Skip to content


Prometeo

Prometeo

È un teatro del potere e della crudeltà quello che Eschilo dispiega nel racconto delle ragioni e dei modi che conducono alle catene e a una millenaria sofferenza il Titano filantropo che troppo ha amato gli umani, che ha donato loro il fuoco e l’ignoranza del giorno del morire (Eschilo, Prometeo, trad. di Davide Susanetti, vv. 11, 28 e 123). Non soltanto l’ignoranza della morte e la conoscenza della tecnica, Prometeo ha regalato anche l’alfabeto e i numeri, formidabili strumenti di una memoria utile alla vita: «la scrittura conserva il ricordo di tutte le cose, permette di fare poesia e cultura» (459-461). Ma tutto questo è stato realizzato da Prometeo contro il volere di Zeus.
L’antico figlio di Gaia e di Themis, della Terra e dell’Ordine, ha sfidato il potere del nuovo tiranno che si è insediato sull’Olimpo. Per questo deve essere punito con modi efferati, talmente strazianti da far desiderare al Titano immortale la morte. Gli fa eco Io, la ragazza-giovenca anch’ella vittima della tracotanza di Zeus e a causa del desiderio del dio destinata a vagare per terre lontane, pungolata da un tafano orribile. Anche Io preferirebbe sparire, poiché «è meglio morire una volta sola che soffrire giorno dopo giorno!» (750-751).
Basterebbe questa sintesi dei contenuti della tragedia per comprendere che Prometeo fonda l’antropologia greca, caratterizzata prima di tutto dalla consapevolezza della propria natura temporale e finita. Più volte, infatti, gli umani vengono definiti efemèrois, «poveretti, disgraziati che vivono alla giornata» (83, 547,945), per i quali «la sventura non fa distinzioni e non sta mai ferma: oggi si abbatte su uno, domani su un altro» (275-276). Un destino, quest’ultimo, che tuttavia gli uomini condividono con gli dèi. I mortali sono dominati dal Tempo, i divini sono dominati dalla Necessità e per entrambi non si dà svolgimento, inizio e fine che non siano già stabiliti nell’abisso di Ananke. «Ma il tempo passa e con il tempo si impara tutto» (981); si impara soprattutto che «non si può lottare contro la forza di Ananke, non si può lottare con la Necessità» (104-105), si impara che «ti puoi inventare di tutto, ma il destino è più forte» (514), tanto che neppure Zeus può essere astenestèros, neppure lui può sfuggire alla Necessità (517).
Sapiente di tutto questo, dell’essenziale e dell’effimero, dell’eterno e del finito, della tecnica e del dolore, la mente di Prometeo «vede anche l’invisibile» (842) e sa che, per quanto lunghissimo, il proprio tormento non sarà infinito, che un liberatore lo salverà dall’aquila, che Zeus avrà ancora bisogno del suo aiuto. In tale percorso Prometeo vede la propria gloria e questo lo aiuterà a sopportare tutto con orgoglio, a disprezzare o a compatire coloro che -amici o nemici- gli consigliano di cedere a Zeus. Prometeo odia tutti gli dèi che ha aiutato e che lo hanno così malamente ricambiato. Le sue prime parole invocano come testimoni dell’ingiustizia subita «il cielo luminoso, il soffio del vento, le sorgenti dei fiumi, lo scintillio infinito delle onde, la madre terra, il disco del sole che vede tutto» (88-91); i suoi tormenti provocano la sofferenza cosmica degli elementi e il compianto di interi popoli (397-435) e il dramma si chiude con l’invocazione del Titano a sua madre, come farebbe un qualunque mortale: «Grande madre mia, / e tu, cielo, che fai volgere il sole e diffondi ovunque la luce, / vedete che ingiustizia devo subire!» (1090-1092).
La saggezza più profonda alla quale Eschilo invita narrando il mito del Titano antico, delle nuove divinità olimpiche, dell’implacabile Necessità che accomuna ogni fibra dell’universo, è l’unica saggezza praticabile dal corpomente umano, dal procedere consapevole della materia nel tempo: la saggezza che consiste nel «proskunountes ten Adrasteian», piegarsi ad Adrastea, all’Inevitabile (936), conservando tuttavia e per intero l’energia e la scintilla del proprio agire nel mondo.

2 commenti

  • agbiuso

    Febbraio 3, 2011

    Anche a costo di apparire ripetitivo, la ringrazio ancora una volta caro Diego.
    “Filosofo niente male” è una definizione invidiabile 🙂
    Sì, il nostro esistere è “strano”. Anche per questo, per cercare di disvelarne l’enigma, vale la pena vivere.

  • diegob

    Febbraio 3, 2011

    l’unica saggezza praticabile dal corpomente umano, dal procedere consapevole della materia nel tempo

    questo procedere consapevole è dunque sapere della sconfitta certa, ma è anche la nostra dignità, dignità di materia che sa di morire, e questo sapere non va riempito di paura, ma di serena consapevolezza

    grazie prof. biuso, a leggerla si va sempre al tema di fondo di questo nostro strano esistere, lei è un filosofo niente male

Inserisci un commento

Vai alla barra degli strumenti