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Parola

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La lingua come dimora / mondo
in L’idioma di quel dolce di Calliope labbro. Difesa della lingua e della cultura italiana nell’epoca dell’anglofonia globale
A cura di Sergio Colella, Dario Generali e Fabio Minazzi
Mimesis 2017
Pagine 195-214

Nel maggio del 2016 si svolse a Milano un Convegno dedicato alla questione della lingua.
Vi partecipai con una relazione che è stata adesso pubblicata insieme agli altri contributi.
Metto a disposizione i pdf del mio saggio e di quello di Dario Generali, due testi che fanno parte del Corso di Filosofia teoretica di quest’anno. Al volume ha contribuito anche il collega Salvatore Claudio Sgroi -professore ordinario di Glottologia e Linguistica al Disum di Catania- con un denso testo dal titolo L’Accademia della Crusca (1949-2015) dinanzi ai «doni stranieri» (pagine 21-75).
Ho aggiunto anche l’indice generale del volume e la Nota informativa dei curatori, che analizza la successiva sentenza n. 42/2017 della Corte Costituzionale, la quale ha dato ragione agli argomenti e alle tesi discusse in occasione del Convegno milanese.
La Corte Costituzionale ha infatti sancito la illlegittimità di interi Corsi di studio svolti in una lingua diversa dall’italiano, con insegnamenti impartiti esclusivamente in lingua straniera. E questo -scrive la Corte- al fine di «garantire pur sempre una complessiva offerta che sia rispettosa del primato della lingua italiana, così come del principio d’eguaglianza, del diritto all’istruzione e della libertà d’insegnamento». Quella della lingua si conferma essere una questione inseparabilmente antropologica, politica e filosofica.

Indice del saggio di agb
Un itinerario nel linguaggio
La struttura del linguaggio
Parlare e pensare: la lingua come segno e come argomentazione
La lingua come dimora

Indice del saggio di Dario Generali
Il contesto del dibattito
I termini della polemica
Il progetto CLIL
Intellettuali e società civile

 

7 commenti

  • agbiuso

    Gennaio 15, 2020

    Invito a leggere un breve e assai interessante articolo di Alberto Capece, dal titolo Imperialismo gastrico (Il Simplicissimus, 12.1.2020), che si conclude con queste parole:

    “Considerare la lingua un mero strumento e dunque un elemento non essenziale e intercambiabile è una delle asserzioni valoriali della cultura dominante che è appunto quella espressa dalla Child tra i fornelli nel dopoguerra”.

  • agbiuso

    Ottobre 12, 2018

    Tra gli autori che hanno contribuito a L’idioma di quel dolce di Calliope labbro c’è Maria Luisa Villa, della quale Roars ha ripreso e pubblicato un articolo dal titolo L’insegnamento universitario, il monolinguismo anglofono e l’eclissi dell’italiano.
    Ne segnalo qui alcuni brani
    ==========

    Il problema delle lingue, spesso trascurato, o sbrigativamente dato per risolto con la diffusione dell’inglese, è uno dei temi cruciali del mondo interconnesso e la politica linguistica rimane uno strumento decisivo nella costruzione della società presente e futura.
    L’unità del sistema globale rischia di infrangersi contro il fatto che l’uomo non parla un’unica lingua, e neppure una mezza dozzina, ma ne usa forse settemila e nel corso della storia ne ha create un numero ancora più grande. Non è facile intendere quale sia la funzione di questa dispendiosa molteplicità, ma la sua tenace persistenza suggerisce che essa debba avere un ruolo importante per la nostra specie (1).
    […]
    L’inglese è di fatto la lingua unica nel dominio della tecnoscienza, e gli ingegneri, i medici, gli economisti, come pure i biologi, i fisici, i veterinari e gli agronomi, debbono saper comunicare in inglese, se vogliono entrare nel mercato globale della conoscenza, della produzione e degli affari.
    […]
    Nelle Università italiane il problema dell’inglese si è prepotentemente imposto negli anni recenti, quando i rettori, angustiati dalla bassa posizione dei loro atenei nelle classifiche internazionali e dalla scarsa affluenza di studenti stranieri, hanno pensato di poter recuperare credito imponendo l’inglese come lingua esclusiva dell’insegnamento per tutti e sopra tutto.
    Questa decisione, forse utile nell’immediato, appare assai problematica ad un esame più attento poiché la lingua dell’istruzione è materia assai più complessa che non la lingua delle relazioni professionali, delle comunicazioni e della stampa. L’esclusione dell’italiano dalla didattica superiore ne decreta implicitamente l’abbandono come lingua della scienza e della tecnologia.
    Per gli studenti, il rischio è l’impoverimento dell’apprendimento; per la società è quello della rapida obsolescenza del lessico specialistico e dell’interruzione della sua trasmissione intergenerazionale. Chi propone l’abbandono dell’italiano sembra non tener conto che una lingua, non più usata da chi opera ai livelli superiori dell’istruzione e della ricerca, è condannata alla rapida atrofia.
    […]
    Amputato del patrimonio comunicativo nei settori tecnico-scientifici, l’italiano rischia di diventare in breve tempo un arcaico dialetto. Ne seguirebbero un indebolimento del rapporto culturale con la comunità di appartenenza, «un isolamento del sapere di vertice, e un aumento dell’incomprensione tra pubblico e scienza» (1).
    È dubbia la possibilità che questi danni possano essere compensati da un massiccio afflusso di studenti stranieri di elevato livello culturale. Molti sospettano che continueremmo ad accogliere solo quelli che non riescono a passare il test di ingresso in America, Inghilterra, Germania e paesi nordici.
    I rischi del monolinguismo didattico sono stati sottovalutati perché la connotazione competitiva e imprenditoriale che le Università sono state indotte ad assumere nel mondo attuale, le spinge a confondere i propri principi organizzativi con quelli delle imprese multinazionali.
    […]
    Le stesse imprese multinazionali dei settori tecnologicamente avanzati, che le nostre autorità politiche e accademiche sembrano prendere a modello, hanno iniziato a comprendere che l’inglese internazionale è utile come lingua di contatto, ma il lavoro quotidiano ha bisogno anche della lingua nativa. Se non vuole estraniarsi dalla società, la scienza può parlare in inglese, usare libri e riviste scritte in inglese, ma deve conservare l’uso della lingua locale.
    È verosimile che nei decenni prossimi la padronanza di un italiano vivo e aggiornato, sarà, per i nostri studenti, il passaporto per una assimilazione forte della cultura scientifica, anche in un universo anglificato.
    Per vincere la competizione per i migliori cervelli non basta adottare l’inglese didattico ma occorre offrire beni e servizi che suscitino interesse, e questo dipende anche da un’impronta culturale “contestuale al luogo” che li distingua dagli analoghi beni e servizi reperibili altrove. Solo conservando ed estendendo creativamente ad altri settori lo “stile italiano”, che è stato vincente a livello internazionale nei settori della moda, del design, dell’architettura e del cibo, possiamo sperare che l’Italia venga scelta dagli studenti stranieri come una meta ambita e non come un ripiego per l’esclusione subita altrove.
    […]
    Il ruolo della lingua come mediatore culturale del contesto territoriale è evidente, come è altrettanto evidente che un ospite che non impari e non usi la lingua locale, non potrà avere legami duraturi con il nostro paese. Lo hanno già imparato i tedeschi che prima di noi hanno imboccato la strada della anglificazione integrale e prima di noi l’ hanno abbandonata a favore di un regime bilingue, restaurando l’obbligo per gli studenti stranieri di imparare il tedesco.
    […]
    Come il latino ai tempi di Dante l’inglese dei non anglofoni assomiglia ad una lingua artificiale, utile per la sua regolarità, ma povera di flessibilità e forza espressiva. Dobbiamo imparare a tradurre il sapere scientifico reinventando un italiano vitale e flessibile che superi la povertà espressiva dell’inglese globale.
    […]
    Per concludere: Negli anni 90 del ‘900 una interpretazione ingenua della globalizzazione disegnò l’immagine di un mondo senza più storia, illimitatamente mobile, ubiquo e monolingue. All’inizio di questo secolo abbiamo capito che la storia non è finita, la geografia non è morta e il futuro è multilingue. Il compito per noi è apprendere le lingue dei vicini senza abbandonare la nostra, perdendo con essa la ricchezza del contesto locale: sarebbe tragico per tutti parlare bene in inglese e non avere più niente da dire.

  • agbiuso

    Maggio 10, 2018

    Persino Il Sole 24 Ore (!) segnala la gravità della rinuncia all’italiano come lingua di ricerca:
    Italiano sotto attacco

  • Pasquale

    Febbraio 1, 2018

    La consolazione sussiste.
    Psq.

  • Pietro Ingallina

    Gennaio 31, 2018

    Non ci sono, nella vasta Biblioteca, due libri identici […] Un numero n di linguaggi possibili usa lo stesso vocabolario; in alcuni, il simbolo biblioteca ammette la corretta definizione ubiquo e durevole sistema du gallerie esagonali, ma biblioteca è pane o piramide o qualunque altra cosa,
    e le sette parole che la definiscono hanno un valore. Tu, che mi leggi, sei sicuro di capire il mio linguaggio?

    – da, J. L. Borges, La Biblioteca di Babele, in: Finzioni, a cura di A. Melis, Adelphi, Milano 2003, pp. 71, 75.

    In attesa di leggere questi nuovi contributi, non potevano non tornarmi in mente le recenti parole di questo caro racconto.

    • agbiuso

      Gennaio 31, 2018

      Grazie, caro Pietro, per la citazione da questo splendido racconto.
      Anche in relazione alla mia funzione di delegato alla Biblioteca del Disum 🙂 , ne aggiungo delle altre:
      «La Biblioteca perdurerà: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta»
      Finzioni, in «Opere», Meridiani Mondadori, I volume, p. 688.
      Le Biblioteche sono il cuore luminoso del mondo, sono i luoghi che conservano la parola scritta, la parola pura, la parola feconda.

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