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Risultati della ricerca per: colonna infame

Dreyfus

J’accuse
di Roman Polański
Con: Jean Dujardin (Marie Georges Picquart), Grégory Gadebois (Joseph Henry), Louis Garrel (Alfred Dreyfus), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Didier Sandre (Raoul Le Mouton De Boisdeffre), Damien Bonnard (Jean-Alfred Desvernine)
Sceneggiatura di Robert Harris [II]
Francia, 2019
Trailer del film

«Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia».
Questa affermazione di Alessandro Manzoni (Storia della colonna infame, in «Tutte le opere», G. Barbèra Editore 1923, p. 772) costituisce un paradigma del potere giudiziario quando esso viene esercitato, e spesso è così che viene esercitato, a difesa di istituzioni e di gruppi che pongono le leggi al proprio servizio. A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che le leggi da sole non bastano, neppure le migliori (Platone era forse su questo punto troppo fiducioso) e che le forme giuridiche possono con relativa facilità essere piegate a un interesse parziale. È quanto può accadere nel Seicento, nell’Ottocento, nel XXI secolo.
Come la Colonna infame comincia in una mattina di giugno del 1630, così J’accuse inizia in una mattina di gennaio del 1895, quando il capitano Alfred Dreyfus  (qui a sinistra) viene pubblicamente degradato nel cortile dell’École Militaire di Parigi e subito dopo inviato come prigioniero all’isola del diavolo, uno scoglio nell’Atlantico. Dreyfus è stato infatti riconosciuto colpevole di spionaggio a favore della Germania. Tra gli inquirenti, il maggiore Georges Picquart (foto in basso), il quale condivideva l’ostilità verso gli ebrei che pervadeva la Francia della Terza Repubblica. Quando viene chiamato a dirigere i Servizi Segreti, Picquart comprende tuttavia che l’ebreo Dreyfus è innocente e che la spia è Jean Marie Auguste Walsin-Esterhazy, un soggetto assai corrotto, diventato ufficiale in maniera truffaldina. Ma i capi di Picquart rifiutano qualunque ipotesi di riapertura del processo e allontanano Picquart. Anche per questo Émile Zola il 13 gennaio 1898 pubblica il suo J’accuse contro lo Stato Maggiore dell’esercito francese. I poteri politico, militare e giudiziario reagiscono in modo scomposto, condannando sia Zola sia Picquart. Dopo alcuni anni, Picquart e Dreyfus vengono riconosciuti innocenti ma Esterhazy e i generali francesi non saranno mai condannati.
Il modo nel quale Roman Polański racconta il più famoso caso giudiziario della modernità è esemplare per freddezza e rigore formale. Il film rispetta il principio fondamentale del naturalismo francese e del verismo italiano: un’«opera d’arte [che] sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore» (Verga, L’amante di Gramigna, in «Tutte le novelle», Einaudi 2015, p. 187). I colori accesi delle uniformi si stagliano sullo sfondo scuro dei cieli, le passioni più feroci sono a stento trattenute dentro le strutture formali dell’esercito e dei tribunali, la miseria della storia emerge in tutta la sua ampiezza.
L’esercito francese è sempre stato quello del caso Dreyfus, delle torture praticate durante la guerra d’Algeria, del sadismo che pervade Paths of Glory (1957), il capolavoro con il quale Stanley Kubrick ha detto una parola decisiva non soltanto su tutti gli eserciti del mondo, i cui capi gettano nel fango e nella morte milioni di soldati mentre se ne stanno tranquilli nei loro confortevoli uffici, ma anche sulle conseguenze che ogni struttura rigidamente gerarchica ha sui comportamenti di chiunque, e in generale sulla natura umana. In quel film -che narra la vicenda di tre soldati francesi scelti a caso e fucilati per codardia durante la Prima guerra mondiale- non è della guerra che si parla ma della tenebra delle relazioni umane. Quella che Marcel Proust ha descritto con una precisione scintillante e che, a proposito dell’Affaire, gli fece scrivere questo: «Si perdonano i delitti individuali, ma non la partecipazione a un delitto collettivo. Quando lo seppe antidreyfusista, mise fra sé e lui dei continenti e dei secoli; il che spiegava come, da una tale distanza nel tempo e nello spazio, il suo saluto fosse sembrato impercettibile a mio padre, e lei dal canto suo non avesse pensato a una stretta di mano e a parole che non avrebbero potuto valicare gli abissi che li separavano» (I Guermantes, trad. di M. Bonfantini, Einaudi 1978, p. 161). Uno scrittore amico di Proust, Paul Morand, nel suo 1900 così descrive gli effetti del caso Dreyfus: «L’Affare aveva scatenato degli odi implacabili, aveva diviso delle famiglie, distrutto dei focolari, guastato le più vecchie amicizie: aveva spezzato in due il paese, con una violenza di cui soltanto le guerre di religione possono darci un termine di confronto» (citato da Carlo Emilio Gadda in Divagazioni e garbuglio, Adelphi 2019, p. 28).
Naturalmente nella vicenda Dreyfus a contare fu non la verità, che era abbastanza evidente a tutti, ma il potere e il modo in cui la storia umana, vale a dire una particolare conformazione della biologia, lo esercita.
Nella recensione che ha dedicato al film, Pasquale D’Ascola ha riportato per intero il testo di Zola, con una parziale traduzione in italiano. D’Ascola fa dell’opera di Polański un documento, una prova, un J’accuse rivolto contro l’oblio che dimentica i criminali e quindi li assolve, contro la demenza di «una banda di indemoniate» simili alla banda dei generali di Zola, contro la viltà di un linguaggio che trasforma l’icasticità dell’originale nella melensaggine di un titolo italiano senza forza e senza senso, qual è L’ufficiale e la spia. E tutto questo trasmettendo il rigore formale e la potenza narrativa di uno splendido film.

«Della più elementare intelligenza»

Che cosa significhi e che cosa sia l’intelligenza è questione assai dibattuta. Propongo la lettura di un testo che mostra l’intelligenza all’opera. Si tratta della Relazione di minoranza del deputato Leonardo Sciascia, redatta il 22 giugno 1982 per la «Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia» (Legislatura VIII —- Disegni di legge e relazioni-documenti, pp. 397-413).

A 38 anni di distanza da un evento che ha determinato la storia Italia, volgendola in farsa tragica, è ormai del tutto evidente che le Brigate Rosse costituirono il braccio armato di forze e organizzazioni ben collocate dentro lo Stato italiano e promosse dagli Stati Uniti d’America. Recenti acquisizioni mostrano che la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani erano presenti uomini della ‘ndrangheta. Da parte sua, Claudio Signorile -all’epoca vicesegretario del Partito Socialista Italiano- ha ribadito quanto ha dichiarato più volte, vale a dire che «in realtà la morte di Moro era funzionale a interessi terzi, categoria sulla quale Signorile insiste molto, cioè altre organizzazioni o intelligence internazionali; il potere reale alle fine, dice ancora, era nelle mani di chi controllava l’ostaggio e non è detto che fossero le Br» (Fonte il Fatto Quotidiano, 17.7.2016).

Si trattò, insomma, di un omicidio di Stato, come la più parte dei grandi crimini che sono avvenuti in Italia dal 1945 in poi.
Metto qui a disposizione l’intero volume che comprende la Relazione di Sciascia. Mi limito a riportare alcuni brani di un testo letterariamente splendido e concettualmente argomentato, acuto, libero, ironico, lucido, distante e appassionato. Di un testo, vale a dire, intelligente.

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La domanda prima ed essenziale cui la Commissione ha il dovere di rispondere, a noi appare invece questa: perché Moro non è stato salvato nei cinquantacinque giorni della sua prigionia, da quelle forze che lo Stato prepone alla salvaguardia, alla sicurezza, all’incolumità dei singoli cittadini, della collettività, delle istituzioni? (p. 400).

Si può nettamente rispondere che non solo le carenze ci furono, ma che ai tentativi della Commissione per accertarle sono state opposte denegazioni così assolute da apparire incredibili (400).

Leonardi aveva chiesto altri uomini, al Ministero dell’Interno: forse in più, forse in sostituzione di quelli che già aveva e che non gli pareva fossero «ben preparati per il servizio che dovevano svolgere». Questa richiesta, che la signora Leonardi colloca tra la fine del 77 e il principio del 78, non ha lasciato traccia né nei documenti né nella memoria di chi avrebbe dovuto riceverla. […] Il che, ribadiamo, non è credibile: Leonardi può non aver parlato col generale Ferrara, ma con qualcuno dei «comandi gerarchici della capitale» ha parlato di certo. Che ne sia scomparsa ogni traccia e che lo si neghi è un fatto straordinariamente inquietante. (401-402)

Prevalentemente condotte «a tappeto» (e però, come si vedrà, con inconsulte eccezioni) le operazioni di quei giorni erano o inutili o sbagliate. Si ebbe allora l’impressione — e se ne trova ora conferma — che si volesse impressionare l’opinione pubblica con la qualità e la vistosità delle operazioni, noncuranti affatto della qualità. […] Che senso aveva istituire posti di blocco, controllare mezzi e persone, la mattina del 16 marzo, a Trapani o ad Aosta? Nessuno: se non quello di offrire lo spettacolo dello «sforzo imponente». Si partì dunque — per volontà o per istinto — verso effetti spettacolari e forse confidando nel calcolo della probabilità (che non funzionò). Ed è comprensibile che per conseguire tali effetti si sia trascurato l’impiego di forze meno imponenti ma più sagaci per dare un corso meno vistoso ma più producente alle indagini: a tal punto che la Commissione si è sentita rispondere dall’allora questore di Roma che mancava di uomini per un lavoro di pedinamento che non ne avrebbe richiesto più di una dozzina; mentre solo a Roma 4.300 agenti spettacolarmente ma vanamente annaspavano. (403)

Intanto il giorno 18 — il terzo dei cinquantacinque — la polizia, nelle sue operazioni di perquisizione a tappeto, arrivava all’appartamento di via Gradoli affittato a un sedicente ingegnere Borghi, più tardi identificato come Mario Moretti. Vi arrivò: ma si fermò davanti alla porta chiusa […] e in ordine all’istinto e al raziocinio professionale una porta chiusa, una porta cui nessuno rispondeva, doveva apparire tanto più interessante di una porta che al bussare si apriva. E tanto più che il dottore Infelisi, il magistrato che conduceva l’indagine, aveva ordinato che degli appartamenti chiusi o si sfondassero le porte o si attendesse l’arrivo degli inquilini. Ordine eseguito in innumerevoli casi, e con gran disagio di cittadini innocenti; ma proprio in quell’unico caso (unico per quanto sappiamo), che poteva sortire a un effetto di incalcolabile portata, non eseguito. Pare che l’assicurazione dei vicini che l’appartamento fosse abitato da persone tranquille, sia bastata al funzionario di polizia per rinunciare a visitarlo: mentre appunto tale assicurazione avrebbe dovuto insospettirlo. È pensabile che le Brigate Rosse non si comportassero tranquillamente e anzi più tranquillamente di altri, abitando piccoli appartamenti di popolosi quartieri? (404-405)

Il suggerimento della signora Moro, di cercare a Roma una via Gradoli, non fu preso in considerazione; le si rispose, anzi, che nelle pagine gialle dell’elenco telefonico non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era scomodati a cercarla, quella via, nemmeno nelle pagine gialle: poiché c’era. (405)

E a questo punto altro garbuglio, altro mistero: i giornalisti arrivarono prima della polizia; i carabinieri seppero della scoperta soltanto perché riuscirono a intercettare una comunicazione radio della polizia. (405)

Il qual materiale, a giudizio del dottor Infelisi non apportava alcuna indicazione relativamente al luogo in cui poteva trovarsi Moro; ma sente il bisogno, il giudice, di mettere questo inquietante inciso: «almeno quello di cui io ho avuto conoscenza»: così aprendo come possibile il fatto che possa esserci stato del materiale sottratto alla sua conoscenza. Insomma: tutto quel che intercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al covo di via Gradoli attinge all’inverosimile, all’incredibile: spiriti (che in una lettera inviata dall’onorevole Tina Anselmi alla Commissione appaiono molto meglio informati di quanto poi riferito dai partecipanti alla seduta), provvidenziale dispersione d’acqua (ma la Provvidenza aiutata, per distrazione o per volontà, da mano umana), assenza della più elementare professionalità, della più elementare coordinazione, della più elementare intelligenza. (406)

Ma a chi, in Commissione, si meravigliava non avere la polizia presa una così elementare misura, come quella di far sorvegliare i capi dell’Autonomia, il questore De Francesco rispondeva che mancava di uomini. E ne teneva impegnati più di 4000 in operazione di parata! (407)

Ci si chiede da che tanta estravaganza, tanta lentezza, tanto spreco, tanti errori professionali possano essere derivati .(408)

Ma crediamo che l’impedimento più forte, la remora più vera, la turbativa più insidiosa sia venuta dalla decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate Rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva (riconoscimento ormai quasi unanime: appunto perché come postumo, come da necrologico) era stato fino alle 8,55 del 16 marzo. (408)

Non si vede perché Moro, uomo di grande intelligenza e perspicacia, avrebbe dovuto comportarsi come un cretino: se gli era consentito di guadagnar tempo e di comunicare con l’esterno, di queste due favorevoli circostanze non poteva non approfittare. […] La cifra dei suoi messaggi poteva, per esempio, essere cercata nell’uso impreciso di certe parole, nella disattenzione appariscente. Quando Cossiga e Zaccagnini, per dire delle condizioni in cui Moro si trovava, citano la frase di una sua lettera (quella, appunto, diretta a Cossiga ministro dell’Interno): «mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato», è curioso non si accorgano che proprio questa contiene una incongruenza e che non definisce precisamente il tipo di dominio sotto cui Moro si trovava. Che vuol dire, infatti, «incontrollato»? Chi poteva o doveva controllare le Brigate Rosse? E perciò appare attendibilissima (e specialmente dopo le rivelazioni degli ex brigatisti) la decifrazione che ci è stata suggerita: «mi trovo in un condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia». (409-410)

Un ultimo particolare si vuole mettere in evidenza, a dimostrare come la volontà di trovare Moro veniva inconsciamente deteriorandosi e svanendo. Subito dopo il rapimento, venne istituito un Comitato Interministeriale per la Sicurezza che si riunì nei giorni 17, 19, 29, 31 del mese di marzo; una sola volta in aprile, il 24; e poi nei giorni 3 e 5 maggio. Ma quel che è peggio è che il Gruppo politico-tecnico-operativo, presieduto dal ministro dell’Interno e composto da personalità del governo, dai comandanti delle forze di polizia e dei servizi di informazione e sicurezza, dal questore di Roma e da altre autorità di pubblica Sicurezza, si riunì quotidianamente fino al 31 marzo, ma successivamente tre volte per settimana. Solo che di queste riunioni dopo il 31 non esistono verbali e «non risultano agli atti nemmeno appunti». Ed era il gruppo — costituito con giusto intento — che doveva vagliare le informazioni, decidere le azioni, avviarle e coordinarle.

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Eppure in quei 55 giorni del sequestro Moro le informazioni riservate non mancarono, soggetti onesti operarono, circostanze favorevoli ci furono.«Ma -scrive Sciascia- appunto dei vantaggi non si è saputo fare alcun uso» (p. 404). Un’affermazione illuminante, quest’ultima, e che mi ha ricordato il brano di un libro da Sciascia molto letto e molto amato.

«Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?»
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, «Introduzione».

[Devo la segnalazione di questo documento a Dario Sammartino, che ringrazio ancora una volta]

Mente & cervello 59 – Novembre 2009

M&C_59

Psichiatria e psicologia possono essere utili ma possono anche fare molto danno se agiscono al di fuori dello spazio antropologico ed esistenziale dei soggetti sui quali esercitano il loro potere. Un solo esempio: il “caso clinico” di questo numero di M&C. Una donna del Sud d’Italia, nelle cui terre è abitudine erigere altari in casa ai defunti e parlare con loro, si trasferisce dopo la morte del marito in una città del Nord, dove viene giudicata folle -depressa, schizofrenica, schizotipica, schizoide…- quando invece tutte le vedove del suo paese si comportano allo stesso modo.

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Sulla Guerra

 

 

E, nel bel mezzo di questa decadenza, le guerre per la «patria», questo ridicolo rigurgito del patriottismo che, per ragioni economiche, già tra cent’anni sarà una commedia…Questo sterminio degli uomini migliori a opera della guerra.
(Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, Adelphi, pag. 221)

La guerra non è mai finita. È una condizione indelebile dell’anima, data insieme al cosmo.
(James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, pag. 47)

 

 


San Martino è sempre
(30 agosto 2013)

 

 


Davide e Golia
(20 novembre 2012)

 

 


Imperialismo
(5 novembre 2012)

 


Al-Ciaeda
(29 maggio 2012)

 


Più morti degli altri
(marzo 2012)

 


Le armi e i sacrifici
(novembre 2011)

No alle assurde e criminali spese per i cacciabombardieri

 

 

 


Identità e differenza
(ottobre 2011)

 


Il terrore come non lo avete mai visto
(maggio 2011)

 


Bombe e baci
(aprile 2011)

 

 


La II guerra di Libia
(marzo 2011)

 


Terrore e silenzio
(dicembre 2010)

 


Se questo è un uomo
(maggio 2010)


Zolo, Schmitt, Hiroshima

 



I nostri morti e i loro
(settembre 2009)

 


Redacted
di
Brian
De Palma
(agosto 2009)



Death of  a President
di
Gabriel Range
(marzo 2007)



Intervista rilasciata a Radio Italia Iran sull’aggressione israeliana del Libano

File audio dell’intervista 1

File audio dell’intervista 2

(agosto 2006)


ARTICOLI SU GIRODIVITE.IT

(2005-2008; gli articoli successivi sono stati pubblicati anche su biuso.eu)

 

Cancellare i palestinesi dalla faccia della Terra
31 dicembre 2008

I cantori del massacro
4 novembre 2008
Il 4 novembre non c’è nulla da festeggiare

Enola Gay
6 agosto 2008
60 anni di liberazioni

Europa, non Occidente
20 luglio 2008

Mobilitazione totale
23 settembre 2007
Le fotografie di Ernst Jünger

Bin Laden, lo svizzero
11 settembre 2007
Puntualità e propaganda sull’11 settembre

La Biblioteca di Baghdad
7 settembre 2007
Una civiltà stuprata

Le SS di Washington
20 marzo 2007
I “disertori” dell’esercito statunitense raccontano le guerre americane

L’Italia a stelle e strisce
8 febbraio 2007
Un comunicato della Federazione Anarchica Italiana

Vietare e tacere, tacere e vietare…
26 gennaio 2007
L’introduzione dello psicoreato nei sistemi democratici

La Grande Faida dei petrolieri texani
30 dicembre 2006
«Io ritengo che la giustizia altro non sia che l’interesse del più forte»

Il terrore di Israele
30 luglio 2006
Nessuno canterà i bambini di Cana…

Lo squallore del Centrosinistra
25 luglio 2006
Dalle guerre alle corporazioni, dall’indulto all’informazione e al calcio, è l’Italia di sempre…

Israele va alla guerra, ancora una volta
14 luglio 2006
La politica come vendetta

D’Alema, l’Amerikano
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La Guerra italiana contro il popolo iracheno continua

Gli Stati Uniti d’America, un «Paese canaglia»
23 marzo 2006
Da dove viene e a chi serve il terrore

La Storia e i tribunali
14 dicembre 2005
Il controllo giudiziario della storiografia

Ti torturo per il tuo bene
6 dicembre 2005
«Tutto l’emisfero sarà nostro di fatto, così come in virtù della nostra superiorità di razza è già nostro moralmente»
(William Howard Taft, Presidente degli USA 1908-1912).


Fallujah come Sodoma e Gomorra


IL VERO NEMICO DELL’EUROPA

(novembre 2005)

Le rivelazioni sulla disinformazione che la Cia e i servizi segreti italiani hanno messo in atto per giustificare l’aggressione armata contro l’Irak, il completo disordine e la vera e propria guerra civile in corso in quel Paese, i silenzi, la parzialità, la falsificazione delle notizie operata dai democratici telegiornali e sulla stampa italiana, stimolano qualche breve riflessione a quasi due anni, ormai, dall’inizio della guerra.

Quanto sta accadendo in Irak -e quanto è avvenuto nella seconda metà del Novecento in Corea, Vietnam, Cile e intero Centro e Sudamerica, Africa, Afghanistan…- conferma che gli Stati Uniti d’America sono una Nazione fondata su tre capisaldi: il danaro, la violenza, la menzogna.

Danaro, il cui conseguimento -come ha mostrato Max Weber- era segno per i Padri Fondatori della benevolenza divina e della predestinazione alla salvezza già in questa vita. Il riferimento ultraterreno si è attenuato ma la ricerca del profitto a tutti i costi è nel dna di quel popolo. È anche per questa ragione che negli Usa i non abbienti vengono lasciati nella malattia e nella miseria, privi di assistenza sanitaria e di garanzie: “se sono poveri è perché già da ora Dio li ha abbandonati”. Le guerre statunitensi sono guerre per il danaro, il petrolio, il controllo delle risorse mondiali, mascherate -agli occhi degli ingenui- da guerre per la democrazia.

Violenza. Già le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki avrebbero dovuto aprire gli occhi sul potenziale di distruzione dell’armamento statunitense, che aveva dato prova di sé nel radere al suolo una città strategicamente inutile e abitata solo da civili come Dresda. Dove mettono piede, gli statunitensi portano lutti, morte e terrore, sempre. La loro è, infatti, una Nazione costruita sul genocidio dei nativi Pellerossa e sulla messa in schiavitù dei neri deportati dall’Africa, una Nazione che nel 1823 -con il Presidente Monroe- proclamò il diritto a fare dell’America Latina un’appendice dei propri interessi, che con i 14 punti del Presidente Wilson impose nel 1918 una visione fondamentalista della politica mondiale, che si ritiene l’unica autorizzata a detenere arsenali atomici e a controllare quelli degli altri, che si giudica eletta da Dio per il dominio del pianeta, che è quindi convinta di avere Dio dalla propria parte, esattamente come i nazionalsocialisti, i sionisti, i fondamentalisti islamici.

Menzogna. Il più grande successo degli USA non è militare, politico o economico ma si pone sul piano della cultura e dei simboli. Questo Paese ha convinto il mondo intero di costituire il baluardo della democrazia, mascherando la propria natura di Impero finanziario e militare. L’ascesa e la conferma di George W. Bush alla Presidenza del Paese sono state un vero e proprio imbroglio elettorale e mediatico, come una serie ormai nutrita di documenti ha dimostrato. Gli Stati Uniti d’America non sono un Paese democratico ma uno dei più grandi pericoli per la libertà dei popoli del mondo.

Fra questi popoli, ci sono gli Europei. Il processo di unificazione del Vecchio Continente, le sue potenzialità produttive, la forza ormai evidente dell’Euro nelle contrattazioni internazionali, la ricchezza della nostra storia, la bellezza e la misura delle nostre città, sono tutti elementi che gli strateghi statunitensi hanno perfettamente compreso costituire un abisso fra la loro visione del mondo, i loro interessi e quelli dell’Europa. Ecco perché trattano i Governi europei ora come dei fedeli servi (Inghilterra, Italia), ora come dei veri e propri nemici (Francia e, in parte, Germania). All’inverso di ciò che molta propaganda vuol far credere, non siamo noi a essere antiamericani ma sono gli USA a essere antieuropei; sono gli interessi economici, militari e geopolitici statunitensi a far ritenere a molta opinione pubblica -ma soprattutto alla classe dirigente- di quel Paese che l’Europa debba rimanere sempre più sottomessa alle decisioni della superpotenza atlantica.

Fino a che non comprenderemo -come cittadini e come classi dirigenti- questa banale verità, non capiremo che il vero nemico dell’Europa oggi più che mai non sono i cinesi, i giapponesi, i Paesi islamici ma gli USA, il cui dominio sulle nostre vite è completo anche e soprattutto attraverso l’imposizione dei modelli di vita, degli spettacoli, dei prodotti televisivi, di quella società dello spettacolo che Guy Debord descrive come «il sole che mai tramonta sull’impero della moderna passività» (La société du spectacle, Gallimard 1992, af. 13, pag. 21)

Difendere la nostra differenza e l’identità di «vecchi europei», come ci accusano di essere i corifei del potere statunitense, è ormai essenziale per conservare le nostre risorse economiche, la bellezza e la profondità della nostra cultura, le vite dei nostri concittadini che vengono mandati a morire per difendere gli interessi di una delle Nazioni più volgari, avide e brutali che abbiano mai dominato il mondo.


L’IRAK E IL LEVIATANO

(febbraio 2005)

Lasciando oggi (22.2.05) l’Irak, l’inviato di Repubblica Renato Caprile scrive che «adesso i giornalisti italiani sembrano veramente nel mirino. (…) E che le cose siano veramente serie me ne sono reso conto ieri pomeriggio al momento di andar via. Tre carabinieri del Tuscania sono venuti a prendermi in assetto di guerra. Nella hall il signor Ahmid, freddo e impassibile, mi ha chiesto di pagare il supplemento per il ritardo nel lasciare la stanza. Sapeva delle minacce ma non ha fatto una piega. Noi stranieri siamo tutti uguali per lui. È gentile ma non ci ama, certo non si preoccupa per noi. (…)
I parà con il mitra in pugno fuori dai finestrini. Un piccolo brivido ad ogni fermata, ad ogni auto che ci tagliava la strada. E il trasferimento all’ambasciata che ricordavo dai tempi della guerra. Anche qui si capisce subito come sono cambiate le cose: cavalli di frisia, sacchetti di sabbia e un labirinto di sbarramenti in cemento per arrivare al portone blindato. Dentro c’è un bunker all’italiana. I parà giocano a ping pong e cucinano la pizza. Fuori ci vanno il meno possibile ma sempre più degli americani che continuano a dire che i nostri sono pazzi e che rischiano troppo»

Ecco, questo è l’Irak democratizzato, nel quale si sono svolte delle regolari elezioni. Questo è il deserto umano, economico, culturale nel quale gli Stati Uniti e i loro servi stanno trasformando la Mesopotamia. Questa è la gratitudine che gli irakeni mostrano nei confronti non dei militari soltanto ma anche dei civili e dei giornalisti di uno dei Paesi che si è mosso a «liberarli». Sembra una conferma delle tesi di Carl Schmitt, secondo il quale con la comparsa del grande Impero inglese sull’acqua, muta radicalmente il modo di combattersi degli uomini fra di loro. Nella guerra terrestre, infatti, a fronteggiarsi in campo aperto sono quasi sempre soltanto le truppe, i soldati, gli armigeri. La guerra marittima, invece, tende a colpire le risorse dell’avversario, a strozzare la sua economia, a cannoneggiare le sue coste e le città, a coinvolgere l’intera popolazione diventata tutta e inevitabilmente «nemica». È la guerra totale, inventata dalla potenza marittima e calvinista inglese. Il suo dominio durò per più di due secoli, fino a quando trasformandosi da “pesce” a “macchina”, con la Rivoluzione industriale la Gran Bretagna sembrò attingere a una potenza incontrastata che invece di fatto rappresentò l’inizio della sua crisi. Con la meccanizzazione, infatti, vennero meno lo slancio iniziale e il dominio sulle tecniche della navigazione a vela e un’altra più potente “isola” calvinista si sostituì progressivamente all’antica madrepatria. Agli inizi del Novecento, l’ammiraglio americano Mahan propose la riunificazione fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, allo scopo di garantire la perpetuazione del dominio anglo-americano sul mondo.

La potenza secolare dell’elemento marino -il Leviatano- ha contribuito allo sviluppo dell’aviazione e del fuoco che distrugge dall’alto. I due nuovi elementi -l’aria e il fuoco- delineano un’ulteriore trasformazione tesa alla sottomissione e al controllo dell’antico elemento terrestre. Il grande uccello mitologico, il Grifo Ziz, combatte per la sottomissione della Terra Behemot. Nella prima metà del Novecento nacque così, attraverso scontri e distruzioni immani, un nuovo nomos della Terra, quello che dal 1945 al tempo presente ha controllato il pianeta, sconfiggendo l’Europa continentale, lanciando un fuoco immane e distruttore sul Giappone, imponendo all’intera umanità la globalizzazione dei suoi modelli di vita, della sua lingua, della sua economia, del suo modo mercantile e brutale di intendere le relazioni fra gli uomini e gli stati.


INFAMIE


(gennaio 2005)

«E del resto c’è in tutta questa storia qualcosa di più forte che lo schifo». È per questo “qualcosa” che lo scritto manzoniano merita di essere letto, riletto e meditato. L’obiettivo di Manzoni è molto semplice: dimostrare con tutti i documenti disponibili e ogni possibile testimonianza «che que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti». In questo senso l’ignoranza e la tortura non furono le uniche cause né le principali dell’«infernale sentenza» ma ne costituirono «la prima un’occcasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo». Fu il furore, un furore massiccio, cieco, unanime, a guidare i giudici e il Senato di Milano a massacrare nell’estate del 1630 «contro ogni legge, contro ogni autorità, contro ogni ragione» Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, innocenti ma condannati in quanto untori a essere «tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l’ossa con la rota; e in quella intrecciati vivi e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse “infame”; proibito in perpetuo rifabbricare in quel luogo». Tale immenso furore proveniva anzitutto dal popolo, dall’«autorità sempre potente, benché spesso fallace» della massa, proveniva dalla «moltitudine accecata non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore», la cui volontà si unì a quella dei giudici formando una «fiera tanto ingorda quanto bestiale».

«È che non cercavano una verità, ma volevano una confessione». Questo duro e splendido libro di Manzoni costituisce una pacata e implacabile accusa nei confronti delle masse, delle leggi, dei giudici, una riflessione intessuta tanto di una illuministica razionalità etica e giuridica quanto di uno sguardo cupo e desolato -e quindi realistico- sulla storia e sugli uomini. Nel nostro presente lo stesso conformismo e fanatismo va assumendo le forme del politicamente corretto, le forme di idee, principi, valori tanto più affermati quanto meno se ne conoscono l’origine, gli interessi, i veri obiettivi. Fino al punto che la democrazia può giustificare l’imperialismo, dopo essersi trasformata da semplice metodo politico in un credo dogmatico che ha ormai assunto le modalità e la virulenza di una vera e propria religione che porta guerra e distruzione ovunque, come in altre epoche si faceva per conto della civiltà o della vera fede; fino al punto che i diritti dell’uomo diventano una delle forme mediante le quali nei conflitti contemporanei il nemico viene criminalizzato e privato -paradossalmente- della sua dignità di uomo e chi non rispetta i diritti umani, o viene accusato di non rispettarli, è per ciò stesso un nemico dell’umanità, contro il quale nessun’arma è illegittima; fino al punto che si afferma e domina un pensiero unico intessuto di sentimentalismo umanitario e di ferocia sostanziale. Una vera libertà del pensare fa ancora e sempre paura.

«La tortura è a volte indispensabile per salvare molte vite umane», è quello che dovettero pensare i giudici milanesi che massacrarono i presunti untori. Ma questa frase non è loro, è stata pronunciata da un esponente del governo del «più grande Paese democratico del mondo» (XXI secolo) per giustificare quanto è accaduto in Irak.


LE MONDE SELON BUSH

(novembre 2004)

Un’amica di Roma, Amelia Caselli, mi ha fatto dono del dvd di un film dal titolo Le monde selon Bush del regista William Karel. E ho capito perché questo film non è stato distribuito in Italia. E non lo sarà. Attraverso l’analisi di vari eventi e una serie di interviste ad alcuni fra i più importanti consiglieri di Bush, ad agenti della CIA, a presidenti di multinazionali, a storici e giornalisti, si delinea un quadro realistico del significato della presidenza Bush e della guerra contro l’Irak, un quadro al quale anche il film di Moore è riuscito solo ad accennare. Sintetizzo brevemente i risultati di questa inchiesta sobria, rigorosa, esemplare e quindi sconvolgente:

  • Per la prima volta nella storia degli Usa, padre e figlio arrivano alla Presidenza. L’immensa fortuna economica che ha consentito questo risultato ha due fonti: a) l’azione del capo della dinastia -Prescott Bush-, nonno dell’attuale presidente. Costui era un banchiere che negli anni Trenta finanziava il partito nazista in Germania; b) il flusso di danaro costantemente garantito dall’Arabia Saudita direttamente e personalmente alla famiglia Bush, tanto che uno degli intervistati, un ex agente della CIA, afferma che gli Usa si sono di fatto «prostituiti» alla famiglia reale saudita che-ricordiamolo- governa in modo dittatoriale l’Arabia S.;
  • Da questa famiglia proviene Bin Laden, molti dei cui parenti erano a Washington l’11 settembre del 2001 per una riunione d’affari col gruppo multinazionale Carlyle; vennero tutti fatti tornare nel loro Paese con dei voli protetti e senza porre loro una sola domanda;
  • Perché? Per la ragione, come afferma un altro degli intervistati, che l’11 settembre per il governo degli Stati Uniti non fu una tragedia ma «un regalo»; rappresentò infatti il pretesto necessario per realizzare l’attacco già preventivato da tempo contro l’Irak dell’ex amico-protetto-finanziatore dei Bush, Saddam Hussein; un regalo che fu un colpo di fortuna o venne pianificato e realizzato con estrema determinazione?
  • L’invasione dell’Irak venne motivata, in tutte le sedi e in modo martellante, con l’alleanza fra Al Qaida e Saddam e con la presenza di “armi di distruzione di massa”, motivazioni del tutto inventate e inventate ad arte;
  • Per quali ragioni? per il petrolio, certo, ma non solo e non in primo luogo. La motivazione più importante è porre tutto il Medio Oriente sotto il controllo diretto degli Stati Uniti, in vista delle risorse asiatiche, della guerra alla Cina (già teorizzata dall’amministrazione Clinton), della soluzione finale del problema palestinese;
  • Infatti il vero nucleo ideologico e politico del governo statunitense è oggi il fondamentalismo cristiano-protestante che «trasforma ogni riunione alla Casa Bianca in un incontro di preghiera»;
  • I gruppi radicali cristiani sostenuti da Bush e che sostengono la sua amministrazione affermano che la Palestina venne data da Dio al popolo d’Israele e deve rimanere agli ebrei per sempre: «Se Israele sopravvivrà, noi saremo salvi; se Israele scomparirà, noi andremo all’Inferno»;
  • Partiti dal finanziamento a Hitler, i Bush sono passati all’alleanza incondizionata con Israele, da qualcuno definito «il cinquantunesimo stato dell’Unione e trattato meglio di tutti gli altri»;
  • Questo percorso ha due colonne portanti: il culto del danaro e il culto per la Bibbia; a quanto pare c’è dunque chi riesce a servire i “due padroni” dei quali parla il Vangelo e a costoro -alle loro credenze, al loro fanatismo, alla loro immensa avidità di marca calvinista, alla loro convinzione di avere God (o Gold?) dalla propria parte, al loro essere i veri e più pericolosi terroristi- è affidato il potere mondiale e il destino dell’umanità.

Il film è in inglese con sottotitoli in francese ma vale la pena procurarselo. Se ne esce con un sentimento di angoscia ma anche -finalmente- di comprensione di quanto sta accadendo.

Per ulteriori approfondimenti e analisi dei documenti, consiglio il sito Kelebekler.


FALLUJA

(novembre 2004)

In questi giorni a Falluja gli anglo-americani (e cioè non solo i marines di Bush ma anche i soldati del socialista Blair) stanno sterminando vecchi, donne, bambini, radendo al suolo un’intera città. Dove sono le immagini di questo massacro ben superiore rispetto a quello mediatico dell’11 settembre? Vuoto, silenzio, censura, nulla.

E quando qualche notizia riesce a filtrare, ecco di che cosa si tratta, ecco la liberazione: uccidere in una moschea un uomo ferito.

(fonte: www.repubblica.it/2004/k/sezioni/esteri/iraq37/marineinqui/marineinqui.html )

La democrazia statunitense sta attuando di fatto un’immensa rappresaglia planetaria. Alla fine, per ogni vittima delle Torri dovranno morire almeno 1.000 altri esseri umani, se è vero che stime condotte da organismi di ricerca hanno calcolato già in centomila i morti in Irak, ai quali aggiungere quelli in Afghanistan.


FAHRENHEIT 9/11

(settembre 2004)

Michael Moore conferma tutta la sua abilità nel trasformare un documentario in un vero film, con personaggi, trama, scarti temporali e narrativi. E si conferma soprattutto un maestro del montaggio. Secondo molti grandi registi è proprio questo -il montaggio- il vero segreto del cinema.

Fahrenheit 9/11 tocca molti aspetti della vita e della politica statunitensi dalla elezione di Bush alla II guerra del Golfo. I momenti migliori sono due: la documentazione dei sette minuti in cui il presidente Usa dopo essere stato informato dell’attacco alle torri gemelle continua a leggere una favola con dei bambini della Florida, incapace di agire senza il suggerimento di qualche consigliere; la reazione imbarazzata, ostile o silenziosa con la quale i parlamentari del Congresso rispondono all’invito rivolto loro da Moore a inviare i propri figli in Iraq.

Forse troppo lungo l’episodio della madre del soldato americano ucciso, mentre le immagini della guerra non possono che documentare l’insensatezza del macello perpetrato ai danni di una Nazione come l’Iraq la quale, osserva giustamente Moore, non aveva mai attaccato gli Stati Uniti né aveva intenzione di farlo. Gli stretti e antichi legami fra la famiglia Bush e quella saudita di Bin Laden -ben documentati dal film- sono tuttavia conosciuti da tempo.

L’elemento più debole del film è anche quello più ovvio: l’attacco alla persona di George W. Bush. È infatti sin troppo evidente che costui è un soggetto realmente sciocco e incapace, un vero burattino diventato presidente in quanto agevolmente manipolabile dal gruppo di affaristi internazionali, petrolieri, integralisti protestanti che governa gli Usa e il mondo. Ma il punto è un altro: i presidenti possono cambiare ma non l’identità degli Stati Uniti. Un Paese nato dallo sterminio delle etnie locali perpetrato da bande di criminali inglesi arrivati in America in cambio della libertà e sostenuti dall’attivismo religioso dei Quaccheri. È anche per questo che il danaro (basti il riferimento alle analisi di Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo) e la violenza stanno nel codice genetico di una potenza che ovunque arrivi produce lutti, sofferenza e distruzione in una forma che probabilmente non si è mai ripetuta con tale virulenza, costanza, radicalità. Il vero problema, il vero inganno che Moore sfiora nel suo film, è che nonostante la martellante propaganda che li presenta come democratici, gli Stati Uniti NON sono una democrazia ma una oligarchia del danaro, governata di volta in volta da diversi gruppi finanziari costitutivamente corrotti, legati alle mafie, ai produttori di armi e ai dittatori di mezzo mondo. Gli Usa possono perdere alcune guerre -come è accaduto in Vietnam e come probabilmente si ripeterà in Iraq- ma vincono sempre la più importante: quella che li presenta come un’autentica, per quanto imperfetta, democrazia. Mi sembra che Fahrenheit 9/11 accenni al problema di fondo -che è antropologico e culturale- ma poi viri sul molto più facile tema dei conflitti sociali interni. Forse, però, non si poteva chiedere di più e in ogni caso è un bene che un film come questo sia stato girato e persino premiato.


SE QUESTA È DEMOCRAZIA

(aprile 2004)

Le foto degli iracheni torturati dall’esercito statunitense possono scandalizzare solo chi ha davvero creduto che la guerra scatenata dai petrolieri fondamentalisti fosse uno strumento di liberazione dalla dittatura di Saddam Hussein. Essa, invece, costituisce un’altra importante tappa del progetto di imposizione all’intero pianeta dell’ideologia liberale. Uno dei fondamenti culturali dell’imperialismo americano è l’idea che le attuali democrazie rappresentino non il migliore ma l’unico sistema politico possibile. I diritti dell’uomo trasformati in una vera e propria ideologia costituiscono ormai uno strumento formidabile per imporre questa concezione totalizzante -e forse anche totalitaria- della politica mondiale.

L’enfasi che viene continuamente posta sui diritti dell’uomo è funzionale all’etnocentrismo e ai processi di acculturazione favorevoli alla parte del mondo in cui tali diritti sono stati inventati. E dicendo inventati sottolineo che essi costituiscono il frutto di ben precise posizioni storiche e culturali e non sono, come spesso si dà per scontato, dei principi naturali, universali, intrinsecamente giusti. In realtà, anche i diritti dell’uomo rappresentano una delle forme mediante le quali nei conflitti contemporanei il nemico viene criminalizzato e privato -paradossalmente- della sua dignità di uomo. Chi non rispetta i diritti umani, o viene accusato di non rispettarli, è per ciò stesso un nemico dell’umanità, contro il quale nessun’arma è illegittima. Non c’è nulla di contraddittorio, quindi, nella realtà di una guerra scatenata anche in nome dei diritti umani e che proprio per questo non riconosce l’umanità dei nemici: bombardandoli, distruggendo i loro musei e infine torturandoli. Già l’anarchico Proudhon, con una affermazione su cui Carl Schmitt ha meditato a lungo, comprese che «chi dice umanità sta cercando di ingannarti».

Immagino le reazioni che si sarebbero scatenate se le foto delle torture perpetrate dai marines avessero riguardato, invece, i regimi comunisti, nazisti, islamici; la condanna sarebbe stata implacabile e di tipo metafisico (il male assoluto o analoghe formule). Poiché, invece, sono i “liberatori dal comunismo e dal nazismo” a esserne protagonisti, è già cominciata l’operazione mediatica tesa a circoscrivere e a nascondere il reale significato di questi fatti e cioè la disumanizzazione del nemico attuata dai vincitori liberal-democratici. Se questa è la democrazia -lo sterminio delle culture e dei popoli perpetrato dagli Usa e dai loro alleati- mi dichiaro orgogliosamente antidemocratico, alla maniera di Platone.


Giulietto Chiesa, LA GUERRA COME MENZOGNA

Nottetempo Editore 2003, pagine 48

(gennaio 2004)

In questa breve e chiara analisi Giulietto Chiesa cerca di andare alla radice dell’11 settembre, della guerra, della questione irachena, del passato recente e del futuro che ci attende. E il quadro è negativo soprattutto perché sarà sempre più difficile capire, avere informazioni, conoscere -semplicemente- ciò che accade. Il perno, infatti, su cui ruota il potere mondiale oggi è l’informazione, o meglio l’assenza pressoché totale di una informazione libera. Infatti, «il sistema informativo lavora per fornirci una versione dei fatti che non corrisponde nemmeno lontanamente alla verità delle cose e quindi ci impedisce di capire quello che accade, a noi e a tutti i milioni di individui, uomini e donne, che si emozionano e soffrono davanti ai teleschermi» (§ 8).

Il circolo vizioso americano difende il modello iperconsumistico mediante la guerra e finanzia le guerre tramite l’indebitamento e il consumo, tanto «che gli USA sono l’unico paese del mondo in cui il risparmio non esiste più e la gente spende più di quello che guadagna» (§ 10). È anche per questo che uno scandalo finanziario di enormi proporzioni come quello che ha colpito la Enron Corporation, che in un colpo solo ha gettato 40.000 persone sul lastrico, «un’impresa dilapidata, duemila miliardi di dollari spariti, rubati da un gruppo di persone, il cui capo si chiamava Kenneth Lay, era intimo amico di George Bush e aveva finanziato gran parte delle campagne elettorali di Bush, di Dick Cheney e di Donald Rumsfeld» (§ 8), è quasi passato sotto silenzio e coperto dalle sistematiche e falsificanti notizie sul pericolo «terroristico». In tutto questo i fatti dell’11 settembre non sono accaduti per caso e hanno aiutato il governo statunitense a dispiegare la strategia di condizionamento mondiale che è attualmente in atto.

Ritorniamo, così, al ruolo strategico dell’informazione e del suo controllo orwelliano (e quindi totalitario). Di fronte a eventi di tale gravità -che richiederebbero delle svolte coraggiose in relazione soprattutto ai modelli di vita, di consumo, di cultura attualmente dominanti- la reazione dei governi e delle opposizioni in Europa è quasi sempre inadeguata, a ulteriore dimostrazione che termini come destra e sinistra rappresentano ormai solo il paravento dietro cui si muovono modelli geostrategici ed economici assai più complessi. Ed è per questo che Chiesa conclude giustamente la sua analisi con le seguenti parole: «Chi pensa, anche a sinistra, in termini di “ripresa” del vecchio sviluppo (sul piano economico), e di convincere l’Impero a più miti consigli (sul piano politico), si condanna allo stupore e all’impotenza di fronte agli eventi tragici che si annunciano» (§ 12).


L’apparecchiu miricanu

(novembre 2003)

È da poco stato pubblicato dalla Pro Loco di Bronte -il mio paese in Sicilia- un volumetto intitolato Bronte 1943 e dedicato agli scontri verificatisi fra gli angloamericani e i tedeschi sul nostro territorio. A pagina 9 A.Petronaci ricorda un proverbio-filastrocca nato in quel frangente e che -venticinque anni dopo- anch’io recitavo da bambino quando vedevamo un aereo sorvolare i nostri cieli: «L’apparecchiu miricanu jecca bumbi e sindi va» (L’aeroplano americano butta delle bombe e vola via).
Ecco, i «miricani» continuano a «jccari bumbi» sui luoghi più diversi della Terra, continuano a portare morte e distruzione e lo fanno in un modo insopportabile perché coprono i loro interessi economici e geostrategici (di per sé legittimi se, come afferma Hegel, «non c’è pretore tra gli stati») ammantandoli di ideali altissimi, etici, umanitari. Il «bombardamento umanitario» è un concetto -e un fatto- semplicemente ripugnante. In breve:

  • gran parte della comunità internazionale -stati e cittadini- ha fatto di tutto per convincere il governo USA dei pericoli di questa guerra immotivata;
  • gli interessi dei gruppi petroliferi e delle industrie belliche statunitensi hanno prevalso ugualmente e si è dato inizio alla II guerra del Golfo;
  • le armi di sterminio di massa -come molti di noi avevano pensato e scritto- in Irak non c’erano, un fatto ammesso a posteriori persino dai militari USA;
  • in nome di questo falso pericolo si è gettato l’Irak nel caos più totale, sono morti e continuano a morire innumerevoli esseri umani, sono state distrutte ingenti risorse naturali, sono state cancellate le memorie di una delle civiltà più antiche della Terra;
  • mentre prima della guerra i fondamentalisti ritenevano Saddam Hussein un laico apostata del Corano, in seguito all’invasione anglo-americana si è creata un’alleanza tra i gruppi islamici e quelli rimasti fedeli al regime di Saddam;
  • anche l’Italia, contravvenendo a uno degli articoli più importanti della Costituzione, è stata coinvolta in un conflitto armato che ha causato l’orrenda strage di Nassirya, dopo la quale dovrebbe essere chiaro che il governo ha mandato -in un Paese lontano e che nulla aveva contro di noi- delle truppe d’occupazione che sono morte non per gli interessi della nostra Nazione o della democrazia ma per quelli degli Stati Uniti d’America;
  • è sempre più evidente che gli USA non sono i nostri alleati -né di noi Italiani, né di noi Europei- ma i nostri competitori negli ambiti monetario (Euro vs Dollaro), economico (import/export con i Paesi asiatici); culturale (basti pensare alla profondità dello spazio-tempo europeo rispetto alla superficialità di quello statunitense);
  • uno degli effetti più gravi di questo conflitto è -analogamente a quanto si verificò nel corso della I Guerra mondiale- la mobilitazione totale dei mezzi di comunicazione di massa a favore dei governi belligeranti. Affermazioni e tesi come quelle che qui ho riassunto si possono, infatti, discutere e criticare ma ormai esse vengono semplicemente censurate a favore di una propaganda massiccia -insieme cinica e sentimentale- a sostegno della guerra «miricana».

Nel libro su Bronte, a pag. 96 si trova una foto con la seguente didascalia: «Il Collegio Capizzi dopo i bombardamenti del 6 agosto. Pur essendo sede dell’ospedale militare (un’ampia croce rossa era difatti dipinta sul tetto), nella giornata cruciale del 6 agosto divenne inspiegabilmente bersaglio delle incursioni aeree degli Alleati». Ecco, quell’inspiegabilmente in realtà spiega molto del Terrore che gli Usa continuano a diffondere sul pianeta.


Irak – USA – Europa

(marzo 2003)

Non vogliamo questa guerra perché è una guerra degli Stati Uniti non solo contro l’Iraq del loro ex-amico Saddam Hussein ma anche e soprattutto contro l’Europa, contro la nostra nuova moneta, contro la nostra economia, contro la nostra autonomia.

Una guerra per prendersi il petrolio, una guerra per controllare l’area geostrategica cruciale del Golfo Persico e dell’Asia, una guerra per confermare -col terrore sparso da tonnellate di bombe- chi comanda nel mondo, una guerra per produrre ancora altre armi e continuare a venderle, una guerra per sterminare, una guerra contro tutti gli esseri umani che hanno il torto di non essere “americani”.

Alberto Giovanni Biuso
Valeria Sammartino

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  1. Il concetto di “guerra preventiva” è un vulnus pericolosissimo al diritto internazionale;
  2. Se l’Irak attaccasse l’Italia e l’Europa, sarei il primo ad arruolarmi ma è accaduto esattamente il contrario; una guerra di pura aggressione;
  3. Se anche Saddam Hussein possedesse le armi che gli si attribuiscono (non credo che le abbia più), non le userebbe mai perché l’Irak verrebbe cancellato dalla faccia della terra;
  4. Le ragioni dell’aggressività statunitense sono tutte economiche (petrolio), finanziarie (nascondere lo scandalo Enron), politiche (imperialismo puro);
  5. Dire di voler esportare “libertà e democrazia” tramite armi di sterminio come quelle USA, mediante “guerre umanitarie”, è un atto supremo di ipocrisia e di cinismo: non avrei nulla contro la forza pura («non c’è pretore fra gli stati», diceva Hegel) purché la si chiami col suo nome;
  6. A pagare la I guerra del Golfo fu il Giappone, che da allora è entrato in una crisi economica prima non prevedibile; a pagare la II sarà l’Europa, dato che gli USA hanno già raggiunto il risultato -essenziale per i loro interessi- di dividerci e bloccare il processo di unificazione del nostro continente;
  7. Dopo la fine del comunismo e della guerra fredda, il concetto di Occidente va superato nel preciso senso della difesa dei NOSTRI interessi italiani ed europei contro l’antieuropeismo evidente degli USA: io mi sento, nell’ordine, europeo, siciliano, italiano e non ho nulla a che spartire con un Paese corrotto, aggressivo e volgare come sono gli Stati Uniti.

Rifletto anche sul fatto che Chirac sarebbe “di destra” e Blair (il presunto leader -qualche anno fa- dell’ “Ulivo mondiale”!) sarebbe “di sinistra”. Ciò conferma la convinzione di Ortega y Gasset secondo il quale «dirsi di destra o di sinistra è un modo per un essere umano di definirsi imbecille»; credo quindi che sia arrivata l’ora di abbandonare questi schemi topologico-politici nati con la Rivoluzione francese e ormai incapaci di definire il mondo contemporaneo.

DUE DOCUMENTI:

L’Appello per la pace approvato all’unanimità dal Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania nella seduta del 14 marzo 2003:

http://www.unict.it/flett/avviso2.htm

Una delle analisi più complete e plausibili dell’attuale situazione mondiale. È l’editoriale del numero 257 di Diorama letterario

http://www.diorama.it/n257-baratro.html


Guerra, aggressività e violenza
(Dalle lezioni 2001/2002)

Eibl-Eibesfeldt distingue anzitutto fra l’aggressività in generale -che è fenomeno biologico, individuale e interno al gruppo- e la guerra, la quale rappresenta invece un prodotto dell’evoluzione culturale. Il paradosso, rispetto a tante semplificazioni e pregiudizi antietologici, è che “al filtro di norme biologiche, che anche nell’uomo costituisce un freno alla distruttività, viene sovrapposto un filtro di norme culturali, che impone di uccidere” (Etologia della guerra, pag. 129). In quanto fenomeno storico, la guerra è quindi superabile e la pace mondiale non è soltanto una bella utopia, a patto che della guerra si comprendano funzione e struttura.

L’universalità dei conflitti fra gli esseri umani è data soprattutto da tre fattori: lo spacing o mantenimento delle distanze tra gruppi culturali, il reperimento delle risorse necessarie alla sopravvivenza, il rafforzamento dell’identità tribale. Territorialismi, tecnologie belliche, diplomazie sono delle strutture funzionali a questi scopi.

Partendo da questa intenzione, diventa possibile cogliere l’effettiva struttura di molti fenomeni. Contrariamente alla guerra, l’aggressività è innata ma lo è perché indispensabile alla sopravvivenza (aggressività difensiva), all’evoluzione (aggressività adattativa), alla maturazione del singolo (aggressività esplorativa). Quest’ultima consiste nella necessità, da parte del bambino, di saggiare l’ambiente e valutare se stesso, scoprendo in tal modo i limiti fino ai quali gli è concesso spingersi.

“non è l’aggressività che si è sviluppata allo scopo di costituire una gerarchia di rango, bensì è quest’ultima che si è sviluppata come un meccanismo per venire a capo dell’aggressività interna al gruppo, aggressività che da altri punti di vista è vantaggiosa” (Etologia della guerra, 54).

Sottolineando la culturalità della guerra e l’istintività della pace, Eibl-Eibesfeldt sfata questo pregiudizio e mostra l’aggressività per quello che è: un impulso innato ma funzionale e orientabile verso l’evoluzione come verso l’autodistruttività. La scelta dipende da noi, dal coraggio della cultura.

“…c’è del marcio nella specie Homo Sapiens” (Otto peccati, 127). Questa è la semplice, financo banale, ma importantissima constatazione da cui parte Konrad Lorenz per descrivere i rischi e le storture di cui è vittima l’umanità contemporanea. I più importanti fra essi sono: la sovrappopolazione che scatena aggressività , la devastazione dello spazio vitale, la competizione esasperata fra gli uomini, il venir meno dei sentimenti, il deterioramento dello stesso patrimonio genetico, il rifiuto violento della tradizione, l’indottrinamento esasperato, le armi nucleari (Otto peccati, 137).

Con aggressività si intende il conflitto intra-specifico, diretto contro membri della stessa specie e non quello delle varie specie fra di loro (inter-specifico). La lotta per la sopravvivenza, di cui parla Darwin, è appunto questa ed è la sola che faccia progredire l’evoluzione. Senonché tale lotta è diventata “nell’attuale situazione storico-culturale e tecnologica dell’umanità il più grave di tutti i pericoli” (Aggressività, 66). La concorrenza sfrenata fra gli uomini per l’utilizzo delle risorse rischia, infatti, di cacciare l’evoluzione in un vicolo cieco non-funzionale e dunque potenzialmente autodistruttivo.

Lorenz cerca prima di tutto di spiegare i nessi causali che hanno condotto a un simile risultato. Tutti i grandi predatori hanno dovuto sviluppare, nel corso della filogenesi, una radicale inibizione a usare le loro potenti armi naturali contro membri della stessa specie, pena l’inevitabile estinzione. Un lupo, ad esempio, non ucciderà mai un altro lupo che gli offre la gola in segno di sottomissione, e basterebbe un semplice morso. Qui l’inibizione è fortissima e agisce sistematicamente. Nell’uomo invece essa è assente in quanto egli è privo di armi naturali con le quali possa, in un sol colpo, uccidere una grossa preda: “nessuna pressione selettiva si formò nella preistoria dell’umanità per generare meccanismi inibitori che evitassero l’uccisione di conspecifici finché, tutto d’un tratto, l’invenzione di armi artificiali portò lo squilibrio fra la capacità omicidiale e le inibizioni sociali”( Aggressività, 314-315). Da qui il proliferare patologico di una violenza senza freni, esercitata mediante armi che colpiscono da lontano e in modo anonimo, rafforzata dall’evidente contrasto fra la nobiltà dei valori etici -come la tolleranza e il cosmopolitismo- e il permanere di istinti fondamentali e atavici come la difesa del proprio gruppo e del proprio territorio contro qualunque invasore ed ogni possibile minaccia.

«la violenza è il destino della nostra specie. Ciò che cambia sono le forme, i luoghi e i tempi, l’efficienza tecnica, la cornice istituzionale e lo scopo legittimante» (Sofsky, 193).

Indicazioni bibliografiche

Alberto Giovanni Biuso, Antropologia e Filosofia, Guida

Elias Canetti, Massa e Potere, Adelphi

Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi

Irenäus Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, Bollati Boringhieri

Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi

Konrad Lorenz, L’aggressività, Mondadori

Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza, Einaudi

A_anarchia


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