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Antirealismo

Antirealismo

La grande bellezza
di Paolo Sorrentino
Con: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio, Sabrina Ferilli (Ramona), Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,  Massimo De Francovich, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luciano Virgilio, Serena Grandi, Lillo Petrolo
Italia – Francia, 2013
Trailer (da vedere, un film in sé)

Vuota, notturna e luminosa, cafona e splendente, edonistica e mistica. Irreversibilmente corrotta e del tutto inventata. Questa è la città che scorre tra le parole di Jep Gambardella, colui che non voleva essere soltanto il re delle feste ma chi le feste le faceva fallire. Scorre Roma tra i pensieri di quest’uomo, i suoi desideri finiti, la sua profonda saggezza e la totale calma. Scorre rassegnata ed eterna tra attrici fatte e disfatte, cardinali gastronomi, presuntuose performer, chirurghi taumaturghi e cialtroni, mafiosi in incognito, sessantottini ricchissimi, drammaturghi delusi, badanti cosmopolite, turisti morenti, industriali danzanti, sante spente e centenarie, candide spogliarelliste, padri infantili, nane giornaliste, maghi e giraffe, aristocratici a noleggio.
Scorrono i ricordi di Jep Gambardella, le sue memorie di un amore lontano dentro il mare. Il soffitto si trasforma in acqua, solcata dalla nostalgia e dal sogno. Il Tevere scorre tra palazzi irreali, tra argini lenti, tra sogni perduti e incanti mai avuti. Scorre il film tra musiche raffinatissime e banali. Scorrono gli occhi dello spettatore immerso nella placenta che il cinema è sempre stato e che qui trionfa, grembo colorato, suadente, onirico e ironico.
Una Babilonia nichilistica.
Se fossi un regista, vorrei girare in questo modo i miei film. Pura forma, puro linguaggio, puro miraggio. Trionfo sulla volgare ingenuità di ogni realismo cognitivo e metafisico. Grande bellezza della mente.
L’epigrafe è tratta da Céline.

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15.6.2013

Ho rivisto il film e ne ho gustato ancor di più la profondità antropologica e la bellezza formale. Di essa è parte essenziale la colonna sonora. Senza la musica sarebbe un altro film. L’alternarsi di composizioni raffinatissime -come quelle di Zbigniew Preisner, David Lang, Magnus Perotinus, Henryk Górecki, Arvo Pärt- e di brani pop esprime perfettamente la cifra duplice dell’opera. Che, ribadisco, è un’opera sulla mente, sui ricordi, sul mondo interiore che la memoria corporea produce.

Credo che uno degli equivoci di molti critici e di numerosi spettatori sia stato confrontare La grande bellezza con i film felliniani. Si è trattato di un riflesso quasi condizionato ma radicalmente errato. Rivedendolo, mi è stato ancor più chiaro che al centro del film non c’è Roma ma «la grande bellezza che ho cercato, senza trovarla» come afferma verso la fine il protagonista. Non è un film sulla Roma barocca ma è un film barocco. Un’opera quindi sul tempo, sulla morte e sui loro simboli.

11 commenti

  • agbiuso

    Marzo 15, 2014

    Grazie, Antonio, di questa tua corretta riflessione.
    Il significato delle opere d’arte consiste anche nella varietà delle interpretazioni che generano. Gadamer la chiama Wirkungsgeschichte, storia degli effetti.

  • antonio Petronaci

    Marzo 15, 2014

    Eppure alcunché di felliniano credo che vi sia in questo film, forse nell’ispirazione iniziale, nella scansione dei tempi, nella ricerca di un linguaggio nuovo per dire … forse solo perché, vedendolo, non si può fare a meno di pensare a Fellini, anche per dire che “uno degli equivoci di molti critici e numerosi spettatori sia stato confrontare la “Grande bellezza” con i film felliniani”.
    Un caro saluto
    Antonio

  • agbiuso

    Marzo 6, 2014

    Le reazioni patriottiche (e ultrainteressate) all’assegnazione dell’Oscar sono semplicemente patetiche e confermano quanto sia diventato difficile leggere un film senza sovrapporvi la cronaca televisiva.
    Ha dunque ragione Travaglio a concludere così un suo commento:

    “In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.”

    Fonte: Oscar: la grande vuotezza
    il Fatto Quotidiano, 5 marzo 2014

  • agbiuso

    Marzo 3, 2014

    La ringrazio molto per questa segnalazione, caro Enrico.
    Sono contento di aver colto dunque qualcosa delle intenzioni di Sorrentino.
    D’altra parte, bastava vedere il film come opera di un immaginario onirico e barocco per rendersi conto della sua natura.
    E sono contento che La grande bellezza abbia ottenuto questo riconoscimento.

  • Enrico

    Marzo 3, 2014

    Caro prof.,
    Lorenzo Soria, critico cinematografico de “L’Espresso”, ha oggi pubblicato sul sito del settimanale un articolo recante una mail ricevuta da Paolo Sorrentino poco più di un mese fa: la lettera del regista napoletano mi ha ricordato per diversi aspetti la sua recensione e quindi ho pensato di riportarne qui il testo.

    Caro Lorenzo,

    la mia risposta alla tua domanda è semplicissima. Questo film non è che sia piaciuto negli Usa e non sia piaciuto altrove. Compatibilmente con la forza dei diversi distributori nei rispettivi paesi questo film è andato bene dappertutto.

    In primis in Italia, dove è oltre i sette milioni di incasso (includendo il fuori cinetel che sempre soldi e spettatori sono). E’ andato bene in Inghilterra, Olanda, Germania, Spagna, Usa e in altri paesi. In altri paesi ancora non è uscito. Dunque, io rifiuto l’idea di un pubblico americano che sarebbe diverso dal pubblico italiano o da altri pubblici. Il pubblico è eterogeneo, sì, ma non a seconda dell’appartenenza geografica. Gli americani che hanno visto il mio film lo hanno apprezzato per le stesse ragioni per cui lo hanno apprezzato molti italiani. Così come ci sono altri italiani che non hanno amato il film, sono altresì sicuro che ci sono altrettanti americani che non hanno amato il film.

    Dunque, per me non esistono contrapposizioni di pubblici. Questo film è stato apprezzato un po’ dappertutto perchè un po’ dappertutto si è ritenuto che fosse un buon film. Molto semplice! Mi limito a parlare del pubblico e non entro nel merito della critica dove, lì si hai ragione, rispetto a una sostanziale unanimità positiva dei critici di tutti i paesi del mondo fa da contraltare una parte della critica italiana che ha criticato fortemente in negativo il mio film. Mi limito a una constatazione e non entro in polemiche, dal momento che sono stato educato a rispettare il giudizio dei critici, a non criticare la critica, a non raccogliere le provocazioni, a non rispondere.

    Io faccio un film, mi espongo, rischio, perchè mostrarsi pubblicamente comporta sempre una possibile esposizione alla critica o addirittura al dileggio e accetto queste eventuali critiche o insulti così come gioisco dei complimenti e dei pareri positivi.

    Tu vuoi sapere da me cosa piace del film, ma è una domanda alla quale mi è impossibile rispondere. Gli spettattori sono la somma di individualità e ciascuno può essere colpito da una cosa diversa e con questo film accade ancor di più perchè è un film che mette in campo molte sollecitazioni, molti temi, molte emozioni e dunque offre una specie di ventaglio ampio dove lo spettatore può attingere secondo la sua sensibilità.
    Io so solo che, in quanto autore del film, tendo a essere irritato da chi vuole ridurre il film nei confini del trattatello sociologico o incanalarlo nella lettura politica, con Berlusconi sempre in mezzo.

    Io, come fanno tutti gli autori di un film, ho combinato secondo la mia sensibilità, secondo le mie capacità narrative, secondo il mio intuito, il reale e l’immaginario, e di volta in volta, reale e immaginario si distanziano o si sovrappongono, si fondono o litigano, tutto per ottenere, semplicemente, un film che mi piacesse e che piacesse.

    Il film è il frutto di un parto mentale e il parto mentale è tale perchè quella mente ha declinato in modo personale la realtà. Dunque, nel film c’è la mia idea di realtà che non necessariamente corrisponde alla realtà vera e soprattutto la mia “realtà” non ha alcuna pretesa di spiegare il berlusconismo, cosa è diventata l’Italia oggi, quali sono i clichè italiani e via dicendo.

    Forse non ti sono stato di aiuto con queste mie risposte, ma di fatto questo è il mio pensiero.
    Il film dichiara in apertura, con la citazione di Celine, la sua appartenenza al regno dell’immaginario. E il film è frutto del mio immaginario. Succede alle volte che quell’immaginario corrisponda alla realtà e altre volte no, ma è poi così interessante? Per molti pare di sì e infatti si sono accapigliati fino alle risse. Per me no. Non sono mai interessato al tasso di realismo che un film, un libro possiedono. E’ la dimensione “sentimentale”, in senso di emozioni e emotività di un film, che mi rapisce o mi allontana da un film. Penso che quelli che hanno approcciato il mio film in una chiave di verosimiglianza dei sentimenti contenuti nel racconto, si siano goduti il film, lo abbiano apprezzato e alla fine si sono anche commossi.

    Perchè se i sentimenti contenuti nel film sono verosimili, significa che corrispondono ai sentimenti dello spettatore e questo stabilisce un’empatia che ti fa dire: “che bel film!”. Quelli che invece hanno approcciato il film con l’animo dell’entomologo che doveva analizzare il tasso di verosimiglianza non dei sentimenti, ma dell’aderenza del film alla realtà italiana (e questo presumo che lo abbiano fatto per deformazione professionale soprattutto i critici italiani) si sono trovati di fronte a un oggetto sfuggente e multiforme, anche contraddittorio e complesso, che li ha disorientati.

    E un film che ti disorienta sei portato a giudicarlo negativamente. Ecco, rispondendo alla tua domanda, il succo del discorso. Se si vuole trovare in un film quello che l’autore non ci ha voluto mettere, si finisce per restare delusi. I pubblici e i critici stranieri, forse, non hanno tutta questa esigenza di fare equazioni tra il film e la realtà italica e dunque hanno avuto la possibilità di abbandonarsi. E io posso garantire senza ombra di dubbio, a costo di apparire presuntuoso, che se ci si “abbandona” a questo film non si può non esserne coinvolti emotivamente.

    Quest’è!

    Ti abbraccio

    Paolo

    Questo il link per l’intero articolo
    http://espresso.repubblica.it/visioni/2014/03/03/news/paolo-sorrentino-abbandonatevi-al-mio-film-ne-resterete-coinvolti-1.155422

    Un caro saluto

  • SARAH

    Gennaio 11, 2014

    Gentile Professore,
    rivedo questo film ancora oggi e non mi stanco mai di trovare nuovi significati ,nuovi simboli,l’umanità che vi sta dentro .Agli oscar d ‘oro ,l ‘Italia si presenta con “La Grande Bellezza” ! 🙂
    Leggo solo ora il suo commento aggiunto e sono contenta che Lei abbia rivisto il film con un ‘altra prospettiva!
    a presto.
    Cordialmente
    Sarah Nicotra

  • agbiuso

    Giugno 15, 2013

    La ringrazio, cara Sarah, del suo commento al film.
    Ho rivisto La grande bellezza e ho aggiunto altre considerazioni a quanto avevo scritto alcuni giorni fa.

  • SARAH

    Giugno 12, 2013

    LA VITA CHE GUARDA SE STESSA…
    LA VITA CHE SI VEDE TRAPASSARE..
    LA VITA CHE FRONTEGGIA LA MORTE ,L’IRREQUIETEZZA ,L’INCERTEZZA E LA DISPERAZIONE DELL’OGGI…
    LA VITA CHE SI ASCOLTA E CHE CHIEDE AIUTO…
    LA VITA CHE SI FA SEMANTICA…
    MERAVIGLIA! UNA SOLA PAROLA “MERAVIGLIA”..

  • Biuso

    Maggio 31, 2013

    Caro Penna, la ringrazio per l’analisi scintillante e profonda che ha dedicato a questo film.
    Lei si è incentrato sulla romanità de La grande bellezza e vi ha notato una Stimmung decadente. Ai miei occhi, invece, si tratta soprattutto della grande potenza che la mente creativa -e quella di un artista in specie- ha di generare mondi, immagini, fantasmi, sogni, interpretazioni, concetti. Una lettura quindi parziale, la mia, che il suo commento ha certamente riportato a uno degli elementi principali dell’opera.
    Non condivido la lettura soteriologica del personaggio della “santa”, che a me invece è sembrato ironico sino al sarcasmo.
    Quanto agli effetti speciali, a me è parso che siano presenti soltanto nella scena da lei ricordata dei fenicotteri. Nulla di confrontabile, ad esempio, con lo stucchevole profluvio che di tali effetti si ha nel Grande Gatsby di Baz Luhrmann.
    Magnifici, naturalmente, i versi di Rilke.

  • Giulio Penna

    Maggio 30, 2013

    Ci tengo, oltre a correggere la svista per cui ho scritto alacre in luogo di acre, a puntualizzare il ruolo che ancora oggi deve avere il classico riportando la seguente poesia di Rilke in relazione a quanto, reduce dalla corruzione del tempo, abbiamo visto dell’antica romanità:

    Non conoscemmo il suo capo inaudito
    e le iridi che vi maturavano. Ma il torso 
    tuttavia arde come un candelabro 
    dove il suo sguardo, solo indietro volto,
    resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
    la curva del suo petto e lungo il rivolgere
    lieve dei lombi scorrere un sorriso
     fino a quel centro dove l’uomo genera.

    E questa pietra sfigurata e tozza
    vedresti sotto il diafano architrave delle spalle,
    e non scintillerebbe come pelle di belva,

    e non eromperebbe da ogni orlo come un astro:
    perché là non c’è punto che non veda
    te, la tua vita. Tu devi mutarla.
    [Torso arcaico di Apollo]

  • Giulio Penna

    Maggio 30, 2013

    La mestizia che trapela nei termini di un canto funebre segna, più della citazione da Céline, l’incipit del racconto di un viaggio nella stasi, di una morte cerebrale, di un processo irreversibile e spietato, la decomposizione di tutto ciò che, segno peculiare dell’umano, viene descritto nella fase che di poco precede un epilogo esistenziale rovinoso quanto ineluttabile. Roma è la summa, la perfetta sinossi della civiltà umana nei suoi slanci vitali, nell’opulenza di un potere sempre delirante, della decadenza dei mores verso un imbarbarimento come condizione di trappola limbatica in cui tutto resta impantanato. Percy Shelley descrisse nel frammento Rome and Nature una Roma in eterna, quasi prometeica caduta, Quevedo in Roma Sepultada en Sus Ruinas vide come in un sogno il suo fantasma, compianto dalle lacrime del Tevere:

    Roma da quella gloria così pura
    fuggì ciò ch’era saldo e solamente
    il fuggevole ormai permane e dura
    [dai Sonetti Amorosi e Morali]

    Questa è la Roma de La Grande Bellezza, la città che, come una flaccida diva del cinema sul viale del tramonto, non ammette di aver perduto il suo status di caput mundi ma borbotta insoddisfatta i propri grugniti con cialtrona arroganza, pretende d’ essere la première dame quantunque aliti l’alacre e disgustoso miasma senile che invero non appartiene soltanto a lei ma all’umanità tutta, vessata da un neo primitivismo di cui Roma non ne risulta che il simbolo totalizzante.
    Carducci scrisse ne Le Odi Barbare

    e tutto che al mondo è civile
    grande, augusto, egli è romano ancora.

    Ma tale rappresentazione non è che, riprendendo la figura sopra citata, l’esaltazione di una foto di una diva che mascheri il rimpianto per i tempi che furono, la bambola della piccola Baby Jane con cui in un famoso film Bette Davies/Jane rivendicava penosamente la fama di cui si gloriò durante l’infanzia.
    La pellicola si distingue dal tipico provincialismo a cui il cinema italiano è vocato, per l’iperrealismo spinto al parossismo nel carattere antirealista della narrazione, caotica nello sviluppo della trama, deflagrata nella forma (soprattutto durante prima parte del film) in uno stile precipuo ai videoclip.
    Il sessantacinquesimo compleanno del protagonista, festeggiato da questi insieme con fantocci subumani, pantomime della fisicità anestetizzata ed espunta da ogni significato, nel vagito grottesco di una mostruosa accozzaglia di suoni alla moda, rappresenta l’ingresso dell’umanità nell’età pensionabile, in quell’agonia in cui versa Roma e la cultura, ovvero l’età della vita in cui si ha la consapevolezza di essere più vicini al giorno della propria dipartita che a quello della propria nascita.
    In questo humus dunque si radicano le misere esistenze dei personaggi, delineati come fossero la caricatura di se stessi, una compagine di borghesi vampirizzati, fatta di uomini impagliati e donne pneumatiche che hanno cannibalizzato ogni forma del bello, che sussistono noncuranti del contatto coi simboli della gloriosa Roma, la quale funge perciò da teatro dei loro gesti zoomorfi con cui in ogni istante si scandiscono in un declassamento al livello delle bestie, alla stregua di quelle che popolarono l’anfiteatro Flavio.
    Se Sorrentino ha il merito di mettere in scena l’oscura perdita di umanità in cui siamo sempre più immersi, l’abisso che avvolge le relazioni umane, la cognizione dello stadio di annichilimento dell’io nella scena fondamentale in cui il protagonista “parla” con la classicità(nel suo connubio col Cristianesimo) attraverso il tempietto di San Pietro in Montorio, ha il demerito di mostrare una via, una soluzione a tale annichilimento tanto banale da sembrare autoreferenziale a quanto descritto nell’opera stessa. Il personaggio che assurge al ruolo chiave per il raggiungimento della bellezza è una santona che predica la povertà negli stessi toni edulcorati e funzionali al potere, con cui si rivolge ai fedeli Papa Bergoglio: nell’austerità con cui compie l’attività di missionaria, ella si nutre soltanto di radici, e tale inclinazione è utilizzata come pretesto per predicare un necessario ritorno alle radici della cultura cristiana (e classica). Allo stesso tempo però lo stesso film poteva essere realizzato senza l’insulsa pomposità di effetti speciali ridicoli (vedi gli uccelli che volano sul Colosseo), sperpero inutile di una produzione ( a cui ha partecipato anche la Medusa, che appartiene all’uomo che ha catalizzato nella propria persona tutta la corruzione immaginabile da ogni punto di vista) che in barba ai bei propositi ha dovuto inserire del fumo per rendere la pillola meno amara e più commercializzabile. Molte parti del film sono cosparse di pretenziosità dozzinali che hanno deturpato il risultato finale dell’opera, che pur non restando un indimenticabile capolavoro, si colloca fra quei pochi film significativi del panorama italiano di questi ultimi anni.
    Sono Sorrentino e il cinema italiano moderno che dovrebbero tornare alle radici di quel cinema dei Rossellini, dei De Sica, dei Rosi, della Roma vista da Fellini e da Pasolini quando la vita, seppur descritta in maniera troppo dolce o accattona, trionfava sempre nella sua grande bellezza.

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