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Elena gnostica

Teatro Greco – Siracusa
Elena
(Ἑλένη)
di Euripide
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 22 giugno 2019

Ho assistito a questo spettacolo insieme a un gruppo di studenti del corso di Filosofia teoretica del 2019. A loro dedico le riflessioni che seguono.

I percorsi del mito e degli dèi sono rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili. Il politeismo greco è anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena di Euripide rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica» (Anna Beltrametti, in Euripide, Tragedie, Einaudi 2002, p. 556).
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi – vana idea che non m’ebbe» (trad. di F.M. Pontani).
Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi – sono la stessa cosa – fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due, come prima in un dialogo fra Elena e Teucro, gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini , che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della «vana immagine» di Elena, «creata da un dio»; dei guerrieri «morti per una nuvola»; del «dio che è insondabile». L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
L’Elena di Euripide – opera per molti versi sconcertante – è accenno, filigrana e metafora di qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. Qualcosa che era nato con l’orfismo e che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida» (v. 239) riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce». Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao (vv. 513-514). Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’ (vv. 1666-1667). È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono –  come sempre nel divenire del mondo –  ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.

Nella spuma potente del cosmo

Per i Greci c’è nell’umano una suprema innocenza. Essi sanno e accettano che la nostra natura sia intrisa di limite, tempo, balbettio, tramonto. Assai più grande è infatti la forza degli dèi rispetto alla fragilità di una condizione finita. Se «la sorte dell’uomo è patire»1, questo è dovuto alla volontà dei Numi, che sono anch’essi passione e materia che brama. Una passione che spinge Afrodite a vendicarsi del disprezzo che le arreca il troppo casto Ippolito. La dea colpisce ponendo nel cuore di Fedra «una brama violenta, per volere mio» (114) poiché stolto è stato Ippolito a pensare di potersi, lui solo, affrancare dall’universale autorità del desiderio. Di se stessa infatti Afrodite canta la forza: «Tutti quelli che vedono la luce entro i confini del Ponto Eusino e dei monti d’Atlante, io li tengo in onore se s’inchinano al mio potere, mentre abbatto quanti sono verso di me sprezzanti e alteri» (113).
Da una tale potenza discende il piano inclinato dell’innamoramento di Fedra per il figlio di suo marito; delle ingenue trame che la nutrice organizza per dare compimento al desiderio della donna; dell’orrore che agli occhi di Ippolito tutto questo rappresenta; della vergogna e della vendetta di Fedra che morendo lo accusa; della troppo rapida maledizione scagliata da Teseo contro il figlio; della morte straziata di lui.
Artemide nulla può per salvare il proprio devoto, poiché «vige fra gli dèi questa legge: nessuno vuole opporsi al volere di un altro dio, ciascuno si ritira» (156), senza che però questo escluda la vendetta di Artemide che colpirà Afrodite nel più profondo degli amori di lei, quello verso Adone.
Accomunati sono quindi umani e divini nella passione. E se «non c’è per l’uomo una vita che trista non sia, né tregua c’è dell’affanno» (121) -tanto che «la cosa migliore, però, è, senza coscienza, morire» (123)-, agli umani Euripide offre lo strumento supremo della parola che accusa gli immortali dell’impotenza degli dèi di fronte al male profondo. Se, dichiara Artemide, «è normale che l’uomo sbagli, se gli dèi lo vogliono» (160), Ippolito giunge a dire -morendo- «potesse l’uomo maledirli, i numi» (159). Un coraggio filosofico e cosmico che a nulla si piega, se non ad Ἀνάγκη, signora di tutti, umani o divini che siano
Ben conoscendo tale realtà, nella mia vita ho onorato Afrodite e Dioniso, senza seguire la misurata e miserabile saggezza della nutrice: «Dovrebbero amarsi fra loro non più di tanto i mortali, non giungere mai a un affetto che tocca le viscere, sì da allentare o serrare i legami che crea l’amore, senza difficoltà» (123). Lascio un simile equilibrio, lascio tale distanza, ai contabili e preferisco immergermi nella luce della dea venuta dal mare, nella spuma potente del cosmo. 

1. Euripide, Ippolito, in «Le tragedie», trad. di Filippo Maria Pontani, Einaudi 2002, p. 121.

μυθος

Il mito è l’essenza stessa del linguaggio e della vita. Comunità, etnie, individui, popoli, in esso abitano e in esso si specchiano. Alla radice di tale potenza c’è secondo Robert Graves la donna. Un matriarcato ontologico fa sì che nel «complesso religioso arcaico non vi erano né dèi né sacerdoti, ma soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse; la donna infatti dominava l’uomo, sua vittima sgomenta» (Robert Graves, I miti greci, trad. di Elisa Morpurgo, Longanesi 2011, § 1, p. 22)
La Terra è femmina; le Erinni -«Tisifone, Aletto e Megera» che «vivono nell’Erebo e sono più vecchie di Zeus e di tutti gli olimpi» (§ 31, p. 108) sono femmine; le Moire/Parche (Clòto, Làchesi e Àtropo) sono femmine; Afrodite (potenza del corpo) è femmina; Atena (la mente) è femmina; persino l’autrice dell’Odissea è probabilmente una femmina, e già Samuel Butler «vide in Nausicaa l’autoritratto dell’autrice, una giovane e geniale nobildonna siciliana del distretto di Erice» (§ 170, p. 678), la quale costruì sotto l’apparenza di un poema il primo romanzo greco, la cui geografia va dalla Sicilia alla Norvegia.
Dentro tutto questo e dietro ogni mito, Graves scorge la presenza della Dea Bianca -rappresentata dalla Luna e dalle sue fasi-, della sua potenza, della sua attrazione, del suo divenire. Nulla a che fare, quindi, con resoconti e letture soltanto filologiche -anche se l’erudizione di Graves è immensa- né con le banalità psicologiche di Freud e Jung, che riducono il Cosmo alla misera misura del cervello umano -«Secondo quell’antico culto il nuovo re, benché straniero, era considerato in teoria figlio del vecchio re che egli uccideva, sposandone poi la vedova: una consuetudine che gli invasori patriarcali interpretarono erroneamente come parricidio e incesto. La teoria freudiana che ‘il complesso di Edipo’ sia un istinto comune a tutti gli uomini, fu suggerita dal fraintendimento di questo aneddoto. Plutarco, pur narrando (Iside e Osiride, 32) che l’ippopotamo ‘uccise il genitore e violentò la genitrice’, non ne avrebbe mai dedotto che ogni uomo ha il complesso dell’ippopotamo» (§ 105, p. 342). Qui non ci sono neppure attualizzazioni o classicismi. L’autore semplicemente racconta i miti e in questo modo mostra tutta la loro potenza, oggi come ieri, come sempre.

Li racconta esponendo un numero assai grande di varianti quasi per ogni nome e per ogni circostanza. E questo conferma che anche il mito, come la filosofia,  è un gioco di Identità e Differenza nel quale si esprime la ricchezza senza fine del tempo.
Ci sono tutti i miti dei Greci, proprio tutti anche i più sconosciuti, ci sono tutti i personaggi, tra i quali emergono Eracle con la sua immensa forza; Odìsseo, il quale «è un personaggio chiave della mitologia greca» proprio perché «sebbene fosse nato da una figlia del corinzio dio del Sole e avesse conquistato Penelope all’uso antico, vincendo una corsa podistica, egli infrange la secolare legge matriarcale, insistendo perché Penelope venga a vivere nel suo regno anziché trasferirsi in quello di lei» (§ 160, p. 602); il titano Encèlado, contro il quale Atena scagliò il masso che uccidendolo lo trasformò nella Sicilia; Cecrope animalista, il quale «offriva agli dèi soltanto focacce d’orzo, astenendosi persino dal sacrificare animali» (§ 38, p. 125); Dedalo che visse a lungo «tra i Siciliani, costruendo molti splendidi edifici» (§ 92, p. 284); Medea, la maga più potente di tutte, che «non morì mai, ma divenne immortale e regnò nei Campi Elisi dove alcuni sostengono che fu lei, e non Elena, la sposa di Achille» (§ 157, p. 573); Penelope, che se per Omero/Nausicaa rimase fedele al suo sposo, secondo altre tradizioni fu in realtà la madre di Pan, da lei nato «dopo che essa si accoppiò promiscuamente con tutti i suoi pretendenti durante l’assenza di Odisseo», versione che «si ricollega alla tradizione delle orge sessuali pre-elleniche» (§ 160, p. 603).

E poi ancora: la guerra, come quella paradigmatica di Troia che aveva opposto l’Asia all’Europa, che Zeus e Temi fecero scoppiare forse per rendere famosa Elena oppure per esaltare e confermare la potenza dei semidei che la combatterono «e al tempo stesso decimare le tribù popolose che opprimevano la faccia della Madre Terra» (§ 159, p. 584); i costumi, come l’usanza di vestirsi di nero in occasione dei lutti, prodotta dal bisogno «di ingannare le ombre dei morti, alterando il proprio aspetto» (§ 114, p. 396); l’illusione, generata da Prometeo per evitare la distruzione totale, conseguenza di Pandora -la prima donna mortale, «che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei»-, la quale aprendo il vaso che conteneva ogni male portò agli umani «la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. […] Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio» (§ 39, p. 130); la vendetta, Nemesi figlia di Oceano, la cui «bellezza è paragonabile a quella di Afrodite» (§ 31, p. 111), il cui appellativo di Aδράστεια -l’ineluttabile- la rende ben più sovrana di Zeus, del quale fu nutrice.

Su questa Luce splende la potenza dei due ἀδελφοί, dei fratelli Apollo e Dioniso. Il primo «predicò la moderazione in ogni cosa» e tuttavia fu anche capace di furia tremenda (§ 21, pp. 69-71). Il secondo, molto vicino al mondo femminile tanto da essere «di solito rappresentato come un giovane effeminato dai capelli lunghi e la sua maschera poteva essere scambiata per quella di una donna» (§ 79, p. 237), inventò il vino e ogni forma di ebbrezza, «andò vagando per il mondo, accompagnato dal suo tutore Sileno e da un gruppo frenetico di Satiri e di Menadi», fu in grado di trasformarsi in serpente, «in leone, in toro, in pantera», e fare impazzire chiunque volesse, «spargendo gioia e terrore ovunque passava» (§ 27, pp. 92-93) e tuttavia fu anche capace di porre termine ai «riti più antichi e primitivi […], al cannibalismo e all’omicidio rituale» (§ 72, p. 213).
L’incrocio di identità e di destini tra Apollo e Dioniso è un chiasmo sacro, nel quale i miti dei Greci raggiungono pienezza, significato, luce e sostanza. La resurrezione annuale di Dioniso «continuò a essere celebrata a Delfi, dove i sacerdoti consideravano Apollo la parte immortale di Dioniso» (§ 27, p. 96).

Ferite

La potenza della terra generatrice di mali emerge e gorgoglia in queste due donne, in Fedra, in Medea. Non perché «dux malorum femina» (il primo dei mali è la donna, Phaedra1 v. 559) e nulla può opporsi alla volontà femminile che si scontra col limite, nulla resiste alla «feminae nequitia» (perfidia di una donna, Medea 267), ma perché nella loro persona, nell’individualità, nell’identità stessa che le costituisce, esse sono intrise di passione e di ira, di vendetta e di pianto, di impotenza -«sed mei non sum potens» (non so più dominarmi, Phaedra 699)- e di immenso furore. Di sé Medea dice infatti: «Medea superest, hic mare et terras vides / ferumque et ignes et deos et fulmina» (Resta Medea: in lei c’è mare e cielo, e ferro e fuoco, i fulmini e gli dei, 166-167).
Medea invoca «noctis aeterne chaos» (il caos della notte eterna, 9), chiama a raccolta le Erinni, l’oscuro, ogni cupezza ontologica, ogni aspetto tremendo del mondo, perché il limite dell’odio è lo stesso dell’amore: non c’è. E poiché «Amor timere neminem verus potest» (il vero amore non teme nessuno, Medea 416), Medea aggredisce gli dèi, fa crollare dentro sé e nel mondo ogni struttura morale, ogni legame, ogni pietà, ogni λόγος. In lei si inverte la passione di Giulietta -per la quale l’amore era nato dall’odio (Shakespeare, Romeo and Juliet, atto I, scena V)- e l’odio nasce dall’amore tradito. Può quindi alle fine dire a se stessa, trionfante, «Medea nunc sum; crevit ingenium malis» (Ora sono Medea, il mio io è maturato nel male, 910), lei, che il Coro aveva già definito «maiusque mari malum» (male peggiore del mare, 362).
Non a caso il mare. La fine di Giàsone, infatti, insieme a quella della nuova sposa, dei figli, dell’intera città, è il compimento della vendetta che Poseidone e gli altri dèi hanno stabilito nei confronti di chi aveva -con Argo, la prima nave- osato solcare il mare, violare la sacralità delle acque: «Iam satis, divi, mare vindicastis» (avete già abbastanza vendicato il mare, o dei, 668).
E che male, invece, aveva compiuto Fedra? Non lei lo aveva commesso ma Ippolito, sprezzante nei confronti delle donne che odia e soprattutto di Afrodite, dei suoi doni, della sua potenza. E la dea lo colpisce. Lo fa, spietata, attraverso l’amore di una donna che è la moglie di suo padre. «Quid ratio possit? Vicit ac regnat furor / potensque tota mente dominatur deus» (Che può la ragione? La passione ha vinto e mi domina, un dio possente è padrone di tutto il mio essere, 184-185), esclama Fedra, esposta come un fuscello alla più vorticosa delle tempeste. Vorrebbe, certo, resistere. È ben consapevole dell’enormità che la travolge, il desiderio verso un ragazzo generato dal proprio compagno, ma ammette l’inevitabile: «Hoc quod volo [me nolle]» (Io non voglio ciò che voglio, 604).
Incredulo, sconvolto, anch’egli furente, Ippolito grida a Fedra che è lei la peggiore delle donne mai nate, peggiore persino di Medea, la maga, la barbara. La colpa di Fedra è la stessa di ogni umano che ami: amare. «Quisquis in primo obsitit / pepulitque amorem, tutus ac victor fuit; / qui blandiendo dulce nutrivit malum, / sero recusat ferre quod subiit iugum» (Chi resiste in principio all’amore, ha salvezza e vittoria; chi alimenta e blandisce il dolce male, non fa più in tempo a liberarsi dal giogo, Phaedra 132-135).
Ma c’è una colpa ancora più profonda di tutte quelle che attraversano Medea, che schiantano Fedra. La colpa non morale né psichica ma ontologica di esserci, l’evento primordiale che per Anassimandro tutti scontiamo: l’essere nati. «Quod sit luendum morte delictum indica / Quod vivo» (Dì almeno che peccato devi espiare con la morte / L’essere viva, Phaedra 878-879).
Il disincanto totale di Seneca gli fa dire tramite il Coro che «Res humanas ordine nullo / Fortuna regit sparsitque manu / munera caeca, peiora fovens» (Le cose umane sono in balìa del Caso, che sparge i suoi doni con mano cieca, favorendo i peggiori, Phaedra 978-980). E così un’intera città, Corinto, va nelle fiamme per mano di Medea. Una donna semplicemente innamorata, Fedra, causa la morte dell’oggetto amoroso. Un uomo da poco scampato alle potenze di Ade e tornato ad Atene, Téseo, è costretto a elevare roghi funebri per il figlio squartato dalla sua stessa vendetta, frutto dell’inganno di lei. E questo figlio, Ippolito, muore in un modo davvero orribile.
«Peritque multo vulnere infelix decor» (Per tante piaghe se ne va la sua funesta bellezza, 1096). Per tante ferite se ne va il desiderio umano di essere amati.

1. Seneca, Medea – Fedra, introduzione e note di Giuseppe Gilberto Biondi, traduzione di Alfonso Traina, Rizzoli 2016.

Teogonia

Zeus è giustizia, armonia, luce. Prima di lui era il gorgogliare della terra -Gaia- dal Caos; era il Tartaro infinito, orribile, buio; era il cielo -Urano- il cui sangue «generò le Erinni potenti e i grandi Giganti / di armi splendenti, che lunghi dardi tengono in mano» (trad. di Graziano Arrighetti, vv. 185-186). Dalla spuma -ἀφρός- di Urano «una figlia  /nacque, e dapprima a Citera divina / giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto lambita dai flutti; / li approdò, la dea veneranda e bella, e attorno l’erba / sotto gli agili piedi nasceva; lei / Afrodite» (vv. 191-195).
Che la divinità della vendetta e la divinità dell’amore siano sorelle, che siano nate dallo stesso atto di violenza con il quale Urano venne castrato da Crono, è gesto poetico e teoretico di comprensione profonda di che cosa la vita sia, da dove essa sgorghi, quale sia il suo senso e il suo fine. Da Afrodite non poteva che nascere «Eros, il più bello fra gli immortali, / che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini / doma nel petto il cuore e il saggio consiglio» (vv. 120-122). Non soltanto gli umani ma ogni vivente e gli dèi sono dunque soggetti alla passione che vuole fare del diverso l’identico, che vuole assimilare a sé ogni alterità per nutrirsene e farsene felice.

Tutte le divinità sono modi, forme, espressioni di questa potenza del sangue, dello sperma, della passione che travolge il cuore e la mente di ognuno e di tutti. Divinità diverse, opposte, lontane ma che da tale potenza sono segnate per sempre: la «Notte oscura», con i suoi figli «Sonno e Morte, terribili dèi» (vv. 758-759); «le Moire, a cui grandissimo onore diede Zeus prudente, / Cloto, Lachesis e Atropo, le quali concedono / agli uomini mortali di avere il bene ed il male» (vv. 904-906); e soprattutto il dio nel quale la luce apollinea e le tenebre fonde trovano la loro sintesi potente e implacabile, «Dioniso, ricco di gioia (Διώνυσον πολυγηθέα)» (v. 941).
L’ordine imposto da Zeus al terribile e all’indicibile che stanno e permangono al fondo di ogni cosa e del mondo, è un ordine generatore di memoria, di bellezza e di canto. Le Muse -alle quali Esiodo consacra l’inizio splendente del poema- furono volute da Zeus affinché «fossero oblio dei mali e tregua alle cure» (v. 55). Guidato da esse, il poeta elenca sin dall’inizio i nomi degli dèi e attraverso e oltre loro canta «ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu» (v. 38), canta la potenza del tempo senza inizio né fine.
Gli umani in tutto questo sono degli epifenomeni, la cui gioia e dolore sono conseguenza dei conflitti tra i Numi, ai quali possono solo chiedere luce e che come loro sono parte dell’unica vicenda della φύσις e del sacro intrecciati; è per questo che -scrive con precisione Graziano Arrighetti- «la Teogonia costituisce la testimonianza di uno sforzo di rappresentazione unitaria e coerente del mondo fisico e di quello divino» (edizione Rizzoli, 2016, p. 33).

«Crono dai torti pensieri (Κρόνος ἀγκυλομήτης)» (v. 137) fa da snodo tra l’originario regno della violenza informe e confusa e il regno olimpio di ordine e luce. Nel mezzo c’è stato un conflitto descritto da Esiodo con termini e toni cosmici, inquietanti, tremendi: «I Titani, di contro, rinforzano le schiere, / risoluti, e mostrarono insieme l’opera e di mani e di forza, / gli uni e gli altri; e terribile intorno muggiva il mare infinito / e la terra molto rimbombava e gemeva il cielo ampio / scosso, e fin dal basso tremava il grande Olimpo / allo slancio degli immortali, e il tremore giungeva profondo / al tartaro oscuro, e dei piedi impetuosi il rimbombo / dell’indicibile battaglia e dei corpi violenti; / così dunque gli uni contro gli altri lanciavano dardi luttuosi, / e giungeva al cielo stellato il grido dalle due parti / che si incalzavano mentre si urtavano con grande tumulto. […] Bolliva la terra tutta, e i flutti d’Oceano, / e il mare infecondo. […] Un ardore prodigioso penetrava Caos, e pareva davanti / agli occhi vedersi e il suono ad udirsi agli orecchi / come quando Gaia e Urano ampio di sopra / si scontrano»…(vv. 676-703).
Murray sostiene che la Teogonia costituisse «l’accompagnamento e la spiegazione di un rituale di parata di due cerimonie che celebravano l’una la vittoria dei nuovi dèi su quelli antichi, l’altra la vittoria della luce sulle tenebre» (cfr. edizione Rizzoli, 2016, nota a p. 175). In ogni caso qui il divino è tra noi e noi siamo parte della natura che è sacra. Nessun’altra prospettiva avvicina così interamente gli uomini al dio.

Passioni arcaiche

Teatro Greco – Siracusa
Fedra
di Seneca
Traduzione di Maurizio Bettini
Musiche di Paolo Coletta
Costumi di Alessandro Ciammarughi
Con: Imma Villa (Fedra), Fausto Russo Alesi (Ippolito – Teseo),  Bruna Rossi (Nutrice), Sergio Mancinelli (Messaggero)
Regia di Carlo Cerciello

La splendida traduzione di Maurizio Bettini restituisce la potenza del filosofo-poeta Seneca, capace di cogliere con oggettività l’impero delle passioni dalle quali gli umani vengono scossi come alberi nella tempesta. La passione incestuosa di Fedra verso Ippolito, figlio di Teseo suo marito. Ma anche la passione vendicativa di Teseo verso il presunto stupratore della moglie e la passione di Ippolito per le foreste e la caccia. Anche il rifiuto di Ippolito verso le donne -tutte corrotte, tutte maledette- è una passione. In questo coacervo di sentimenti estremi, la passione più gentile è proprio quella di Fedra, la quale vede nel volto, nelle fattezze, nel corpo di Ippolito il volto, le fattezze, il corpo di Teseo da giovane. E glielo dice, supplicando Ippolito di avere pietà verso il sentimento che nutre e che la scuote. Ma il figlio della amazzone Antiope respinge sconvolto e sdegnato la supplica di Fedra.
Si compie così la vendetta di Afrodite -tutto per i Greci è voluto dagli dèi- nei confronti di Ippolito che disprezza il suo culto. Fedra e la nutrice diranno bugie a Teseo che ritorna dall’Ade, accusando Ippolito di avere tentato lo stupro. Teseo maledice il figlio, che morrà orrendamente dilaniato dai suoi stessi cavalli atterriti da un toro che viene dal mare. Di fronte alle disjecta membra di Ippolito, Fedra piange, accusa se stessa di tale orrore e si uccide. Teseo a quel punto comprende gli eventi, si dispera e tenta di ricomporre il figlio smembrato per dargli sepoltura e onore tardivo.
Le musiche di Paolo Coletta immergono la scena in ritmi raffinati e insieme tribali, così come i movimenti del Coro e dei compagni di Ippolito. La scelta registica per un deciso arcaismo esalta l’estraneità di queste opere e della loro Stimmung rispetto a noi, ai moderni. È questo che va sempre fatto con le opere antiche: cogliere e accettare la lontananza che sono. L’intuizione di tale distanza si esprime anche nella scelta di un unico attore per il ruolo del padre e del figlio. In questo modo, infatti, la passione di Fedra appare ancora più giustificata e legittima poiché questa donna ama un unico uomo, pur se in due corpi diversi. La sua ‘colpa’, se una ve n’è, è stata semplicemente di amare. Ancora una volta sembra avere ragione Marcel Proust: «L’amour, sentiment qui (quelle qu’en soit la cause) est toujours erroné»» (Sodoma e Gomorra in «À la recherche du temps perdu», Gallimard, Paris 1999, p. 1358).

Inni omerici

Il corpus di inni arcaici che va sotto il nome di Omero è costituito, per quello che ci è rimasto, da 33 componimenti dedicati alle maggiori divinità del mondo greco. Gli Inni trasportano in un mondo di luce, di potenza e di sorriso, en atanatoisi teoisi (A Selene [XXXII], v. 16; Ad Afrodite [V], vv. 239-246). Un mondo non antropocentrico e tantomeno antropogonico, consapevole d’istinto della finitudine dell’umano e pronto a cantare l’eterna giovinezza del divino. La vecchiaia è infatti una sciagura ancor più grande della morte e proprio questi sono i due mali ai quali gli umani non sanno porre rimedio (Ad Apollo [III], vv. 191-193). Ade è Poludegmon, signore di molti ma non degli dèi (A Demetra [II], v. 404). La vitalità e la gioia che dagli Inni promanano prendono corpo nel quotidiano contatto con gli dèi, vissuti non come il totalmente altro inaccessibile e inconcepibile ma come figure con le quali intrattenere un dialogo in ogni momento dell’esistenza e soprattutto nelle difficoltà e nelle decisioni importanti. Il fondamento di questa relazione è una comunanza profonda tra il divino e l’umano, intessuti degli stessi desideri, delle medesime passioni. Le divinità dei Greci sono davvero incarnate.

Gli Inni più lunghi e più belli sono dedicati a Ermes, ad Apollo, a Demetra, ad Afrodite. I tre rivolti a Dioniso (I, VII e XXVI) descrivono con grande efficacia la triplice nascita del dio concepito da Semele, partorito da Zeus, fatto a pezzi dai Titani e poi ricomposto e ancora una volta rinato. È notevole che gli Inni descrivano quasi allo stesso modo i due fratelli Dioniso e Apollo. Il primo «aveva bei capelli scuri /e fluenti, e un manto purpureo gli copriva le forti / spalle» (A Dioniso [VII], vv. 4-6; le traduzioni sono di Giuseppe Zanetto). Apollo è «simile a un uomo gagliardo e robusto, nel fiore / degli anni, coi capelli sciolti sulle ampie spalle» (Ad Apollo [V], vv. 449-450; p. 123). L’Inno VII racconta di Dioniso catturato dai pirati ma che dall’albero della nave fa germogliare una vite dalla quale penzolano succosi grappoli d’uva. La bella e celebre Coppa Exekias di Vulci racconta forse lo stesso episodio, con il dio che fa nascere una vite sulla nave circondata da delfini guizzanti. Dioniso è la misura potente del divino-natura. Di essa partecipano quegli umani nella cui carne prevale il suo elemento e non quello delle ceneri dei Titani. A costoro, che gli gnostici definiranno pneumatikòs, colmi di intelligenza, è affidata la salvaguardia degli enti.

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