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Mente & cervello 76 – Aprile 2011

Il corpo è il luogo del potere, della memoria, delle passioni, dei significati. Ipermnesia e amnesia costituiscono forme patologiche dell’identità di un umano, che consiste nel ricordare e nel dimenticare, inseparabili. Il sonno, la cui funzione è rimasta per secoli un enigma, è necessario per selezionare e consolidare nel cervello le informazioni ricevute e le esperienze vissute durante la veglia. Nessuna parte, sezione, area dell’encefalo conserva ricordi come un cassetto conserva dei documenti. L’ippocampo, la struttura cerebrale senza la quale si perde la memoria, costituisce «non la fonte o il magazzino della memoria, ma un mediatore essenziale per la sua formazione» (A.J. Greene, p. 61), «una stazione di passaggio per la conservazione dei ricordi a lungo termine» (Suzanne Corkin, intervistata da D. Ovadia, 45).
La memoria non è una struttura ma è un processo distribuito in tutto il cervello e al di là di esso, nelle situazioni, nei contesti, negli oggetti la cui percezione riattiva la fotografia neuronale di ciò che una volta è stato percepito e vissuto: «quando ricordiamo un evento nella nostra mente si riattiva la rete di neuroni che si era formata durante la registrazione di quel momento, permettendoci di viverlo nuovamente. Ricordare, perciò, è rivivere» (Greene, 61). Una vita che è tale perché i ricordi sono pregni di significati. Dimenticare non significa rimuovere dei contenuti ma scollegare i nessi semantici tra di essi. «Ciò che viene perso nell’amnesia è dunque la capacità di collegare le cose e di attribuire loro un significato. Per una mente incapace di stabilire collegamenti, ogni istante è un evento isolato privo di continuità, ogni pensiero è slegato dagli altri, ogni insegnamento è privo di importanza, ogni persona è un estraneo, ogni evento è inaspettato» (Id., 63).

La memoria è fatta di passioni, attese, traumi, speranze. Non ricordiamo i primi anni di vita, meno ancora il tempo fetale e tuttavia sembra che molta parte del carattere si formi ancor prima di venire alla luce, «le influenze esterne sul feto derivanti dall’alimentazione, la salute generale e il livello di stress della madre possono alterare lo sviluppo neurologico del nascituro» sino a «gettare nuova luce sulle cause che renderebbero alcune persone più inclini alla depressione o ad altre psicopatologie» (E. Musumeci, 23).
Nei primi anni di vita -e, ancora una volta, dal terribile rapporto di un mammifero con la madre– si formano anche gli stili di legame affettivo, che Amir Levine e Rachel Heller hanno distinto in tre tipologie: sicuro, insicuro ansioso e insicuro evitante. Le prime «si sentono a proprio agio nell’intimità e sono generalmente calde e affettuose. Le persone ansiose bramano l’intimità, sono spesso preoccupate rispetto alle loro relazioni e tendono a dubitare della capacità del partner di ricambiare il loro amore. I soggetti evitanti fanno coincidere l’intimità con una perdita di indipendenza e cercano costantemente di ridurre al minimo la vicinanza» (70). I due studiosi offrono anche dei consigli per capire se l’incompatibilità negli stili di legame affettivo può creare delle relazioni senza futuro o se è possibile intervenire. Il dramma è, infatti, che «stili di attaccamento non compatibili possono causare una buona dose di infelicità in un rapporto anche quando due persone si amano profondamente» (73). Una bella formula è la seguente: «se desideri prendere la strada che porta all’indipendenza e alla felicità, trova la persona giusta da cui dipendere e poi percorrila insieme a lei» (72).
La relazionalità, in particolare quella di coppia, è il punto nel quale di condensano carattere, ricordi, desideri. È il processo che accadendo plasma, trasforma, esalta o schianta l’entità temporale che siamo. E questo perché «il nostro cervello si è evoluto non solo per apprendere e ricordare, ma anche per gestire le relazioni: passate, presenti e future» (Greene, 63-64).

[Indice del numero di aprile 2011 di Mente & cervello]

3 commenti

  • agbiuso

    Aprile 22, 2011

    @Paolina Campo
    Nessuna confusione, e anzi la ringrazio sempre per il suo apprezzamento e le costanti letture. Come sa, sono anch’io convinto che la vita della nostra specie sia un intero del quale ciascuno di noi è parte.

    @Antonella
    Per quanto riguarda Greene, potresti partire dal suo sito.
    Sì, è nella nella memoria che mente, cervello e temporalità trovano il loro punto di intersezione. Se il corpo è memoria, quest’ultima coincide con la mente stessa, con la sua capacità di distendersi verso ciò che è stato, conficcarsi in ciò che è, prefigurare quanto potrà accadere. La memoria è la mente che si sottrae a se stessa proprio mentre si dà, in una compresenza di ricordo e di oblio che scandisce –di fatto- l’intera esistenza e ogni flusso del pensare.
    Su questo tema -così importante- ti consiglio due testi:
    J.Y. Tadié e M. Tadié, Il senso della memoria, Edizioni Dedalo 2000;
    Costanza Papagno, Come funziona la memoria, Laterza, 2003.

  • antonella

    Aprile 22, 2011

    Ho letto con grande interesse l’articolo riguardante la memoria. Trovo affascinanti le ricerche che pensatori e scienziati si ostinano ad effettuare intorno a questo tema centrale della nostra esistenza. Infatti, cosa sarebbe l’uomo senza la memoria? Meno che niente presumo, anche se una lezione di un grande filosofo afferma che l’oblio è importante affinché il nostro agire non venga schiacciato.
    Potrei, invece, avere qualche maggiore indicazione su Greene? Non riesco a trovare nulla su google. grazie

  • Paolina Campo

    Aprile 21, 2011

    Ho letto con interesse l’editoriale dell’ultimo numero di “Vita pensata”. Tra quelle righe ho letto la grande speranza del riscatto per i siciliani che per troppo tempo hanno subito l’orrenda macchia della mafia.
    Non ho visto il film di Nanni Moretti, ma da quello che ho letto e dalle poche immagini che ho visto, penso che si sia centrato un tema veramente attuale: si ha tanto bisogno di umiltà, anche nella preghiera.
    “Il nostro cervello si è evoluto per gestire le relazioni”. Molto bella questa frase,molto significativa.
    Ho sempre pensato che l’aggettivo “mia” riferito a “vita” rischi di circoscrivere una realtà che vuole ed ha bisogno di abbracciare un mondo che c’è perchè ci siamo noi, in prima persona. Cosa sarebbe in fondo questa vita “mia” se non fosse in riferimento continuo ad un mondo che mi circonda?
    Grazie e scusi se magari ho fatto un pò di confusione.

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