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Blackbird

di David Harrower
Piccolo Teatro Studio– Milano
regia Lluís Pasqual
con Massimo Popolizio, Anna Della Rosa, Silvia Altrui
traduzione di Alessandra Serra
sino al 29 maggio 2011

Un uomo e una donna entrano in scena trafelati. Il luogo è pieno di rifiuti di ogni genere: cartacce, bottiglie, avanzi di cibo. Lui, Ray, le dice che ha poco tempo perché i colleghi di là lo stanno aspettando per completare il lavoro; lei, Una, ribatte che deve ascoltarla. «Perché sei venuta qui? Come mi hai trovato? Che cosa vuoi?», sono alcune delle parole che l’uomo le rivolge. È da tanto, infatti, che non si vedono. Da quando, più di dieci anni prima, la dodicenne Una era fuggita con Ray e con lui aveva fatto sesso per poi essere abbandonata. Ma non lo aveva denunciato, no. Erano stati i suoi genitori a farlo. E  Ray ha trascorso degli anni in carcere. Ora ha cambiato nome, ha trovato un lavoro. E quella sera era stato lui a sentirsi abbandonato quando, di ritorno dal pub, non l’aveva più trovata in albergo, l’aveva cercata ovunque, era disperato. Per un istante rinasce in entrambi l’antica passione. Una vuol fare l’amore. Ray sembra cedere ma poi la allontana. «Tu non dovresti essere qui, lo sai».

Frammenti e lampi di un testo asciutto e denso, feroce e dolce. Costruito sull’eredità di Beckett, di Pinter, di McEwan ma capace soprattutto di trasfigurare in lucidità l’orrore di tante vite. Un testo che sa cogliere l’enigma dell’abuso quando non è soltanto perversione ma anche storia d’amore. Una e Ray dicono di essersi pensati ogni giorno. Un pensiero che è un macigno, come ogni pensiero d’amore. I due attori sono magnifici. Sono due corpi, due storie, due linguaggi, due memorie che lottano, si allontanano, si colpiscono, si abbracciano. Rimangono soli.

[Una versione più ampia di questa recensione è apparsa sul numero 11 (maggio 2011) di Vita pensata]

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