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Contro la nascita

Contro la nascita

Contro la nascita
il Pequod
anno V, numero 10, dicembre 2024
pagine 38-51

Indice
1 βίος
2 Strategie
3 Una tragedia ridicola
4 Entropia e DNA
5 Oltre la vita, la materia
6 Il mondo è perfetto

«Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
[…]
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono ‘la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui’ (Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca). Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo».

[Considero questo uno dei testi fondamentali del mio percorso. Poche pagine nelle quali ho cercato di riassumere quanto ho compreso della materia e dell’esserci. Spero che i miei amici vorranno leggerlo e conservarmi la loro amicizia, soprattutto gli amici che hanno avuto dei figli 🙂 .
In ogni caso, la tesi più importante che il saggio intende argomentare è che il mondo è perfetto. Espressione che va presa alla lettera. È dunque un testo dalla tonalità del tutto positiva]

4 commenti

  • Emilio Simonetti

    Gennaio 7, 2025

    Gentile Professore, nel leggere la sua requisitoria contro la vita, confesso, mi è sembrato di tornare di nuovo studente, pur laureto in Filosofia da molti anni. Seduto nella prima fila dell’aula dell’Università di Catania, leggendo il suo saggio, ho seguito una vibrante “Lectio magistralis”. Già convinto antinatalista, mi è sembrato tuttavia d’avere conseguito altro guadagno, grazie al discorso distesamente argomentativo, tutto calato in un orizzonte storico-filosofico, fisico-biologico, cosmologico. Il guadagno è stato quello di saldare la mia convinzione al salutare respiro d una visione scientificamente e teoreticamente attrezzata. La spocchia dell’antropocentrismo, ne esce definitivamente a pezzi; l’illusione natalista, a fortiori, si disintegra; la “carognata” della vita, presa a sonori schiaffoni. Non ho udito prima e altrove parole più trascinanti sulla miseria del βίος. Mi permetto solo un’osservazione. Nel capitolo 2 sulle “Strategie” mi aspettavo che citasse P.W. Zapffe. Come è noto, sulle tecniche elaborate dall’umano per contrastare l’insensatezza dell’esistere, il filosofo norvegese ha disegnato un quadro articolato e convincente già negli anni Trenta. La mia è solo la piccola nota a margine di uno “studente” che ha potuto godere di una bellissima e memorabile lezione d’aula, di cui le sono davvero grato.

    • agbiuso

      Gennaio 7, 2025

      Gentile Dott. Simonetti, ringrazio lei per le parole così vibranti che rivolge al mio saggio.
      La sua osservazione relativa a Zapffe è corretta. La ragione, molto semplicemente, è che di questo filosofo e narratore ho letto soltanto la traduzione che Sarah Dierna ha approntato de L’ultimo Messia , accompagnata dalle pagine che questa studiosa ha dedicato al suo pensiero. Si tratta dunque solo di un’ignoranza che spero prima o poi di cancellare.

  • agbiuso

    Gennaio 7, 2025

    Nato da una comunicazione e scambio privati sulle tesi che sostengo in questo saggio, le riflessioni di Giuseppe Frazzetto che (da lui autorizzato) pubblico qui sotto, costituiscono nello stesso tempo il dialogo con un amico, una meditazione sull’esistenza, una riflessione teoretica. E mi hanno aiutato a meglio comprendere il significato di ciò che ho scritto.

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    Il tuo testo è senza dubbio uno splendido esempio di páthei máthos: è infatti intessuto della sofferenza del vivere, del patire la vita in quanto tale – di là dalle contingenze, di là dai minimi o grandi dolori di ognuno.
    Dà molto da pensare. Mi chiedo se sia possibile rapportarlo a un ampio movimento del pensiero odierno, là dove si mette in questione il substrato della nostra esistenza, sia in senso biologico che sociale (per non dire politico). L’esempio forse più noto di questo movimento del pensiero (non già una koinè, comunque) è la nozione di inoperosità di Agamben, mediante cui si reagisce in primo luogo contro l’idea dell’umanità come entità collettiva autopoietica che si costruisce attraverso il lavoro e l’azione storica (cioè il conflitto, ci ricorda Kojève commentando Hegel).
    Ma la tua posizione è più radicale, anche perché spinge a riflettere sul rapporto fra filosofia ed ethos. In che misura il filosofo dovrebbe agire in accordo con la verità che squadra e tenta di squadernare in testi e discorsi? Antica questione, che mette in scena il legame fra modi dell’esserci, il pensare e perfino l’essere credenti (in che misura, infatti, il cristiano può essere disposto – e/o riuscire – ad accordarsi con la kenosis che l’ “imitazione di Cristo” gli chiederebbe?).
    In queste poche pagine sintetizzi un punto di vista estremo, nei confronti del quale è difficile o forse impossibile ribattere dal punto di vista umano, troppo umano dei sentimenti, degli affetti, della speranza. Il cosmo/materia a cui ti riferisci è quieto nella sua perfezione sempre mutevole e sempre identica a sé stessa (fine al suo distruggersi); noi, i Mortali, siamo solo un’irrilevante increspatura di tale perfezione, e del resto per poter essere anche semplicemente notati abbiamo bisogno d’un potentissimo microscopio, costruito appunto dal nostro sentimento, dalle nostre emozioni, dal nostro pensiero.
    L’etica del filosofo invita alla sobrietà, anzi alla rinuncia: perché aggiungere mondo al mondo, vita alla vita? In assenza d’un disegno divino, l’apparizione di quella tenue disorganizzazione organizzata, neghentropica mai poi irresistibilmente dissolventesi nel dolore entropico, cioè la “vita”, può risultare un “di più” privo di significato.
    Quel cosmo/materia, quell’immota multiforme e caotica perfezione include una forza sovraindividuale. Dici: “Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte”.
    Emerge qui l’ideale d’un ribaltamento dell’antico motto primum vivere deinde philosophari. L’ideale regolativo di una ricomposizione delle scelte di vita alla luce della verità teoricamente individuata, dello svelamento delle illusioni, del sapere attraverso raziocinio e sofferenza.

  • Sarah

    Gennaio 3, 2025

    Una lettura del tutto nuova e originale sulla questione natale, necessaria e spiazzante. Un testo da leggere per ritrovare la strada di casa esattamente in quello spazio infimo, parziale e trascurabile che non avremmo mai pensato di essere e di occupare: al posto giusto e per una breve durata!

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