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Scodinzolare

Piccolo Teatro Grassi – Milano
Cuore di cane 
Libera versione teatrale di Stefano Massini, dal romanzo di Michail Bulgakov
Regia di Giorgio Sangati
Con: Paolo Pierobon (Pallino), Sandro Lombardi (Preobražénskij), Giovanni Franzoni (Bormentàl), Lucia Marinsalta (Zina), Bruna Rossi (Darj’a), Lorenzo Demaria (Commissario del Popolo)
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Coproduzione Compagnia Lombardi Tiezzi
Sino al 10 marzo 2019

«Vecchiaia! Decadenza! Morte! Tutto questo finirà!» proclama il Professor Preobražénskij tessendo l’elogio dell’ipofisi (strana ma anche emblematica eco cartesiana), ghiandola della quale ha scoperto le proprietà ringiovanenti, che cerca di applicare alla facoltosa clientela di moscoviti che nel 1925 poteva ancora permettersi di spendere danaro per ciò che poi sarà chiamato chirurgia estetica. Preobražénskij tenta l’esperimento definitivo sostituendo l’ipofisi di un cane randagio con quella di un giovane umano appena giustiziato. È convinto che in questo modo il cane Pallino tornerà a essere un cucciolo. Accadrà invece qualcosa che né Preobražénskij né altri avrebbero potuto immaginare. A poco a poco il cagnolino subisce la metamorfosi che lo trasforma in umano.
La fisicità totale di Paolo Pierobon riesce a farci vedere tale metamorfosi attraverso gesti, posture, movimenti che sono ancora quelli di un cane e che sono già quelli di un umano; riesce a farci udire questa trasformazione nella continuità di suoni che escono dalla bocca dell’attore e che sono insieme guaiti, latrati, abbai, lamenti, pianti, esclamazioni, parole.
Parole sì. Al centro di Собачье сердце c’è il linguaggio, l’educazione al linguaggio, la potenza del linguaggio, la menzogna del linguaggio, la violenza del linguaggio, la magia del linguaggio. Pallino diventa Poligraf Poligrafovič Pallinov quando si trasforma in Ζῷον λογιστικόν, in animale che parla utilizzando simboli atti a mostrare e insieme a nascondere, a manifestarsi e a ingannare.
Tra l’ingiustizia della vecchia società zarista e la violenza della nuova società comunista, tra il bon ton borghese e il dogmatismo sovietico, tra l’avidità e la scienza, tra Pinocchio e l’Intelligenza Artificiale, «Bulgakov sembra chiedersi (e chiederci): quando la finiremo di chiudere gli occhi sui baratri immondi di questa umanità sovrana, sempre celebrata e giustificata in nome della sua eccellenza razionale? Siamo davvero così degni di una corsia preferenziale? Non è che magari un cane (oppure un cavallo, avrebbe detto Tolstoj) mantiene più dignità nel suo status animale senza dover essere per forza promosso al blasone degli uomini?» (Stefano Massini, Programma di sala, p. 16).
Laureato in medicina, Bulgakov conosceva bene la fecondità e l’artificio, la follia e la necessità della pratica medica sui corpi, sempre ripetuta e sempre fallita, perché alla lunga i corpi muoiono. Il bastione insuperabile dell’essere per la morte produce da millenni metodi, sogni, progetti, religioni, protocolli, trapianti, criogenesi, clonazioni, conservazione degli organismi nell’azoto liquido, trasposizione della mente nelle macchine inorganiche, entusiasmo fideistico verso l’Artificial Intelligence. Tutto pur di non morire, di poter ancora respirare, vedere la luce, subire i colpi della sorte, trovare qualche istante di autentico gaudio. Tutto pur di scodinzolare all’arrivo di un nuovo giorno. Una vita da cani.

Le masse viziate

La ribellione delle masse
di José Ortega y Gasset
(La rebelión de las masas, 1930)
Trad. di Salvatore Battaglia
Il Mulino, 1984
Pagine 211

Il pensiero di Ortega y Gasset (1883-1955) oscilla tra due poli complementari: la fenomenologia dell’esistenza quotidiana e lo scavo nel profondo delle strutture storico-culturali. Con questi strumenti ermeneutici Ortega elabora analisi originali e suggestive sulle radici in cui gli eventi affondano e riesce ad anticipare gli sviluppi successivi di tendenze culturali e movimenti sociali.
Un risultato di tale metodo è la descrizione lucida ed essenziale dell’improvvisa comparsa dell’uomo-massa, il quale è un nuovo tipo antropologico privo di ciò che caratterizza da sempre le minoranze che hanno guidato lo sviluppo culturale e sociale dell’Europa: intelligenza innata e coltivata, ordine esistenziale, progetto sul futuro. L’uomo-massa, invece, vive nella e della uniformità più assoluta, è avverso a ogni slancio, idea, forma d’azione che non sia quella di una conformistica volgarità elevata a valore. Per il filosofo spagnolo bisogna partire dal fatto evidente che «la società umana “è” aristocratica sempre, voglia o non voglia, per la sua stessa essenza. […]  Ben inteso che parlo della società e non dello Stato» (p. 40). Aristocrazia intesa come vita coraggiosa che sopporta con fermezza il dramma dell’esistenza, posta sempre a oltrepassare se stessa -come voleva anche Nietzsche-, sostenuta dalla coscienza delle radici culturali e dalla loro incarnazione nel presente, volta a edificare la possibilità di sviluppi futuri. Questo è per Ortega l’uomo civile nei cui confronti l’uomo-massa, generato da un abnorme e velocissimo accrescimento demografico, «è un primitivo, un Naturmensch emerso in mezzo ad un mondo civilizzato» (100).

La ribellione delle masse, e cioè la loro presa diretta del potere, ha una valenza doppia e divergente: essa può «costituire un transito a una nuova e singolare organizzazione della Umanità; però può anche diventare una catastrofe nel destino degli uomini» (97). Una consapevolezza, questa, della complessità dei fenomeni sociali che evita a Ortega di rimanere in un ambito puramente reattivo e conservatore. Non è infatti la modernità in quanto tale a costituire il pericolo ma la modernità totalitaria che si andava affermando (il libro è del 1930) nei più tipici movimenti di uomini-massa, il fascismo e il bolscevismo, i quali vengono definiti come «due pseudo-aurore; non portano il mattino di domani, ma quello di un giorno antico, già sorto più di una volta; sono primitivismo» (116).
Rispetto a essi, il filosofo prende risolutamente e con troppa fiducia le parti del liberalismo, auspicando una rivitalizzazione di ciò che definisce come «il più nobile appello che abbia risuonato nel mondo» (96). Le motivazioni di un giudizio tanto elogiativo sono significative di una posizione che rimane comunque assai lontana dal culto della soggettività finanziaria e sprezzante verso l’interesse comune, alla quale fanno riferimento molti sedicenti liberali contemporanei. Infatti per Ortega «il liberalismo è il principio di diritto pubblico secondo il quale il potere pubblico, nonostante che sia onnipotente, limita se stesso e procura, anche se a proprie spese, di lasciar posto nello Stato ch’esso dirige perché vi possano vivere coloro che non pensano né sentono come lui, cioè come i più forti, come la maggioranza» (Ivi). Si vede bene come l’individuo che qui viene difeso non sia il caimano della finanza e della politica ma colui che non segue i dettami della moltitudine soltanto perché è la moltitudine a dettarli. Colui che cerca di pensare e di essere da sé, insomma, e non come la potenza della struttura sociale vorrebbe che pensasse e che fosse. Ne consegue un’esplicita e severa critica alle pretese dello Stato etico di porsi come fonte di ogni principio e possibilità umana: «Lo “statismo” è la forma superiore che assumono la violenza e l’azione diretta costituite a norma. Attraverso e per mezzo dello Stato, macchina anonima, le masse agiscono da se stesse» (144).
Questa difesa dell’individuo dal potere della massa viene articolata nell’analisi di fenomeni anche diversi tra di loro ma accomunati da miopia intellettuale, interesse puramente economico, rozzezza esistenziale: la scienza ridotta a iperspecialismo e dominio della tecnologia; la politica intesa come prevaricazione della violenza volgare e della più smaccata menzogna; l’affermarsi di una psicologia collettiva da bambini viziati, da «signorino soddisfatto» (119).

Ma in che cosa consiste, davvero, la ribellione delle masse? Non è stato sempre anche il numero a contare nei fatti e sui destini dei popoli? Qual è il significato di questa critica a ciò che molto più semplicemente si può chiamare “democrazia”? Le risposte di Ortega sono pacate e plausibili. Non si tratta prima di tutto di optare per l’una o l’altra forma di governo ma di limitare quanto più è possibile il potere. E il potere più grande e pericoloso è per lui oggi -nel 1930 ma l’analisi può in parte valere per il presente- quello delle masse eterodirette da individui tracotanti per fini autoritari travestiti da progresso. Il concetto orteghiano di massa non è in primo luogo sociologico o storico ma esistenziale: «anche per una sola persona possiamo sapere se è massa o no. Massa è tutto ciò che non valuta se stesso -né in bene né in male- mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri» (34). Anche da qui prenderà avvio il grande libro che Elias Canetti dedica alle masse (Massa e potere, 1960), del tutto diverso rispetto a quello di Ortega ma consonante almeno in questo, nel riconoscimento della uniformità come elemento fondante della massa, che disprezza d’istinto la differenza a favore di una passiva identità.
L’affermazione più radicale ma anche più realistica che il libro formula è forse questa: «Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto alla volgarità e la impone dovunque» (37). Credo che qui Ortega y Gasset abbia visto il nostro presente.

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