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Risultati della ricerca per: edipo

Dark Edipo

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Guido Paduano
Impianto scenico e costumi di Maurizio Balò
Musiche di Marco Podda
Con: Daniele Pecci (Edipo), Melania Giglio (Spettro della Sfinge), Laura Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte), Ugo Pagliai (Tiresia), Mauro Avogadro (Servo di Laio, Sacerdote)
Regia di Daniele Salvo
Sino al 22 giugno 2013

Pecore insanguinate e cadaveri di appestati. Una grande testa della Sfinge. Scale che portano alla reggia e al nulla. Su tutto vaga, aleggia, vola lo spettro della morte. Avanzano su questa scena i cittadini di Tebe, malati e angosciati per la peste che stermina la città. Chiedono a colui che già una volta li ha liberati dal male, a Edipo, di fare di tutto per salvarli ancora. E il re promette che tenterà ogni strada, che non abbandonerà Tebe, che porterà davanti ai propri occhi e a quelli del popolo la causa di tanto lutto. Promette che saprà.
E questa conoscenza arriva. Lo raggela. Lo distrugge. Lo rende cieco di dolore.

ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν
ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν
τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών.

Davvero non puoi dire sereno nessuno degli effimeri, se prima non sia giunto libero da mali al giorno della sua morte. (Οἰδίπους Τύραννος, vv. 1528-1530)

Tutto questo è interpretato a Siracusa in una chiave profonda, dark e funerea. Vi appare lo spettro della Sfinge a volare sopra i tebani, a punirli, a gridare il proprio orrore in un urlo trattenuto e sconvolgente. Espressivi anche i costumi e adeguata la recitazione di tutti tranne, ahimè, quella del protagonista: enfatica, patetica, romantica e televisiva.
La musica che intride questa messa in scena restituisce all’antico dramma la sua natura completa: visuale, scritta e cantata. Si chiude con Edipo che se ne va mentre gli si spalancano le porte di una luce che egli non può vedere. A volte è meglio non sapere. Detto da un greco, è questa la vera tragedia.

 

Edipo, il Sole

Piccolo Teatro Grassi – Milano
La serata a Colono
di Elsa Morante
Con: Carlo Cecchi, Antonia Truppo, Angelica Ippolito
e con (in ordine alfabetico) Giovanni Calcagno, Victor Capello, Salvatore Caruso, Vincenzo Ferrera, Dario Iubatti, Giovanni Ludeno, Rino Marino, Paolo Musio, Totò Onnis, Franco Ravera
Francesco De Giorgi (tastierista), Andrea Toselli (percussionista)
Regia e scene di Mario Martone
Produzione: Fondazione del Teatro Stabile di Torino/Teatro di Roma/Teatro Stabile delle Marche
Sino al 3 marzo 2013

Nel reparto neurodeliri di un ospedale arriva un uomo in barella accompagnato dalla figlia. Ha una benda sugli occhi sanguinanti. Lo circondano la pigra attenzione di medici e infermieri, la burbera assistenza di una suora, le voci dissonanti di altri degenti, ciascuno dei quali è sigillato nella propria follia. D’improvviso si trasformano in un coro implacabile e dolente, in un’altra figlia, in un dio. La ragazza che gli sta accanto diventa Antigone. Il luogo è Colono, ultimo rifugio dell’uomo la cui sciagura è inenarrabile.
La figlia parla senza interruzione, con una cadenza dialettale e dolcissima, in uno slancio di tenerezza senza fine verso il padre. L’uomo si sveglia dal silenzio e dalla cecità per invocare Apollo e la sua luce che mai tramonta, Apollo che lo ha ferito, la vita che lo ha travolto. E sulla scena appare l’uovo d’oro del Sole, l’abbagliante macchina luminosa che ha accecato colui che era certo di vedere più lontano e più a fondo di chiunque altro.
Le parole di questo Edipo sanguinante sono la poesia con la quale Elsa Morante descrive la condizione umana tra emblemi e simboli universali, nel dolore che ogni nascere comporta, nella pena che tutti ci trascina, nell’amore del quale ogni persona è assetata.
Uno spettacolo dinamico nonostante l’immobilità del protagonista, un testo colto e insieme popolare, percorso da allegorie e appassionatamente disperato.

Edipo Re

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Edipo Re
di Sofocle
traduzione di Raul Montanari
con Franco Branciaroli
scene di Pier Paolo Bisleri
regia di Antonio Calenda

La scena è cupa. Ai lati due facciate di palazzi, al centro un lettino sul quale è sdraiato Edipo con davanti a sé un uomo seduto che prende appunti. Evidente il riferimento alla psicoanalisi. È il re che narra a se stesso il proprio delirio. Il coro, Creonte, Giocasta, Tiresia, i pastori che lo salvarono, sono ombre che emergono dal buio della psiche. Giocasta e Creonte non hanno neppure una voce autonoma, è Edipo/Branciaroli a parlare anche per loro. Molto bello, in particolare, il duetto tra il re e Tiresia -cuore della tragedia- nel quale le due voci appaiono davvero due, come se Tiresia raccontasse ciò che da sempre l’inconscio di Edipo sapeva.
Nonostante il peso eccessivo della lettura psicoanalitica, il risultato di questa messa in scena è ancora greco. Gli attori sono tutti maschi; il dramma si colora spesso di grottesco poiché, come sosteneva Platone, «tutto ciò che è umano non è, in complesso, degno di essere preso molto sul serio» (Leggi, 803b); l’inesorabilità della Ananke vi appare subito, sin dai silenzi e dalle ombre iniziali.
Il testo di Sofocle è davvero, in qualunque modo lo si interpreti, uno dei vertici del pensiero greco, e quindi universale.

 

Colono

Teatro Greco – Siracusa
Edipo a Colono
(Oἰδίπoυς ἐπὶ Κολωνῷ)
di Sofocle
Con:
EDIPO | Giuseppe Sartori
ANTIGONE | Fotinì Peluso
ABITANTE DI COLONO | William Caruso
CAPO CORO| Rosario Tedesco, Elena Polic Greco
CORO | Andrea Bassoli, Guido Bison, Sebastiano Caruso, Spyros Chamilos, Gabriele Crisafulli, Manuel Fichera,Elvio La Pira, Emilio Lumastro, Roberto Marra, Jacopo Sarotti, Sebastiano Tinè
ISMENE | Clara Bortolotti
TESEO | Massimo Nicolini
CREONTE | Paolo Mazzarelli
POLINICE | Simone Severini
MESSAGGERO | Pasquale Montemurro

Traduzione: Francesco Morosi
Scene: Radu Boruzescu
Regia di Robert Carsen
Sino al 28 giugno 2025

«Il tempo, grande compagno» restituisce a Edipo quello che Ἀνάγκη gli aveva sottratto: gli affetti e l’onore. Il sovrano di Tebe era stato ridotto – come afferma il Coro – a «uomo del dolore» (potremmo aggiungere, con Isaia 53, 4 e con i Vangeli: «che ben conosce il patire») ma ora è giunto là dove Apollo gli aveva promesso, in un bosco sacro che lo stesso Edipo definisce «sede delle dee venerande», luogo delle Erinni diventate Eumenidi, nei sobborghi di Atene, a Colono.
L’ospite viene temuto dagli abitanti della grande città dell’Attica, poi viene però accolto dal sovrano Teseo, al quale Edipo assicura che, se accoglierà «l’intoccabile», grande vantaggio ne verrà per Atene. Là dove infatti Edipo avrà la sua tomba, quel luogo durerà per sempre. Questo ha stabilito il dio, questa è la volontà di Apollo.
Ed è per tale motivo che Creonte, suo cognato, si precipita da Tebe allo scopo di riportarlo nella città di cui Edipo era stato sovrano ma dalla quale proprio Creonte, insieme a Polinice, figlio maggiore di Edipo, lo aveva mandato via. Creonte usa apertamente la violenza, con le parole e con i fatti. Rapisce persino le figlie di Edipo, Ismene e Antigone, pur di ricattarlo; si spinge infine a prenderlo con la forza. Ma Teseo lo impedisce, riportando le ragazze ad Atene.
Teseo accusa aspramente Creonte di essere arrivato come straniero ma di non rispettare le leggi e la dignità del luogo che adesso lo ospita, cosa che invece qualunque straniero deve fare (e ciò sia ricordato anche agli ‘accoglienti’ che invocano il modello greco senza sapere di che cosa stiano parlando).
E dunque il sovrano dell’Attica si mostra ancora una volta esemplare, portando a compimento le sue promesse, nonostante l’avviso che aveva dato a Edipo di essere «soltanto un uomo. Sul domani non ho più potere di te». Anche Polinice, giunto inutilmente a Colono per ottenere il perdono paterno, conferma che «è nelle mani di un dio che vada in un modo o nell’altro» la sua guerra con Eteocle, così come ogni intento degli uomini in questo mondo.
Il dio nel quale tutto abita, accade e si scioglie è il tempo. Il saggio Edipo afferma infatti che «a parte gli dèi, che non soffrono e non muoiono, tutto il resto lo sconfigge il potere del tempo», il quale insieme alla Necessità e alle Eumenidi, restituisce gloria al sovrano di Tebe, conducendolo a finire i propri giorni nel luogo consacrato alle dee e permettendo così che «l’abisso dei morti lo prenda con sé, senza dolore».
Questa tragedia così singolare, così serena, è raccontata da Robert Carsen con una semplicità veramente magnifica e con una eleganza che le scene di Radu Boruzescu esprimono già dal boschetto dove spira una pace profonda e nelle scene in cui il coro purifica gli spazi versando acqua lustrale sui sentieri che portano a Colono.
Il protagonista è interpretato con plausibile forza e dolore da Giuseppe Sartori, il quale era già stato il sovrano di Tebe nell’Edipo Re sempre di Carsen del 2022. E come nella precedente tragedia Sofocle fa dire anche qui al Coro che «non nascere è il destino migliore», una verità che i Greci di continuo ripetono, come fosse una semplice ovvietà.
«Il tempo vede tutto, vede sempre», il tempo che a Colono vede compiersi una gioia serena. Per questo, afferma il Coro, «è qui che trionfa Dioniso».
Qui, nelle parole dei tragici greci che sempre ritornano a fare di Siracusa un luogo anch’esso sacro. 

Foglie

Recensione a:
Pio Colonnello
Fragilità. Una condizione umana
Mimesis 2024, pp. 126

Edipo, le foglie, la condizione umana
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
9 dicembre 2024
pagine 1-5

Le nostre domande, le nostre risposte, sono forse il frutto del vento teoretico ed esistenziale che ci spinge nel tempo e dentro il tempo. E infatti la metafora più antica ed efficace della fragilità umana e di ogni animale è quella che da Omero arriva a Ungaretti e per la quale gli umani sono la fragilità stessa della materia, sono come foglie che «il vento ne sparge molte a terra, ma rigogliosa la selva / altre ne germina, e torna l’ora della primavera: / così anche la stirpe degli uomini, una sboccia e l’altra sfiorisce». Tutte le generazioni rimangono composte da «miserabili, che simili a foglie una volta si mostrano / pieni di forza, quando mangiano il frutto dei campi, altra volta cadono privi di vita».
Nell’autunno nel quale si sta come foglie pronte a cadere dal loro albero, le pagine di Pio Colonnello rappresentano molto più di un conforto teoretico e letterario; esse costituiscono infatti un gesto di comprensione profonda, e dunque di accettazione vera, della fragilità che ci costituisce.

Allievi 2022

Ribadisco con soddisfazione quanto scrivevo lo scorso anno a proposito del talento di molti studenti dell’Università di Catania. L’elenco delle pubblicazioni uscite nell’anno solare 2022 conferma le loro capacità, la loro crescita, il transitare dall’identità di studenti a quella di riconosciuti studiosi. A questo elenco di pubblicazioni bisogna infatti per molti aggiungere la partecipazione a progetti di ricerca, l’essere stati relatori in convegni, l’aver svolto attività didattiche. Due di loro hanno pubblicato dei libri di grande rilevanza, dedicati uno a Husserl e alla fenomenologia enattiva, l’altro alle radici gnostiche della filosofia di Heidegger.
[I link che compaiono in quasi tutti i titoli rimandano ai pdf integrali dei testi o a ulteriori informazioni].

Davide Amato

Daria Baglieri

Nicoletta Celeste

Sarah Dierna

Lucrezia Fava

Elvira Gravina

Marco Iuliano

Simona Lorenzano

Enrico Moncado

Andrea Pace Giannotta

Enrico Palma

Marcosebastiano Patanè

Stefano Piazzese

Maria Emanuela Randazzo

 

Aggiungo infine il libro di Marco Christian Santonocito, che non è un mio allievo ma un giovane collega di Catania appassionato ed esperto di filosofia: Il tempo tra oriente e occidente, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 372

Nemesi e dismisura

Nemesi e dismisura
in il Pequod , anno 3, numero 5, giugno 2022, pagine 7-14

Indice del saggio
-Tracotanza
-Nemesi
-Un conclusione politeistica

Leggere oggi Nemesi medica (uscito nel 1976) significa disvelare sotto una luce radente e profonda le radici, le manifestazioni e soprattutto il significato del presente.
È accaduto che si sia invertito l’ordine naturale e logico del rapporto tra salute e malattia, è accaduto che si sia diventati tutti pazienti senza essere malati, è accaduto che «il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato. […] Risultato: una società morbosa che chiede una medicalizzazione universale, e un’istituzione medica che attesta una universale morbosità» (Ivan Illich); è accaduta un’aggressione del corpo collettivo verso se stesso, la metastasi di una parte tesa a consumare il tutto; è dilagata una malattia sociale, politica e civile.
E questo nonostante il fatto che «studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate da entrambi ma non impressionate né dagli uni né dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari» (Illich).
Ciò che sta accadendo da due anni a oggi è dunque un esempio del concetto chiave dell’analisi di Illich: iatrogenesi.
L’attacco è stato e continua a essere furibondo nei confronti dell’immunità naturale, la quale è il fondamento e la condizione che consente alla nostra specie, come alle altre, di non essere spazzata via dalla miriade di agenti patogeni che abitano la Terra. Una medicina sana favorisce e rafforza l’immunità dei corpi, una medicina malata danneggia e indebolisce l’immunità naturale. Infatti, «fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall’immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione» (Illich), che – come si sa – hanno la tendenza a diventare i suoi incubi.
Per millenni e sino alla fine dell’Ottocento il medico, o chi per lui, è stato addestrato e abituato a riconoscere la facies hippocratica, i segni della morte imminente e inevitabile, in base ai quali deve subentrare il rispetto per la persona che nel ciclo naturale e infinito lascerà il posto ad altre forme e ad altre vite. Lasciare andare il morente, accompagnarlo con l’abbraccio dei suoi cari, è stato un preciso dovere, sostituito ora dall’accanimento insensato che fa morire gli umani in una solitudine meccanica e ambientale che è il più atroce esito della nemesi medica.
Nel 1976 Illich enunciava un’affermazione icastica e feroce, che il tempo ha confermato, vale a dire «la servile subordinazione della classe medica italiana nei confronti dell’industria farmaceutica». Una subordinazione che è data certamente dalla secolare condizione di colonizzazione degli italiani, compresi i loro intellettuali e tecnici, e da un tessuto politico particolarmente corrotto ma che è anche e soprattutto espressione di un radicato e più generale rifiuto del πέρας, del limite, della consapevolezza della finitudine, che è – semplicemente – l’intelligenza del mondo.

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Tali sono alcune delle tesi che ho cercato di argomentare in questo saggio che esce in un numero assai ricco del Pequod, sul quale hanno scritto molti amici e allievi, a cominciare dal suo ideatore Enrico Palma. L’indice completo lo si trova anche nel pdf ma ricordo qui che tra i contributi ci sono quelli di Davide Amato, Nicoletta Celeste, Sarah Dierna, Stefano Piazzese, Mattia Spanò, del collega Antonio Sichera. Insieme ad alcuni di questi studiosi e ad altri, abbiamo anche scritto una riflessione collettiva dedicata alla messa in scena del’Edipo Re quest’anno a Siracusa: Edipo Re. Una nota filosofica, esperimento riuscito di pensiero collettivo, segno certo di salute.

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