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Di alcune orme sopra la neve

Di alcune orme sopra la neve

di Giuseppe O. Longo
Mobydick, Faenza 2007
Pagine 256

«Un Dio distratto e impotente» (pag. 16) ha progettato il «Centro incoerente e smisurato» (224), la cui mappa infedele e parziale (o forse l’infedeltà abita nei luoghi stessi e non nelle mappe?) non convince Enrico, che decide dunque di ridisegnarla. Il Centro è un Istituto scientifico nel quale Enrico Hecker viene chiamato a lavorare su un progetto di ricerca dedicato ai raggi laser. Carattere riservato, serio e infantile, romantico e distante, intessuto dell’assenza del padre morto prima che lui nascesse, soggiogato dall’amore e dall’odio verso la Madre e i suoi ricatti affettivi, Enrico vede in questo incarico una via di liberazione e di compimento. Ma al Centro il tempo e la vita prendono una cadenza inquietante ed enigmatica.
Il cameratismo maligno del collega Fayard, la casta e perturbante femminilità di Francesca, l’ostilità dell’Amministratore, sono forme diverse e dolorose dell’«abisso che separa ogni essere umano da ogni altro» (47).

In questo suo lavorare, studiare, cercare la maglia rotta dell’armatura, Enrico incontra anche dei possibili messaggeri di salvezza: il vecchio tipografo Alvise, che aveva stampato quella mappa così poco esatta, il quale lo avverte che «fare la carta è necessario, ma non bisogna sperare di riuscirci» (183); la sensuale Magda, baciata in una vecchia carrozza, la materna Irma conosciuta mentre lava i panni al sole. Altre figure di tenebra, invece, lo sfiorano senza distruggerlo. «Come in sogno» (90) e facendo sogni rivelatori, Enrico oscilla tra la «secca e misurata esaltazione che dà la scienza» (171) e il bisogno quasi inevitabile e involontario di perlustrare i luoghi più reconditi del Centro, di segnarne le strade, di scioglierne le metafore sino «all’insieme di tutte le metafore», Dio (232). Ma l’Amministratore lo mette in guardia dal disvelamento dello spaziotempo: l’enigma va lasciato alla sua natura, alla «replicazione assurda e quasi demente» dei geni, «unici veri depositari e propagatori della vita, cioè in fondo di se stessi», mentre cervello e corpo sono nati «come macchina da sopravvivenza per i geni» (219). Quando Enrico si incammina lungo un sentiero secondario, l’unico a mancargli per completare un primo foglio della mappa, si smarrisce.

«Guardò il Quadrivio e gli spuntarono lacrime di rabbia: tentare di raggiungerlo era stata una follia che gli aveva fatto perdere tempo prezioso e l’ultima luce del giorno. Ma almeno adesso tornare indietro sarebbe stato più facile: gli bastava seguire le proprie orme sulla neve; questo pensiero lo confortò. Cominciò a camminare senza più guardarsi intorno, mettendo con puntiglio i piedi sopra le orme che si vedevano appena, accendendo ogni tanto la lampada per risolvere un dubbio. Ma ad un tratto si accorse con disperazione che le impronte non c’erano più: si era lasciato ingannare da qualche forma estranea, aveva seguito una traccia illusoria» (250-251)

È lo smarrimento che a volte sembra fare dei nostri giorni e della vita qualcosa di inevitabile e di incomprensibile. Nella stanza dell’Amministratore Enrico aveva scorto un quadretto illuminato da una lampada, il cui soggetto non gli era chiaro ma sembrava raffigurare alcune orme sopra la neve. Le orme sulle quali, poi, si chiuderà il romanzo. Tale vortice letterario e metafisico intesse domande e risposte che arrivano, sì, ma quando tutto è compiuto nel tempo finito: «La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso» (Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6.521).
Un bellissimo romanzo, fisico e simbolico, angosciante e salvifico.

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