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Architetture della dissoluzione

Architetture della dissoluzione

The Brutalist
di Brady Corbet
Gran Bretagna, 2024
Con: Adrien Brody (László Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren), Felicity Jones (Erzsébet Tóth), Isaach De Bankolé (Gordon), Joe Alwyn (Harry Lee)
Musica di Daniel Blumberg
Trailer del film

Un noto architetto ungherese, formatosi nel Bauhaus e sopravvissuto al lager di Buchenwald, arriva nel 1947 negli Stati Uniti d’America, ospite di un cugino. In attesa di migliori fortune e della ricongiunzione con la moglie, László Tóth accetta impieghi assai umili sino a quando un imprenditore di Philadelphia gli commissiona un progetto visionario, un edificio multifunzione nel quale la comunità protestante potrà svolgere i suoi riti, studiare, conversare.
La convivenza/collaborazione con il milionario Harrison Lee Van Buren si rivela assai turbolenta. Van Buren accetta il progetto ispirato allo stile detto brutalista, un movimento architettonico del quale fece parte anche Le Corbusier e che privilegia grandi volumi di cemento armato a vista. Non poche architetture contemporanee, anche in Italia, ne costituiscono testimonianza, soprattutto scuole e ospedali (che infatti sono orrendi). Le cosiddette Vele di Scampia, oggi quasi tutte abbattute, ne rappresentano una estrema propaggine.
Quella dell’architettura contemporanea è una vicenda molto complessa. Che, ad esempio, alcuni architetti siano potuti transitare dalla pulizia e dalla luce del Bauhaus alla massiccia rozzezza del Brutalismo è una interessante testimonianza di quanto facile sia disperdere la bellezza. Ambientato nel gigantismo della Pennsylvania, il film sembra trovare finalmente un poco di armonia soltanto nella scena conclusiva, girata a Venezia.
La storia di questo architetto credo voglia simboleggiare la vicenda dei tanti europei, soprattutto ebrei, che migrarono negli USA ma molti dei quali da quella società vennero stritolati o al massimo, come dice il figlio del magnate, «tollerati». Il significato della metafora diventa evidente nel pervenire persino a una scena di stupro che vorrebbe costituire una metafora della violenza che gli USA esercitano sull’Europa.  Nella scena iniziale la Statua della libertà viene ripresa con delle inquadrature capovolte, come se fosse impiccata e in ogni caso fallita.
«Der Geist des Kapitalismus», lo spirito del capitalismo, si mostra nel film in tutta la sua rozzezza antropologica, presunzione storica, mancanza di rispetto etico, distanza da ogni misura, equità e  decenza. E tuttavia l’idea che percorre The Brutalist è che il sionismo sia vittima di questo capitalismo. Una tesi assai bizzarra, dato che der Geist des Kapitalismus (e in particolare quello del capitalismo statunitense) è in gran parte lo spirito dell’ebraismo e del calvinismo, come la storiografia ha ampiamente mostrato. Da questo film si esce con la negativa impressione di aver assistito all’ennesima manipolazione di un’etica del vittimismo.
Lo stile di Brady Corbet si mostra coerente con le intenzioni estetiche, vale a dire un espressionismo che vorrebbe essere epico e che a volte tale risulta ma altre volte è soltanto ridondante e artificioso. Forse è rivelatore il nome che il regista ha scelto per il suo eroe. László Tóth infatti non è mai esistito ma così si chiamava l’operaio australiano di origine ungherese che nel 1972 colpì a martellate la Pietà di Michelangelo.
The Brutalist prende a martellate la bellezza e anche la complessità della storia. E tuttavia mostra (in modo probabilmente inconsapevole) la sua verità nel descrivere ambienti e personaggi che in vario modo e per diverse ragioni sono tutti espressione di dissoluzione, degenerazione, sporcizia.

1 commento

  • Michele Del Vecchio

    Giugno 11, 2025

    Film intrigante e intervento critico capace di riannodarne i diversi fili lungo i quali scorre una trama ambiziosa ed ambigua. Cominciamo dalla architettura: il “brutalismo” -nom de plume- è diventato un termine spregiativo per indicare giganteschi falansteri in cemento armato, talvolta firmati da importanti architetti. E’ stato un episodio della architettura del Novecento che ha “tradito” tutte le premesse del razionalismo di Gropius e di molti altri tra cui lo stesso Le Corbusier. Giustamente Alberto lo interpreta come espressione della “rozzezza” del capitalismo americano. E l’architetto ungherese, ebreo, deportato a Buchenwald e poi emigrato negli USA che ci sta a fare? Ecco il punto: probabilmente per dimostrare la pervasività della condizione di assoggettamento, di “esilio”, dell’ebraismo lontano dalla Terra di Sion. Tesi che ha una indubbia valenza “vittimistica”.

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