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Sapienza hegeliana

Non è soltanto alla trascurabile componente biologica del mondo che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, dell’entropia, della metamorfosi, del divenire.
La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel tentativo, destinato sempre allo scacco, che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte: 

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»
«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»
(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, Milano 2008, p. 363).

Il fondamento di questo tentativo, insieme biologico e metafisico, abita nella necessità del negativo.
Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:
«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»
«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»
(Die Phänomenologie des Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27; trad. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26).
Questa è la struttura dell’essere, questa è la struttura del tempo.

Enrico M. Moncado su Krisis

Enrico M. Moncado
L’epidemia racconta il collasso di un mondo già devastato
(il manifesto, 3.12.2020, p. 11)

Enrico Moncado ha dedicato a Krisis. Corpi, Confino e Conflitto una densa analisi che delinea una critica argomentata dei dispositivi di obbedienza generati dall’epidemia da Sars2.
L’autore sostiene che «è questo “approccio quantitativo al mondo” insieme al dissolversi dei corpi, degli spazi, delle relazioni, della didattica che i tanti Don Abbondio (studenti, docenti, intellettuali, politici) hanno voluto celebrare “proteggendo” la nuda vita. La vita che non conosce altro all’infuori di se stessa, la vita che è costante terrore della morte: “Il dispositivo fondamentale dell’autorità tirannica è infatti ed esattamente la paura della morte che diventa pensiero ossessivo del decesso”.
Un eccesso di fredda razionalità ha tradotto la vita collettiva in irrazionali conflitti davvero lontani da un pensiero critico e plurale. Quest’ultimo è infatti sempre comprensione qualitativa e anche quantitativa delle forze che intessono di senso ogni accadere; poiché la critica, se è veramente tale, è un esercizio di necessaria giustizia esterno a ogni atteggiamento di obbedienza».

[L’immagine è di George Marazakis ed è stata pubblicata sul numero 73 di Gente di Fotografia]

Lucrezia Fava su Animalia

Lucrezia Fava
Il limite è condizione delle forme di esistenza (il manifesto, 18.11.2020, p. 11)
Animalia (Vita pensata, n. 23 – novembre 2020)

In questi due testi Lucrezia Fava ha inserito con lucida vivacità Animalia all’interno del mio percorso teoretico, mostrandone continuità e radici, offrendo un quadro coerente e completo del libro. Di ampiezza diversa ma di pari profondità, le due riflessioni si possono leggere, oltre che in pdf, anche nei siti delle rispettive testate:
Il limite è condizione delle forme di esistenza | il manifesto
Animalia | Vita pensata

«La superficie, lo strato più sottile di Animalia, contiene una sintesi filosofica dei principali risultati prodotti in ambiti di ricerca più o meno recenti. Sensismo, biologia, emergentismo, psicologia della Gestalt hanno ridato vita, senso, centralità al corpo e all’unità del corpomente. Darwin “ha mostrato il comune fondamento bio-ontologico di ogni specie” (40), ovvero come tutte le specie viventi si adattino all’ambiente in cui risulta possibile la loro esistenza e come tutte presentino un proprio processo ontogenetico e filogenetico in risposta a fattori ambientali specie-specifici. L’etologia, l’ecologia, la paleoantropologia confermano che per definire il profilo umano è necessario studiare le analogie tra la nostra animalità e quella delle altre specie, quindi i processi tipici della vita animale nel suo rapporto con l’ambiente. La rivoluzione del DNA arcaico, oggetto dell’archeogenetica, ha dimostrato che Homo sapiens è una specie ibrida proveniente dagli incroci genetici tra Sapiens e Neanderthal, perciò potrebbe essere opportuno raggruppare anche gli esseri umani in razze diverse. L’ermeneutica filosofica di Heidegger, spiegando come la nostra identità consista nell’essere coscienti che il tempo è fondamento e limite universale di tutti gli enti, anche dell’ente umano, implica che non possiamo trovare alcuna giustificazione ontologica per le diverse gerarchie che noi stabiliamo tra gli enti. […].
Al contrario, una visione lucida, realistica, fondata della natura umana riconosce in essa, insito nelle sue stesse dinamiche, il rischio del fallimento. In quanto umani, siamo destinati alla possibilità del fallimento, cioè della rovina irrimediabile della nostra specie – rovina che trascina con sé, in qualche misura, altre realtà con cui Homo sapiens è in rapporto. Trovandoci in questa condizione ontologica, possiamo sì, frenare la caduta e imparare a rialzarci, ma non possiamo eliminarla e assicurarci la perfezione di un’esistenza senza limite, senza finitezza, senza corruzione, senza l’angoscia e il dramma per ciò che, inevitabilmente, ci manca».

Sulla violenza

Wolfgang Sofsky
Saggio sulla violenza
(Traktat über die Gewalt, Fischer Verlag, 1996)
Trad. di B. Trapani e L. Lamberti
Einaudi, 1998
Pagine 196

Perché la violenza dell’uomo contro altri uomini, contro le cose, contro la natura è così costante nel tempo, così presente nei contesti storici più diversi, così pervasiva della condizione umana? A una domanda tanto diretta e centrale molte etiche e antropologie della modernità rispondono con le varie forme del riduzionismo storico. Per esse, infatti, il male è qualcosa di contingente, nato nel tempo storico e quindi nel tempo storico superabile. Il libro di Wolfgang Sofsky ha il merito di dimostrare che invece «la violenza è il destino della nostra specie. Ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi, l’efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante» (p. 193).
Se vogliamo capire, dobbiamo partire dalla corporeità che tutti ci accomuna, al di là delle differenze nello spazio, nel tempo, nella ricchezza e nell’intelligenza. La società si fonda sui corpi e sul loro bisogno di nutrirsi e di difendersi. Un’antropologia davvero materialistica non può non riconoscere che «il corpo non è una parte dell’uomo, bensì il centro della sua costituzione» (53). Il corpo è sempre sottoposto al rischio di diventare vittima della violenza altrui ma può trasformarsi esso stesso in un’arma volta a distruggere gli altri. In effetti, chi volesse eliminare tutte le armi dal mondo non dovrebbe svuotarlo solo di ogni oggetto ma dovrebbe trasfigurare l’uomo stesso in un ente incorporeo.
L’insieme dei corpi uniti alla difesa forma la società. Essa nasce insieme ai tabù, ai divieti, alle leggi tese a salvaguardare la comunità umana, a impedire la violenza della condizione di natura: «la società è una misura preventiva di reciproca difesa» (5). E tuttavia la società genera un ordine che implica anch’esso l’utilizzo sistematico della violenza: «la violenza crea caos e l’ordine crea violenza. Questo dilemma è irrisolvibile» (5). Il potere nato per limitare la violenza la innalza invece a livelli assoluti. Sta anche qui il vicolo cieco della storia umana.

L’insieme delle tecniche giuridiche, etiche, sociali, religiose tese a tenere la violenza sotto controllo è ciò che chiamiamo cultura/civiltà (Kultur). E tuttavia in nome di valori come lo stato, la sicurezza, il dio, la violenza si moltiplica, si radicalizza, giustifica se stessa come strumento del Bene, dell’Unità, della Giustizia. Dove dominano dei valori assoluti altrettanto assoluta si fa la violenza. La difesa del Valore sacrifica le Vite, le immola a un principio più importante, le immola all’Etica.
L’assolutizzazione dei valori genera l’utopia. In suo nome e per suo conto la violenza si scatena senza più alcun freno. Nulla può opporsi alla speranza della Perfezione. Ogni sacrificio dell’oggi è benedetto in nome della gioia di domani. Gli epigoni secolari dei preti fanno della storia lo spazio dell’assoluto e in nome del Bene sono disposti a uccidere un numero sterminato di vittime. «Il terrore rivoluzionario accade nel segno della virtù, della ragione o della giustizia. Il totalitarismo moderno propaga la completa uguaglianza sociale o l’omogeneità razziale e inevitabilmente sfocia nello sterminio dell’uomo. Il sogno dell’assoluto partorisce violenza assoluta» (191). Ogni progetto rivoluzionario che è riuscito a prendere il potere ha esasperato la violenza, conferendole una dimensione salvifica tesa ad annullare ogni possibile critica.
Corporeità, società/Stato, Kultur e utopia sono intessuti di violenza. Una tale pervasività non può essere compresa né spiegata con motivazioni soltanto economicistiche, sociologiche, contingenti: «nonostante tutti gli sforzi morali, tutte le fatiche per domare la brutalità il male è eterno. Gli strati più primitivi dell’anima sono ciò che è realmente immortale» (194).
La violenza, infatti, soddisfa alcuni dei desideri più specifici e profondi dell’essere umano. Ciò che di solito viene letto come espressione di patologie individuali, di fanatismo collettivo, di arretratezza storica, di lotta ideologica -la crudeltà infanticida di Gilles de Rais, le torture delle Inquisizioni cattoliche o staliniste, i pogrom, le lotte fra gladiatori, i massacri di civili durante le guerre, gli autodafé e molto altro- ha alla sua radice l’illusione di onnipotenza che nasce dal dare la morte, dal sopravvivere agli altri. Ecco perché «la crudeltà non ha un fine. Non ha alcun altro senso oltre se stessa» (41); il suo senso, infatti, è la perpetuazione dell’atto di dominio con il quale il sopravvissuto gioisce dell’esserci ancora, esulta del potere assoluto che gli conferisce il dare la morte. Ed è qui che l’intuizione freudiana, l’Unbehagen della Kultur mostra la sua fecondità euristica: «la cultura è lo sforzo vano di superare la morte. Essa ha la medesima radice della violenza assoluta: la megalomania della sopravvivenza […] Il mostruoso sogno di dominare la morte partorisce solo mostri. La violenza è inerente alla Civiltà [Kultur, qui mal tradotto con “cultura”]: è completamente plasmata dalla morte e dalla violenza» (185 e 188).

Soltanto un’antropologia negativa può comprendere davvero cosa si muove dietro le quinte del teatro della storia, può smascherare quella «superstizione dell’ottimismo» (184) che in nome di speranze assolute ha fatto del Novecento il secolo dello sterminio: «il ventesimo secolo infine non sperimentò solo un immenso progresso delle tecniche belliche, ma anche il costante incremento dell’uso della tortura, nelle guerre grandi e piccole, nelle camere di tortura delle dittature e dei regimi di occupazione, nei campi di concentramento del totalitarismo […] Alla fine della civilizzazione l’impeto creativo della crudeltà è giunto a un momentaneo apice» (71) . E dunque la spocchia di «vivere in un’età di progresso dei costumi è indice non solo di presunzione, ma anche di cecità storica; appartiene alla mitologia della civiltà moderna. La cronaca delle guerre e dei crimini di massa già da tempo ha smentito questa falsa credenza» (192).
Insieme a ogni ottimismo storico-teologico, Sofsky respinge le interpretazioni salvifiche del dolore, tese ad attribuirgli un valore del tutto fantastico e consolatorio. I racconti di violenza e di tormento fisico che scandiscono questo libro -a volte davvero duro- mostrano che «il dolore è il dolore. Non è un segno, né trasmette alcun messaggio. Non rimanda a nulla. Non è nient’altro che il più grande di tutti i mali» (56).
La natura umana è intrisa di violenza; il pactum unionis/subjectionis creato per limitarne i danni utilizza sistematicamente la medesima violenza. La civiltà è quindi plasmata da crudeltà, intessuta di morte. Vie d’uscita da questo circolo non sembrano esserci se è vero che proprio perché «non è guidato dagli istinti, poiché è un essere dotato di intelletto», l’uomo «è in grado di comportarsi peggio della più malvagia delle bestie» (194).
Una conclusione desolata ma non gratuita, fondata com’è su una miriade di testimonianze, esempi, racconti e soprattutto sulla capacità di individuare in esse alcune costanti antropologiche. Una delle principali fonti di Sofsky è, infatti, la visione dell’umano e della storia di Elias Canetti -soprattutto quell’unicum della cultura del Novecento che è Masse und Macht– con le sue intuizioni del corpo-massa, della muta, dell’uccidere come forma più elementare del sopravvivere, del potere come spina infitta nelle carni dell’uomo, quel Canetti che una splendida mostra al Beaubourg ha potuto definire «l’ennemi de la mort».
Se le risposte sembrano mancare, questo libro ha il merito di porre con estrema chiarezza alcune domande essenziali per capire ciò che siamo davvero. Il suo limite più consistente è un altro e sta nel permanere di un pregiudizio antropocentrico che sembra limitare la violenza alla specie umana. In realtà il divorare e il distruggere sono presenti ovunque ci sia animalità, ovunque si dia una vita consapevole. Perché il male è il βίος.

Animalia

Animalia (Villaggio Maori Edizioni, 2020, pagine 186) è il libro nel quale ho cercato di sistematizzare le ricerche che ho svolto in questi anni sullo statuto dell’animalità dentro il più ampio cerchio ontologico e a partire da una prospettiva antropodecentrica. Pur essendo assai diverso da Tempo e materia. Una metafisica, uscito qualche mese fa, Animalia ne costituisce una verifica empirica dedicata alla materia viva.
Il testo si compone di 22 capitoli, tra i quali: Biocentrismo e policentrismo (l’animale non esiste); Per una biologia disincantata e incosciente; Sacrifici animali; La Rivoluzione del DNA arcaico; Deep Ecology; Animalità politica; Da Horkheimer a Machiavelli; Anarchia e animalismo; Heidegger e l’animale; Etoantropologia (l’indice completo si trova nel pdf qui sotto).
A me sembra anche un libro semplice da leggere, che si chiude con un racconto (il secondo che pubblico, dopo Di stelle e di buio) dal titolo I Signori del cielo.
Sono grato a Roberto Marchesini, che ha scritto la Prefazione, e ai miei allievi che hanno letto una stesura preparatoria del testo e mi hanno aiutato a migliorarlo.

Il volume sarà disponibile nelle librerie a settembre ma è uscito un paio di settimane fa e lo si può già acquistare sul sito dell’editore.

Quarta di copertina
Pensare l’animalità significa ridisegnare il confine delle riflessioni sulla vita umana. Cosa rimane del presunto primato per cui l’essere umano è sempre stato considerato il vertice del biocentrismo? Possiamo ancora considerarci superiori in quanto appartenenti a una specie che mette a rischio persino la propria sopravvivenza? Animalia suggerisce un cambiamento di prospettiva, in cui l’arroganza dell’umano viene messa in discussione dallo sguardo con cui veniamo scrutati dagli altri animali, i quali compongono una molteplicità splendente e millenaria.
Alberto Giovanni Biuso indaga gli scenari filosofici, letterari e antropologici che sostengono il reticolato fitto e complesso dell’animalità, svelandone somiglianze e differenze: «un’anatomia comparata» come viene definita da Roberto Marchesini nella sua Prefazione.
Una riflessione necessaria non per decretare un vincitore unico all’interno del regno animale ma per creare una connessione diversa, nel rispetto della vita di tutti gli animali. Umani e non.

Recensioni

corpi e politica

Non c’è alcun complotto nella diffusione del coronavirus, che è un evento biologico il quale è stato favorito da: a) condizioni ambientali di inquinamento (come in Lombardia e a Milano, città dove vivo); b) velocità di spostamento consentite dai viaggi contemporanei.
Biologi, virologi, medici e statistici sono tra di loro molto in disaccordo; dunque e per fortuna non c’è una scienza assoluta che possieda il monopolio delle interpretazioni e delle soluzioni; non esiste la medicina ma esistono molti medici che hanno opinioni diverse.
Si può morire, e si muore, di virus ma si può morire, e si morrà, di miseria economica e relazionale. In generale non si può comprimere a lungo una società senza ucciderla. Così è fatta la socialità umana.
In una situazione come questa, la filosofia deve svolgere con coraggio il suo compito critico.
È anche per questo che una comunità di studiosi, docenti, studenti, professionisti ha cercato in queste settimane di riflettere, informarsi, capire. Un primo risultato è il sito corpi e politica, che intende costituire un luogo di riflessione libera e rigorosa sul presente.
Il sito si articola in cinque sezioni: 

corpi e libertà
«L’uscita di casa, il ‘fuori’ – lo spazio pubblico dal forum romano all’agorà rivendicato da Hannah Arendt come proprio dell’esercizio dell’umano – è costitutivo dello spazio pubblico: spazio mentale prima che fisico, dimensione estetica e concretamente sensoriale oltre che reale solidità architettonica, esperienza corporea e prolungamento intellettuale che distingue “l’animale da polis” rispetto alle bestie e agli dèi. Perché l’uomo è animale sì, ma animale politico».

corpi e sapere
«Attacco agli spazi pubblici, in primis i teatri: aggressione alla vita activa, e alla sua prima incarnazione – lo spazio collettivo dell’Università e la ‘realtà aumentata’ che è il teatro. Corsa alla teledidattica già promossa come succedanea al confronto e all’esercizio fisico dell’intelligenza critica».

corpi e numeri
«La contabilità dei corpi – malati, sanati, morti di morti più o meno gravi, più o meno ‘naturali’ – si fa sempre più macabra, il modo in cui le fonti istituzionali e giornalistiche ‘danno i numeri’ è sempre più opaco, meno decifrabile» 

corpi e mutazioni
«I nostri sensi stanno registrando una mutazione del reale, tra iperconnettività e lontananza fisica, La povertà delle relazioni, la vita confinata nel mondo dei bit invece che in quello degli atomi, produce distorsioni percettive ed estetiche, metamorfosi individuali e politiche. La sottrazione non solo dell’aria pubblica ma anche della possibilità di assistere i nostri cari e di salutare i nostri morti è una barbarie senza precedenti senza storia e senza nome. Si muore anche, soprattutto, di asfissia di pensiero e di defezione dalla dimensione dell’humanitas, non solo di polmonite virale»

costellazioni
«In questa pagina, lanciamo traccianti per fare costellazione – linee di libertà che possono fare disegno. In questa pagina riferimenti a pagine e gruppi che elaborano pensiero in modo autonomo e indipendente, con l’idea che chiunque possa tracciare figure, effimere o durature, seguendo le proprie inclinazioni, ma puntando a un disegno comune – tutto da costruire».

Questo il link generale: corpi e politica
E questo il testo di presentazione: Vivere, non sopravvivere
Chi vuole può aderire comunicando la propria condivisione all’indirizzo info@corpiepolitica.it 

Nel sito si possono leggere, tra gli altri:
-un articolo di Ivan D’Urso, laureato in filosofia a Unict, che ha ampliato i contenuti di una riflessione che avevo pubblicato qui qualche giorno fa. Il titolo è infatti Pensieri da Quarantena
-la breve anticipazione di un’illuminante analisi statistica di Alessandro Pluchino, docente a Unict di Fisica teorica, modelli e metodi matematici: Perplessità matematiche
-tre miei brevi contributi
Silenzio. Catania prigioniera
Didattica e ologrammi
Perinde ac cadaver. L’aborto Europa che pratica assassini
Il sito ha inoltre ripreso la riflessione su La peste di Camus, con il titolo “Tout ira bien”
Chi volesse proporre articoli e analisi può utilizzare l’indirizzo indicato sopra oppure inviarli a me e li farò avere alla redazione.

Dolcezza

Dopo quattro ore di lezione telematica -ringrazio gli studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche per la maturità, la malinconia e la forza con le quali stanno vivendo questo momento– e dopo un pomeriggio di scrittura, ho fatto una passeggiata lungo le strade di Catania.
Traffico assai scarso, almeno in relazione alle abitudini della città. Negozi chiusi, tranne i pochi autorizzati. Persone che, non potendo sedersi al bar, si incontrano davanti ai panifici e alle tabaccherie. Molti con la mascherina. Auto della polizia qua e là.
Le luci di una splendida giornata di primavera riverberano nel silenzio delle strade. I palazzi sembrano respirare al posto degli umani. Ho osservato le facciate, i monumenti, gli angoli, affrancati dalla presenza costante dei loro abitatori. Ho visto quanto bella sia Catania. Ho avuto per qualche minuto l’impressione di vivere ciò che racconta il protagonista di Dissipatio H.G, l’impressione di una solitudine profonda e dolce, il mondo liberato dagli umani.

Tutto questo è però frutto dell’obbedienza del corpo collettivo all’enormità di ordini che prospettano gli arresti domiciliari di massa; che autorizzano i membri dell’esercito a «fermare i cittadini per controllare se rispettano le disposizioni previste dai decreti per l’emergenza coronavirus» (circolare del 12.3.2020 del Ministero degli Interni); che concedono a ogni vigile urbano, poliziotto e affini il potere di privare i cittadini della libertà di movimento, che soltanto la Magistratura sarebbe autorizzata a decretare.
Come quasi sempre, Manzoni ha colto a fondo queste dinamiche. In particolare là dove osserva che gruppi e movimenti sociali i quali non tollerano il minimo sacrificio della propria libertà -manifestando a gran voce–, a un certo punto rinunciano invece a tutta la loro libertà. Un corpo sociale spesso così attento ai propri diritti di varia natura, molti dei quali secondari, sta rinunciando con rassegnazione o persino con compiacimento alla sospensione delle fondamentali libertà costituzionali, compresa quella di movimento, che è tra le essenziali. Leggo di cittadini che invocano apertamente i carri armati nelle strade.
Il mio lavoro mi ha abituato da sempre a trascorrere intere giornate a casa, studiando e scrivendo. Ma quanto durerà la situazione descritta dal mio allievo Enrico Palma? «Sono curioso di constatare fino a che punto reggerà questa perfetta calma di dèi solitari prima di vedere scattiare qualcuno, o tutti quanti». In siciliano ‘scattiari’ vuol dire ‘andare fuori di testa’.
Di più: molti lavoratori continuano a percepire uno stipendio anche ad attività rallentate o annullate. Ma tanti altri, e sono milioni, che vivono di commercio, di attività a prestazione, di esercizi aperti al pubblico, in che modo continueranno a percepire le somme necessarie per vivere?
Se non si pone un freno alla psicosi di massa, si può prevedere che tra non molto i sentimenti di comprensione e solidarietà verso positivi al virus e malati (non sono la stessa cosa, è bene ricordarlo) si trasformeranno in altri atteggiamenti, assai più ostili. La Storia della colonna infame è un libro terribile e chiarissimo nel descrivere tali dinamiche. La peste porta sempre con sé, è inevitabile, gli untori. È un dispositivo socialmente e psicologicamente ben noto: per adesso sono coloro che non accettano gli arresti domiciliari di massa ma quando ci si pone sul piano inclinato del panico l’inevitabile risultato è la violenza verso colui/coloro che si ritiene portino in sé e con sé il pericolo per tutti gli altri. Significativo quanto ha dichiarato il responsabile della Protezione Civile, Borrelli: «Mantenere le distanze, anche in famiglia». Eccoci arrivati al controllo dei corpi tra le mura di casa. 1 metro, 2 metri, 3 metri? Ciascuno mangia in una stanza da solo? Pura biopolitica. Foucault ci guarderebbe con interesse.
Bisogna dire infatti con chiarezza che il coronavirus non è soltanto biologia. È anche politica, economia, spesa pubblica. L’emergenza –per un virus molto contagioso ma poco letale– sta nell’assenza di posti letto, di macchinari, di personale medico. E questo non l’ha voluto il virus ma l’hanno deciso il fanatismo liberista del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Centrale, dell’Unione Europea. L’hanno voluto i mercati, anonime strutture finanziarie che uccidono le vite, le società, le libertà. Ora si vede che lo fanno alla lettera.
Non si tratta di ‘minimizzare’, si tratta di capire la complessità di ciò che accade e di affrontarlo con coraggio e lucidità, sine ira et studio, con equilibrio esistenziale e scientifico. Il contrario di ciò che informazione e politica praticano sul coronavirus come su tutto il resto.

Quanto e come si tornerà indietro rispetto alla dittatura sanitaria, alla gravissima limitazione delle libertà costituzionali, alla militarizzazione del territorio e delle relazioni, al deserto relazionale, sociale, culturale dato dallo spegnimento di ogni luogo di aggregazione: teatri, cinema, convegni, attività sportive e tanto, tanto altro?
È solo la paura a indurre alla passività. Un sentimento che il potere ha sempre utilizzato, con sistematica efficacia. La paura di base, la paura di fondo, la paura totale, la paura di morire. Una paura che paralizza il pensiero, la critica, la lucidità. Che spinge a giudicare criminale, superficiale, pazzo chi diffida di questo unanimismo del panico. Che invoca la censura verso coloro che muovono anche la minima critica al dispositivo di controllo sociale totale che sta dilagando senza alcuna opposizione. Come ha scritto l’amico Giuseppe Nanni: «Non state fermi adesso perché poi sarà più difficile muovere il cervello (siamo al terzo giro di vite in quattro giorni, l’appetito del Leviatano vien mangiando)». E come affermano i compagni di A Rivista anarchica: «Stiamo vivendo tempi allucinanti, caratterizzati da un’eclissi della ragione, tra prove tecniche di controllo sociale e dissennate reazioni di ampi settori della popolazione».

Tutto questo è frutto, nella sua dimensione biologica e non biopolitica, di un’entità invisibile, microscopica, inafferrabile, temibile: un virus. Noi, che ci crediamo i padroni del cosmo, siamo alla mercé di un’infima parte del reale. Ma non impareremo neppure stavolta. Troppo grande e radicata è la ὕβρις che intesse l’antropocentrismo biblico e la civiltà del capitale. Ma Γῆ, la Terra Madre, ucciderà l’Homo sapiens prima che lui uccida la Terra. Questo è sicuro.
E quando rimarrà soltanto ciò di cui oggi ho goduto al Monastero e tra le strade -l’azzurro del cielo, il cinguettio dei passeri, il movimento delle palme e degli ulivi– lo spazio sarà pieno di calma, il tempo sarà colmo di dolcezza. La dolcezza di Catania oggi al tramonto.

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