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Apocalissi

Mercoledì 9 novembre 2022 alle 16,00 nell’aula 27 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania dialogheremo a proposito di Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica con l’autore Giuseppe Frazzetto.
L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU).

Il volto sempre più dissolto dietro e dentro le maschere dell’epidemia conferma «la struttura epico/caotica [che] si orienta verso un sostanziale solipsismo», dissolutore del principio sul quale si fonda l’arte contemporanea, il principio illuministico (ma anche, aggiungo io, cristiano) di ‘una sola umanità’: «Senza quel presupposto non ha molto senso parlare di arte contemporanea. Il riferimento dell’arte contemporanea alla nozione di umanità è un elemento fondativo. L’arte contemporanea nasce e si sviluppa dal presupposto dell’esistenza dell’umanità». E tuttavia il risultato di questo tratto tipico del moderno è una vera e propria tribalizzazione dell’esperienza storica. La divisione in gruppi reciprocamente escludenti costituisce infatti inevitabilmente una delle conseguenze dell’universalismo illuministico, come già i francofortesi avevano intuito.
Il postcontemporaneo scaturisce dunque anche da questo tramonto dell’universalismo, di una concezione dell’umanità astratta e artificiosa, alla quale vengono sostituite dinamiche e dispositivi che Frazzetto chiama «sciamanoidi», che già nel Novecento hanno reso «distante il vicino (l’oggetto quotidiano, perfino l’oggetto sordido)», presentandolo e ponendolo «come traccia d’un che di più reale, promessa d’un significato apocalittico».

 

Apocalisse estetica

Recensione a:
Giuseppe Frazzetto
Nuvole sul grattacielo
Saggio sull’apocalisse estetica
Quodlibet Studio, 2022
Pagine 199
in Segnonline
12 febbraio 2022

L’ipertecnologia contemporanea è destinata a capovolgersi, si è già capovolta, in strutture e direzioni reincantate e mitologiche. Questo uno dei risultati ai quali Giuseppe Frazzetto era pervenuto in Epico caotico. Videogioco e altre mitologie tecnologiche (2015).
La complessità e l’identità del Moderno -tema fondamentale delle ricerche di questo filosofo- è tornata a essere oggetto di un’analisi radicale e disvelatrice in Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione (2017), dove viene descritta la metamorfosi dell’artista artigiano nell’artista sovrano, la cui autoinvestitura non si limita a coltivare ciò che la comunità ha seminato ma cerca, afferra e collega tra di loro i frammenti sparsi nel mondo, ai quali è proprio il gesto dell’artista a conferire senso e identità estetiche.
Su queste fondamenta ermeneutiche si eleva il terzo momento di quella che ora appare una trilogia del Postcontemporaneo, capace di pensare non solo l’arte e l’estetico ma il fenomeno umano collettivo in tutta la sua rizomatica struttura.
Il dispositivo del Postcontemporaneo si declina in questo libro in forme molteplici: il tempo di Solaris; la disintermediazione; il me/mondo; la vita/mashup; l’estraneità; la biopolitica; il collettivo; la dinamica μ; l’eschaton/katéchon; l’apocalisse. Come si vede, è qui all’opera una creatività lessicale che è chiara espressione della fecondità teoretica di Frazzetto.
Nella recensione pubblicata in Segnonline non compare una citazione da p. 196 che vi avevo inserito e che recupero qui. Parole con le quali Frazzetto esprime una delle tonalità che pervadono il libro: la malinconia.

«Quanta malinconia! Malinconia di Gloria. La malinconia che affligge “Io, un altro” come un dono indesiderato eppure non restituibile, la malinconia che “Io, un altro” considera un premio, o forse il Bene.
Quanta malinconia! Lo stato d’animo dei residenti nel Limbo, al di qua / al di là da scansioni temporali quali l’attesa apocalittica e l’eterno rinvio catecontico.
Quanta malinconia! La malinconia del vedere il non vedibile “attraverso una nuvola”. La dinamica μ tenta di trovarvi una ”felicità che cade”, ineffettuale ed essenziale, amichevole e terribile, amara ed estatica – come talvolta accade “nel risveglio”».

Fame

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Furore
Dal romanzo di John Steinbeck
Ideazione e voce Massimo Popolizio
Adattamento Emanuele Trevi
Musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio
Produzione Compagnia Umberto Orsini / Teatro di Roma-Teatro Nazionale
Sino al 20 giugno 2021

The Grapes of Wrath, è il titolo del romanzo di John Steinbeck (1939). Un titolo biblico, naturalmente: «L’angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio» (Apocalisse, 14,20; traduzione CEI).
I grappoli dell’ira, dell’odio e del furore maturavano come frutto acre della polvere e della siccità, delle alluvioni e della catastrofe che colpirono negli anni Trenta del Novecento il cuore degli Stati Uniti d’America, spingendo masse di contadini rovinate e miserabili verso il sogno della California. Dove trovarono «prima compassione, poi disgusto, infine odio», trovarono altra miseria. L’ira, l’odio, il furore furono tuttavia il frutto amaro non della natura ma del capitalismo. Furono infatti le banche ad accaparrarsi le terre espellendo i contadini; furono i mercati a distruggere quantità enormi di frutta e ortaggi in California proprio mentre i contadini morivano di fame; furono i proprietari terrieri e immobiliari a diffondere volantini invitando i contadini ad andare in California, in modo da abbattere i salari e trasformare i vecchi e nuovi lavoratori in schiavi. Non la polvere e le bufere ma l’esercito industriale di riserva produsse la rovina, l’odio, il furore. Una lezione marxiana che i sedicenti ‘progressisti’ non imparano mai, auspicando oggi l’arrivo in Europa di lavoratori dall’Africa e dal Vicino Oriente, disposti a qualunque salario pur di giungere e rimanere, rovinando in questo modo i lavoratori europei e moltiplicando i profitti delle piccole e grandi aziende. Il capitalismo è borderless, è senza patria, è senza confini. Come senza limiti è la rovina prodotta dai buoni sentimenti che ignorano la complessità delle strutture antropologiche e politiche delle società umane.
Nel caso dei contadini americani, poi, si vide all’opera anche la potenza della Nέμεσις contro i contadini bianchi e protestanti che avevano sterminato i pellerossa distruggendo le loro vite, cancellando le loro culture, appropriandosi delle terre che poi le banche sottrassero loro.
Il frutto di tutto questo male -del genocidio, dell’avidità, del capitalismo- fu la fame, semplicemente e orrendamente la fame. Che la vocalità, le posture, gli sguardi, le pause, i toni di Massimo Popolizio e le percussioni di Giovanni Lo Cascio restituiscono nelle sue radici antiche, nella sua immediata potenza, nella sua estensione a ogni attimo della vita e del tempo. La fame che arriva con la polvere; che arriva con i trattori delle banche che spianano le terre e persino le case dei contadini; che arriva con i falò delle masserizie abbandonate; che arriva con le automobili incolonnate lungo la Route 66 (Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, Nuovo Messico, Arizona, California); che arriva con le stesse auto in panne, guaste, rabberciate, abbandonate; che arriva con i decreti (anche sanitari!) e i fucili delle autorità californiane; che arriva con la disperazione, come disperazione. La fame, la radice vera della storia umana come storia di mammiferi acculturati.
«How can you frighten a man whose hunger is not only in his own cramped stomach but in the wretched bellies of his children? You can’t scare him – he has known a fear beyond every other».
(The Grapes of Wrath, The Modern Library, New York 1939, cap. 19, p. 323)

The Road

di John Hillcoat
USA, 2009
Con Viggo Mortensen, Kodi Smit-McPhee, Charlize Theron, Robert Duvall, Guy Pearce
Trailer del film

Non si sa che cosa sia accaduto, quando e come. Ma non c’è più vita animale, le foreste sono spoglie, gli alberi rimasti cadono e i terremoti si scatenano. I pochi umani ancora in vita si dividono tra predatori e prede, destinate a essere mangiate dai loro simili. Una ferocia quasi ovvia intesse le esistenze tornate allo stato di natura. Un Padre e un Figlio, entrambi senza nome, spingono il loro carrello da barboni, emblema di ciò che sono stati i consumi e di come ormai consummatum est (Gv., XIX, 30). Nato al momento dell’apocalisse, il figlio rappresenta per il padre lo stesso «Verbo di Dio», una promessa di redenzione che egli cerca in tutti i modi di preservare. La cupa metafora che questo film -e il romanzo di Cormac McCarthy da cui è tratto- rappresenta non può che concludersi col sacrificio da cui scaturisce una flebile speranza.

Ricordando un’affermazione hegeliana, si potrebbe dire che quando il cinema dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire ma soltanto conoscere. Il colore che non è colore attraversa infatti le miserabili esistenze rimaste e intesse ogni fotogramma di quest’opera, tranne i feedback del tempo che precede la catastrofe e la coperta-sudario di una delle scene conclusive. John Hillcoat ha costruito un road movie claustrofobico. Ossimoro che da se stesso dice dell’abbandono e dell’orrore di cui sono fatte le strade che gli umani, o qualche dio, non hanno saputo preservare dal male.

[Una recensione analitica del film, curata da Mario Gazzola, si può leggere sul sito posthuman.it ]

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