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Una sconfinata giovinezza

di Pupi Avati
Italia, 2010
Con Fabrizio Bentivoglio (Lino Settembre), Brian Fenzi (Lino da bambino), Francesca Neri (Francesca), Lino Capolicchio (Emilio) Gianni Cavina (Preda), Serena Grandi (zia Amabile)
Trailer del film

Una coppia di cinquantenni. Lei insegna filosofia medioevale, lui scrive per le pagine sportive di un quotidiano e partecipa spesso a dei programmi televisivi. Vivono in una bella casa. L’assenza di figli stende un velo di malinconia sulle loro vite ma Lino e Francesca si amano di un affetto forte e sicuro.
Lino comincia a dimenticare i nomi delle cose, rimane un po’ imbambolato in televisione, scrive degli articoli nei quali invece che delle gare sportive parla di sé e della propria infanzia. È l’Alzheimer. Francesca non si rassegna, vorrebbe tenerlo a casa, curarlo lei. Quando un incidente automobilistico la porta in ospedale, Lino va alla ricerca di un suo compagno di giochi che diceva di saper risuscitare i morti. Ma non si risorge dall’abisso della memoria perduta.

L’essere umano è prima di tutto un corpo animale che ricorda, che parla perché ricorda, che pensa perché parla e che parlando ricrea continuamente il mondo, che dimentica ciò che pensa e proprio per questo può ancora ricordare. La memoria e l’oblio rappresentano delle condizioni entrambe fondamentali affinché ogni singolo umano riconosca sé, la propria immagine, il perdurare dell’identità nel cangiare incessante di ogni cosa e del corpo stesso. Per questo la malattia di Alzheimer è terribile, perché priva in modo inesorabile il corpo dei propri ricordi e in questo modo conduce alla demenza e alla morte. La distruzione del sé prepara e produce la fine dell’unità psicosomatica che ogni umano rappresenta. La memoria costruisce, infatti, l’io, fa l’identità di ciascuno, consente di rimanere la stessa entità nel mutare dei luoghi e dei tempi. Il cinema di Avati è tutto costruito sulla memoria -in particolare dell’infanzia e della giovinezza- e questo film ne costituisce quindi una vera e propria summa intessuta di famiglia, di sentimenti intensi, di tranquilla attesa di un qualche dolore che si abbatte sulla quotidianità, stravolgendola. Ma la centralità della memoria consiste anche nel suo peso. I ricordi sovrastano il soggetto e lo dominano. Se non venissero progressivamente cancellati lo ucciderebbero paralizzandone l’attenzione, la curiosità, il futuro. Ed è questo peso del ricordo che costituisce il merito del film -nel nero seppia degli anni Cinquanta- e insieme il suo limite -nello sguardo rivolto a un’età d’oro che cancella il presente.
Una sconfinata giovinezza -bellissimo titolo- riconquistata al prezzo della vita. Perché la nostalgia uccide anche i film.

2 commenti

  • diegob

    Novembre 7, 2010

    ieri sera ho visto il film

    La memoria e l’oblio rappresentano delle condizioni entrambe fondamentali affinché ogni singolo umano riconosca sé, la propria immagine, il perdurare dell’identità nel cangiare incessante di ogni cosa e del corpo stesso.

    questa osservazione, che ho letto ben prima di aver visto il film, mi è tornata in mente

    in effetti il percorso del vivere è questo costante spostamento dal passato verso il futuro, per cui la coscienza del passato è fondamentale per sapere da dove vieni, chi sei, come anche l’attenzione al presente, alle scintille di futuro che contiene è indispensabile per questo processo continuo, per questo continuo ripensare e riproiettare in avanti

    allora in effetti, con quella gravissima malattia, si inceppa il processo, come un disco rotto risuona solo il passato

    in parte è tipico comunque della vecchiaia, un certo tracimare del passato sul futuro, anche quando non c’è patologia

    in effetti avati è un regista malato di passato nel senso che il registro della nostalgia gli è molto congegnale, lui fondamentalmente preferisce il passato

    un buon film, certamente molto avatiano se mi si passa il termine

    grazie prof. biuso, perchè sono andato a vederlo anche per la sua segnalazione

  • Anatol

    Ottobre 14, 2010

    Ho subito in questi giorni la perdita di un congiunto di un caro amico a causa di complicanze dovute al morbo di Alzheimer. Devo dire che aver letto qui una recensione su di un film del genere mi ha fatto leggermente rabbrividire (in senso buono, se si può utilizzare una categoria morale in questo contesto).
    Il film a cui avevo pensatointensamente in questi giorni è “Un’altra giovinezza” di Coppola. Penso che la situazione dei malati del morbo e del loro nucleo familiare aldilà dell’orrore conradiano che esso arriva inevitabilmente a profilare, apra la prospettiva di un percorso umano ormai integralmente estraneo alla linea del tempo convenzionale a cui siamo abituati. Il malato cessa di essere proiettato verso il futuro, diventa vettore irregolare fra la lucida consapevolezza di un evento e la sua inevitabile e repentina smentita e cancellazione emotiva. Il mondo attraverso il morbo non è più continuum su di una linea temporale interiorizzata dalla convenzione ma caotico sistema di reltà particolari fragili, frames emergenti di un passato vissuto come eterno presente dal malato e poi escluso inesorabilmente dal suo mondo. Il malato come navicella esasperata dalle falle nell’oceano cronologico soggettivo sempre in attesa di un domani che sarà sempre rappresentazione di un qualche ieri significante deserto di significati.
    Un eterno ritorno clinico dove per usare l’immagine dell'”Odissea” kubrickiana il bicchiere continuerà a frantumarsi sotto lo sguardo interiore del soggetto, mentre il monolito, immagine regolare e perfetta dell’incognita assoluta, aprirà all’inesprimibile contingenza dell’esistente.
    Ma tutto questo, come pretendere di comunicarlo ad un figlio sofferente?

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