica che è propria del pensiero greco arcaico. Giorgio Colli sgombera anzitutto il campo da questa lettura per poi affidarsi alla propria sensibilità filologica e alla guida dei pochi che avrebbero «compreso qualcosa di vitale della Grecia»: Nietzsche e Burckhardt (La natura ama nascondersi. Φυσις κρυπτεσται  φιλει, Adelphi 1998 [I ed. 1948], p. 14). Che cosa questo significhi è ben esemplificato dal ritratto che emerge di Empedocle, assai vicino a ciò che Nietzsche è stato nella contemporaneità: «Il dramma è recitato con una maschera inalterabile, un sorriso melanconico e staccato accompagna la rivelazione delle verità più strazianti» (214). Più in generale, la grandezza dei filosofi arcaici è consistita in alcuni elementi che essi hanno posseduto in sommo grado, che Platone ancora conserva e che dopo di lui andarono perduti per riapparire ancora una volta al tramonto del mondo classico, con Plotino. Con quest’ultimo, infatti, «uno squarcio soltanto di vita presocratica basta a chiudere degnamente la grecità» (33).
Fra tali elementi, sono importanti la distanza, la libertà, l’interiorità, il dionisiaco.
Ciò che Nietzsche chiama pathos della distanza e gusto del gioco costituisce la radice della grandezza greca: «Il senso del distacco, l’essere sempre al di fuori di fronte a ciò che si presenta, l’opporsi ad ogni trascinamento e ad ogni livellamento» (22). Chi -come Protagora- proclama l’eguaglianza degli uomini si pone totalmente al di fuori dell’ellenismo più profondo. È per questo -per la sua vicinanza agli arcaici- che Platone è così ostico verso l’illuminismo democratico, «che tollera soltanto nel maestro», in Socrate (262).
Una libertà politica senza confronto permise ai primi filosofi greci di affermare delle verità terribili, di porsi con alterigia verso il potere e verso il demos, e ciononostante di vivere ancora: «Nessuna potenza terrena tollerò in seguito alcunché di simile» (24).
L’interiorità di questo mondo si esprime per Colli proprio in quella parola -φυσις- che la scuola aristotelica interpretò come principio materiale e che invece andrebbe letta come «interiorità noumenica» (179).
Del dio che sempre muore e sempre riappare nella sua gioia strabordante, nella sua passione tragica per la vita e per le cose -di Dioniso- tutto il pensiero arcaico è intriso. Per queste ragioni il giovane Platone è per Colli l’ultimo pensatore delle origini: «La sua teoria delle idee nasce ora come traduzione espressiva dell’esperienza dionisiaca che l’ha portato alla solitudine. La realtà ultima delle cose deve essere costituita da essenze αυτά καθ’αυτά, ossia da individualità perfettamente indipendenti, prive di ogni limitazione fenomenica, pure verità interiori, viventi una vita solitaria» (264).
Se tale è stato il mondo greco arcaico, due nomi ne riassumono la pienezza e il tramonto: Parmenide e, appunto, Platone. Il primo rappresenta un’oggettività senza cedimenti, una natura talmente piena di sé da vedere nel potere politico soltanto una forma infima dell’essere; il secondo prosegue e porta a compimento la vicenda e la forma del “maestro venerando e terribile” ma poi cede di fronte alla sua stessa altezza e finisce schiavo della passione e delle contraddizioni politiche. Parmenide fu quindi «staccato in una sfera eterogenea ad ogni espressione, autosufficiente e senza desiderio» (166). Platone colse il frutto di tanta potenza nel cammino filosofico che dal Fedone lo porta al Simposio passando per il Fedro. Poi però «concreto e sereno come nel Simposio egli non sarà più, perché qui soltanto raggiunge il suo fragile punto di equilibrio, e dovrà in seguito fatalmente scendere la china dell’astrazione. Un miracolo del genere è unico nella storia dello spirito» (289).
La  forza di Colli consiste nello sguardo profondo ed empatico del filosofo capace di trarre alla luce e rendere vive le parole di una sapienza antica. Il suo limite sta nella difficoltà che tuttavia emerge di unire sino in fondo il rigore filologico con l’approccio teoretico. È ciò che a Colli riuscirà comunque più tardi, allorché il lavoro critico su Nietzsche gli consentirà un cammino a ritroso da questi a Schopenhauer, a Spinoza, a Eraclito-Parmenide, per cogliere nell’anello del ritorno anche il ritorno della sapienza arcaica nel cuore della modernità all’apparenza più romantica e invece -nella sua essenza- dionisiaca, o almeno del dio ancora una bella maschera.

Burckhardt, la storia

Sullo studio della storia
(Uber geschichtliche Studium [Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1868-1873])
di Jacob Burckhardt
Trad. di Mazzino Montinari
Boringhieri, 1958
Pagine 310

In queste sue lezioni pubblicate postume nel 1905 -anche con delle manipolazioni1– Burckhardt rifiuta le concezioni storicistiche che interpretano il divenire storico come lo sviluppo progressivo di un’idea, di un valore, di una qualsiasi Provvidenza. Cerca, piuttosto, di vedere la storia nella sua più concreta e non garantita empiria, a partire comunque da tre grandi concetti: stato, religione, cultura.
Lo stato e la religione sono per Burckhardt elementi statici, di controllo, alla fine sempre oppressivi. La cultura, invece, è la dimensione dinamica, libera, viva e costantemente nuova. Essa è «la quintessenza di tutto ciò che si è formato spontaneamente per promuovere la vita materiale e come espressione della vita spirituale e morale» (pp. 42-43). In quanto tale, essa costituisce la critica delle altre due strutture, «l’orologio che rivela l’ora in cui la forma e il contenuto in esse non coincidono più» (74).
Attraverso ampie pennellate ed efficaci excursus, Burckhardt enuncia una serie di tesi che saranno condivise e rielaborate da Nietzsche, il quale in uno dei biglietti del 4 gennaio 1889 definì il collega basileese «il nostro grande, più grande maestro»2. Tra queste tesi: il pluralismo metodologico; la Grecia come il luogo dove cultura e arte hanno avuto i migliori esiti, senza che però questo implichi la romantica e «fantastica predilezione per una antica e idealizzata Atene» (151); il cristianesimo come tipica religione dei passivi e dei dogmatici, che non è stata nemmeno capace di migliorare la condotta morale dei suoi adepti; il riconoscimento del conflitto come elemento dinamico della storia; la critica alle società massificate, i cui membri si adeguano sempre a chi meglio garantisce loro «tranquillità e guadagni» (239). Alle masse Burckhardt contrappone le «individualità possenti [che] si impongono e indicano le direzioni» (80-81).
Oscillando tra pragmatismo e metafisica, disincanto e progetto, Burckhardt si pone alla confluenza di numerosi itinerari della cultura e del pensiero moderno. Lo studioso riservato, il silenzioso maestro, insegna a Nietzsche «che in generale non si valuti la vita terrena più di quel che merita» (193). Era la stessa convinzione di Platone: «Certo è vero che le vicende umane non meritano poi una grande considerazione, ma è anche vero che bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato»3. Questo compito è la storia.

Note

1. Nel 1998 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione, presentandola con queste parole: «Le lezioni che Burckhardt tenne all’Università di Basilea tra il 1868 e il 1873, uno dei momenti salienti della moderna riflessione storiografica. Condotta sui manoscritti originali, la nuova edizione a cura di Maurizio Ghelardi restituisce gli appunti dello storico svizzero alla loro vera natura, facendo giustizia delle deformazioni nate dalle precedenti manipolazioni e riproducendo le frequenti osservazioni critiche che Burckhardt annotava in margine ai fogli».

2. F. Nietzsche,  Briefe. Januar 1887 – Januar 1889, in «Nietzsche Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe», herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vol. III/5, de Gruyter, Berlin-New York 1984, lettera 1245, p. 574. Nel recente quinto e ultimo volume della traduzione italiana dell’Epistolario (Adelphi, 2011) la lettera si trova a p. 889.

3. Platone, Leggi, 803 a, trad. di R. Radice.

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