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Raccontami

Cùntami
di Giovanna Taviani
Italia, 2021 (Festival del Cinema di Venezia 2021)
Con: Mimmo Cuticchio, Vincenzo Pirrotta, Gaspare Balsamo, Mario Incudine, Giovanni Calcagno

Il mare che scintilla. I prati verdi e le terre brulle. I vicoli di Partinico, le cattedrali di Palermo. La potenza del vulcano, il turchese di un cielo senza fine. Le torri di Paternò, i teatri abbandonati. Le spiagge in lontananza, le saline di Trapani, le colline che seguono a colline. E dentro tutto questo i Paladini, i cantastorie, Ulisse e Polifemo, Bradamante e la follia di Orlando, Don Chisciotte e il suo scudiero. Il canto, il senso, le parole. E la luce. La Luce magnifica e totale della Sicilia ad avvolgere e coprire le tenebre profonde, la solitudine, l’incanto, la rassegnazione al dolore che gli umani si infliggono l’uno contro l’altro.
La cadenza altalenante di Mimmo Cuticchio sembra raccontare il respiro stesso della terra, quella cadenza appresa dal suo maestro Peppino Celano e che i suoi allievi modulano ognuno in modo differente. Coinvolgente è infatti, quasi plastica visibile toccabile, la follia di Orlando nel corpo di Pirrotta, il sogno del Quijote nei gesti di Balsamo, le sofferenze d’amore di Polifemo per Galatea che diventano l’urlo nella notte di Calcagno.
Il furgone rosso che va per la Sicilia portando dentro il vento i pupi secolari di Cuticchio si perde dentro i rovi del tempo, nella immobilità sempre rinnovata delle marionette che guidano il puparo almeno quanto il puparo guida loro. Le «storie popolari» costituiscono in realtà la potenza ancora del mito, della più profonda forma letteraria che le culture umane abbiano creato per dire i loro sogni, i dolori, le guerre, gli amori.
Giovanna Taviani descrive tutto questo con l’empatia di chi si è innamorato dell’Isola e delle sue leggende, con la raffinata cadenza del montaggio che da sé crea le proprie storie, con una fotografia smagliante, epica e avvolgente. Un bellissimo film che restituisce per intero il cùnto che la vita dei siciliani da sempre rappresenta.

«Otello c’era già dintra la riti»

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Otello
di Luigi Lo Cascio
Liberamente ispirato a Otello di William Shakespeare
Con: Vincenzo Pirrotta (Otello), Luigi Lo Cascio (Iago), Valentina Cenni (Desdemona), Giovanni Calcagno (Soldato)
Scenografie, costumi e animazioni di Nicola Console e Alice Mangano
Musiche di Andrea Rocca
Regia di Luigi Lo Cascio
Produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione
Sino al 1 febbraio 2015

Piacerebbe molto a Roland Barthes questo Otello, il cui senso è che l’Altro non esiste se non come dispositivo di sogno e di tortura. «L’oggetto di lu nostru sentimentu, / ‘un ci su Santi, havi pi forza assumigghiari / a ‘nsonnu ca nuantri nni ‘nsunnamu, / ‘nsonnu, spettru, fantasima, visioni» (41)1; afferma lucido il Soldato che intrama i dialoghi tra Otello e Iago, tra Desdemona e Otello, narrando la tragedia non del moro di Venezia ma di un uomo troppo preso da passioni e incapace di porre una distanza, una qualsiasi distanza, tra sé e l’enigma della donna. È il Soldato, infatti, che osserva giustamente come ai nomi di Bruto, di Coriolano, del principe di Danimarca, di re Lear, si pensa ai loro sentimenti e alle passioni -che siano crudeltà, potere, incertezza, dubbio, sdegno, delusione o altro- «‘nveci quannu si dici Otello / di subito si penza ch’era niuru» (31). E questo impedisce di comprendere che la Differenza tra lui e Desdemona non sta nel fatto che «una è janca / chi labbruzza di rosa e l’autru scuru / c’a funciazza di niuru primitivu / e sarbaggiu. A cosa ‘mpurtanti / ca ‘i fa diversi e pi sempri luntani […] è ch’unu è masculu mentri l’autra è fimmina» (ibidem). La passione funesta di Otello è consistita dunque nell’incapacità di accettare la differenza e l’enigma che la donna è, l’incapacità di fare propria «l’arti / di rispittari chista luntananza» (ibidem), arte nella quale consiste l’amore.
Piacerebbe molto a Sade questo Otello, nel quale Iago rivolgendosi agli spettatori dichiara di non essere qui tra noi per dare spettacolo, non è per noi questo teatro, non per la nostra soddisfazione, ma per se stesso,  per lui che si avvia consapevole e gratificato al supplizio riservato ai traditori perché questo ha voluto, questo ha tramato, questo ha realizzato. Ha voluto, tramato, realizzato la rovina di un uomo e di una donna che si erano creduti felici, la rovina di «sti du’ critini» i quali «si jieru a nnammurari…» (51).
Piacerebbe molto agli gnostici questo Otello, nel quale Iago definisce senza infingimenti l’umanità perduta nella sua disgrazia, la cui «dannazioni è comuni distinu […] picchì stu cancru ‘unn’è cosa luntana, / è a cosa cchiù vicina chi ci aviti, / siti vuatri stissi u cancru / semu nuatri, razza umana, / razza chi nasci già diginirata… / È cancru pi natura l’omu, / cancru e fangu» (21-22).
Piacerebbe molto a Iago questo Otello, che finalmente lo affranca dalla colpa, perché se costui, certo, prepara, alimenta e attizza il fuoco, la sostanza che brucia però è Otello stesso, «è la menti d’Otello ca ‘un sa fira / a suppurtari di la donna u gran misteru» (66). Iago è sincero perché convinto veramente che Desdemona «né cchiù né menu d’autri fimmini / era sicuramenti na buttana» (ibidem). La colpa di Otello sta anche nell’assoluta e inaccettabile ingenuità con la quale lascia che l’alfiere lo inganni sino alla pazzia; sta nel mancato iato tra la parola e l’azione, distanza che in sostanza fa l’umano; sta nel fatto che «Otello c’era già dintra la riti» (ibidem), stava già nella rete che il ragno delle passioni e del carattere fila senza posa, stava già nella maledizione del fazzoletto che sua madre in Egitto ricevette da una maga potente che tutto conosceva tra le stelle, fazzoletto che è il primo personaggio a comparire sulla scena, enorme lenzuolo sul quale si proiettano i sogni, gli incubi e i pensieri degli umani, sino a che -implacabile e pietosa- la Parca finalmente recida il filo della ragnatela che ci siamo costruiti.
Le soluzioni sceniche e registiche di questa magnifica rappresentazione sono dunque all’altezza della radicalità dello sguardo sull’umano, non troppo annacquata da qualche freudismo di maniera, come il racconto che Iago fa di quando lui quattordicenne scoprì il tradimento di sua madre. La lingua è -come si è visto- un siciliano duro e trasparente, parlato dai tre maschi sulla scena mentre Desdemona canta l’italiano. Lingua che ben rappresenta la natura arcaica ed esotica di questa tragedia, pur così vicina alla tragedia di noi tutti, dei nostri perduti sentimenti di gettati. Lingua che restituisce l’intento da cantastorie con il quale il testo è stato probabilmente concepito, intento che trova nella fisicità potente e arrotolata di Vincenzo Pirrotta l’Otello ideale a questo scopo.
Nel finale ariostesco Otello e il Soldato vanno verso la Luna a recuperare le lacrime e i sospiri di Desdemona  e soprattutto il fazzoletto. Ma un colpo all’ala ricevuto dall’ippogrifo durante il volo li costringe a lasciare lì ciò che hanno trovato. Una chiusa che sembra stridere con la tragicità profonda che precede ma che forse intende suggerire come la tragedia umana è per gli dèi poco più di una farsa, sempre uguale e quindi assai noiosa.

Nota

1. L. Lo Cascio, Otello, Mesogea, Messina 2015. Il numero di pagina è indicato tra parentesi nel testo.

Terra matta

Scenario Pubblico – Catania

Dall’autobiografia di Vincenzo Rabito
Con Vincenzo Pirrotta, Amalia Contarini, Marcello Montalto, Alessandro Romano, Mario Spolidoro.
Musicisti: Salvatore Lupo, Giovanni Parrinello, Mario Spolidoro
Regia e impianto scenico di Vincenzo Pirrotta
Musiche di Luca Mauceri
Sino al 5 aprile 2009

terra_matta

Dopo una «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» esistenza, Vincenzo Rabito scrisse una lunga autobiografia. Lo fece nonostante fosse quasi analfabeta, lo fece per raccontare l’infanzia da bracciante, la chiamata a «salvare la patria contro austriachi e germanisti» essendo nato nel 1899,  lo fece per narrare il sogno colonialista in Abissinia, le grandi adunate «fascistiche», il matrimonio che gli regalò tre figli maschi e una suocera terrificante -«la Cana»-, lo fece per dire la gioia ricevuta dal primogenito diventato finalmente «incenieri». Narrazione fatta di una lingua potente, terragna, stupefatta e profondamente sincera. Una pura invenzione nata dai giorni, dal sudore e dalla fantasia.

L’impresa di mettere in scena questo romanzo è riuscita a Vincenzo Pirrotta in modo quasi commovente. Pirrotta è Rabito, il suo urlo è quello della storia, la sua verità trasuda dal corpo e dalla voce. Come un cantastorie e più di un cantastorie, il regista dà forma ai quadri del tempo con l’aiuto di un gruppo di attori appassionato e versatile, con le musiche che danno risalto ai desideri, alla disperazione, all’euforia, al lutto e all’ironia del protagonista. Intensa la lunga parte dedicata alla Prima guerra mondiale, quando questo contadino attinge a un’ancestrale volontà di sopravvivenza per uscire vivo e integro dalla carneficina che «mi fece diventare macellaio» e alla cui conclusione canta, insieme agli altri reduci, «abbiamo vinto questa mincia, questa mincia abbiamo vinto». Tra il candore ctonio e il sarcasmo alla Grosz, emerge inesorabile la Terra matta, la Sicilia. Dove Vincenzo Rabito cercò, riuscendoci, di «tirare la vita».

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