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Espressionismo partenopeo

Teatro Bellini – Napoli
Le voci di dentro

di Eduardo De Filippo
Con: Toni Servillo (Alberto Saporito), Peppe Servillo (Carlo Saporito), Gigio Morra (Pasquale Cimmaruta), Betti Pedrazzi (Rosa Cimmaruta), Chiara Baffi (Maria, la cameriera), Lucia Mandarini (Matilde Cimmaruta), Vincenzo Nemolato (Luigi Cimmaruta), Marianna Robustelli (Elvira Cimmaruta), Marcello Romolo (Michele, il portiere) Rocco Giordano (capa d’Angelo), Antonello Cossia (un brigadiere), Maria Angela Robustelli (Teresa Amitrano), Francesco Paglino (Aniello Amitrano), Daghi Rondanini (Zi’ Nicola)
Regia di Toni Servillo
Coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatri Uniti di Napoli, Teatro di Roma
Sino al 18 gennaio 2015

voci_di_dentroAlberto Saporito non sa che ciò che ha visto con tanta nettezza -l’assassinio del suo amico Aniello da parte della famiglia sua dirimpettaia, i Cimmaruta- lo ha in realtà soltanto sognato. ‘Soltanto’? Quando cerca nella casa dei vicini le prove, le carte, il sangue che ha pensato di avere visto, non trova niente. E lo ammette davanti al brigadiere, lo ammette davanti ai Cimmaruta. Ma questi ultimi non credono alla versione del ‘sogno’ e cominciano a chiedergli di tirar fuori le prove che inchiodano gli altri membri della famiglia.
Tutti contro tutti. Anche il fratello di Alberto non aspetta altro che di vederlo in galera -per calunnia- in modo da appropriarsi della povera e sgangherata azienda di famiglia. Soltanto il vecchio zi’ Nicola sembra stare dalla sua parte ma lui è uno che da tanto ha smesso di parlare perché «se il mondo è sordo, lui ha diritto di essere muto». Il riapparire di Aniello Amitrano, ben vivo, non assolve nessuno. Anzi. Alberto Saporito ha compreso e ha snidato «ciò che vi è di mostruoso nell’ovvio» (Toni Servillo, p. 11 del Programma di sala), lo stare conficcato di ciascuno nel proprio delirio, nei propri sogni, nel proprio dormire, nell’odio profondo che riversiamo sui nostri simili, nel desiderio di saperli colpevoli, di vederli morti.
C’è davvero «una forza oscura nel testo» di Eduardo, una forza che «lo distanzia nettamente dai manichini dechirichiani di Pirandello» (Servillo, pp. 9-10), anche se allo scrittore siciliano deve certamente la rottura di ogni realismo a favore del linguaggio e della mente, della parola che produce il mondo. Questo linguaggio diventa in Eduardo De Filippo la musica dolorosa e potente della parlata di Napoli, si fa segno universale, canto, capacità di esprimere con ironia, con sdegno, con lucidità, l’universale ferocia degli umani. È questo espressionismo partenopeo, questo assurdo napoletano, che Eduardo aveva in mente «come spettacolo completo messo in scena e recitato nei minimi particolari, esattamente come io l’ho voluto, visto e sentito e come, purtroppo, non lo sentirò mai più quando sarà diventato realtà teatrale» (E. De Filippo, Il teatro e il mio lavoro, «Programma di sala», p. 21).
Il rigore e la profondità dell’interpretazione e della regia di Toni Servillo restituiscono alla scena lo spettacolo umano, le sue voci, il sogno.

Il sorriso e la morte

Teatro Franco Parenti – Milano
Sogno di una notte di mezza sbornia
di Eduardo De Filippo
liberamente tratto da  La fortuna si diverte di Athos Setti
Con: Luca De Filippo (Pasquale Grifone), Carolina Rosi (Filomena), Nicola Di Pinto, Massimo De Matteo, Giovanni Allocca, Carmen Annibale, Gianni Cannavacciuolo, Paola Fulciniti, Viola Forestiero
Regia di Armando Pugliese
Compagnia di Teatro di Luca De Filippo
Sino al 6 gennaio 2015

Luca-De-Filippo-e-Carolina-Rosi-foto-Federico-RivaPasquale Grifone vive modestamente ma vive. In una delle tante notti che lo vedono ubriaco, Dante Alighieri gli regala quattro numeri che lo renderanno ricco. Sono numeri, però, che indicano anche la data della sua morte, che avverrà tra pochi mesi. I numeri escono e la famiglia di Pasquale diventa milionaria. La felicità degli altri non compensa l’angoscia del protagonista, che vive come fosse un condannato a morte. Moglie e figli cercano di tranquillizzarlo ma sono anche ben pronti alla dipartita e non propriamente dispiaciuti. Il giorno stabilito si vestono a lutto e cominciano il loro pianto. Alle 13 in punto Pasquale si sente morire ma non muore. Un medico certifica la sua piena salute. Forse però non sono ancora le 13…
Una farsa, chiaramente, con tutti i colori, le esagerazioni, i movimenti, le battute intessute di grottesco. Ma una farsa che contiene i grandi temi del teatro di Eduardo, vale a dire la solitudine, il sogno, il morire. Il contratto, La grande magia, Questi fantasmi, Le voci di dentro affrontano la morte, la volontà di vivere, la vita onirica e l’esser soli con tutta la radicalità di un umorismo insieme teoretico e plebeo. Qui il tono è lievissimo, i tempi comici sono scanditi e il risultato è di grande divertimento. Ma anche da questa commedia traspare la tragicità della condizione umana. Soltanto un grande drammaturgo può coniugare così bene il sorriso e la morte.

Casanova come artista

Il Casanova di Fellini
di Federico Fellini
Italia, 1976
Con Donald Sutherland

Casanova_FelliniRivolgendosi a Giacomo Casanova una donna chiede: «Non riesci a parlare d’amore senza immagini funebri, senza parlare di morte?». È anche per esorcizzare la morte che Casanova/Fellini (questo il trasparente significato del titolo) dispiega la gloria dei colori, l’invenzione degli spazi, il frastuono del movimento, la festa.
La festa percorre per intero questo film: dall’incipit veneziano del Carnevale ai teatri  e alle corti d’Europa dove Casanova viene ospitato, lavora, seduce.  Ovunque la musica (magnifico Nino Rota) e particolarmente nella scena dell’organo suonato con furore da vari esecutori alla corte di Wittenberg. A Dresda alla fine della serata calano i lampadari, che vengono spenti uno a uno. Ed è come se il silenzio parlasse.
Dopo l’incontro con la madre comincia la decadenza del colto avventuriero, inizia il ritorno alla materia, al ventre della terra. L’artista appassionato e candido recita ancora i versi della follia di Orlando ma una donnetta comincia a ridere e lo offende di fronte all’intera corte.
È il destino dell’artista baudeleriano, dell’Albatros. Meglio allora, molto meglio, il coito con il bell’automa femminile. E quindi con se stesso. Come sempre. Mentre un uccello meccanico con le sue ali si alza e si abbassa -accompagnando le gesta amorose di Giacomo- la festa, la malinconia e la donna sorgono e tramontano nel sogno intimo e pubblico in cui consiste questo capolavoro.

 

Antirealismo

La grande bellezza
di Paolo Sorrentino
Con: Toni Servillo (Jep Gambardella), Carlo Verdone (Romano), Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio, Sabrina Ferilli (Ramona), Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari,  Massimo De Francovich, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luciano Virgilio, Serena Grandi, Lillo Petrolo
Italia – Francia, 2013
Trailer (da vedere, un film in sé)

Vuota, notturna e luminosa, cafona e splendente, edonistica e mistica. Irreversibilmente corrotta e del tutto inventata. Questa è la città che scorre tra le parole di Jep Gambardella, colui che non voleva essere soltanto il re delle feste ma chi le feste le faceva fallire. Scorre Roma tra i pensieri di quest’uomo, i suoi desideri finiti, la sua profonda saggezza e la totale calma. Scorre rassegnata ed eterna tra attrici fatte e disfatte, cardinali gastronomi, presuntuose performer, chirurghi taumaturghi e cialtroni, mafiosi in incognito, sessantottini ricchissimi, drammaturghi delusi, badanti cosmopolite, turisti morenti, industriali danzanti, sante spente e centenarie, candide spogliarelliste, padri infantili, nane giornaliste, maghi e giraffe, aristocratici a noleggio.
Scorrono i ricordi di Jep Gambardella, le sue memorie di un amore lontano dentro il mare. Il soffitto si trasforma in acqua, solcata dalla nostalgia e dal sogno. Il Tevere scorre tra palazzi irreali, tra argini lenti, tra sogni perduti e incanti mai avuti. Scorre il film tra musiche raffinatissime e banali. Scorrono gli occhi dello spettatore immerso nella placenta che il cinema è sempre stato e che qui trionfa, grembo colorato, suadente, onirico e ironico.
Una Babilonia nichilistica.
Se fossi un regista, vorrei girare in questo modo i miei film. Pura forma, puro linguaggio, puro miraggio. Trionfo sulla volgare ingenuità di ogni realismo cognitivo e metafisico. Grande bellezza della mente.
L’epigrafe è tratta da Céline.

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15.6.2013

Ho rivisto il film e ne ho gustato ancor di più la profondità antropologica e la bellezza formale. Di essa è parte essenziale la colonna sonora. Senza la musica sarebbe un altro film. L’alternarsi di composizioni raffinatissime -come quelle di Zbigniew Preisner, David Lang, Magnus Perotinus, Henryk Górecki, Arvo Pärt- e di brani pop esprime perfettamente la cifra duplice dell’opera. Che, ribadisco, è un’opera sulla mente, sui ricordi, sul mondo interiore che la memoria corporea produce.

Credo che uno degli equivoci di molti critici e di numerosi spettatori sia stato confrontare La grande bellezza con i film felliniani. Si è trattato di un riflesso quasi condizionato ma radicalmente errato. Rivedendolo, mi è stato ancor più chiaro che al centro del film non c’è Roma ma «la grande bellezza che ho cercato, senza trovarla» come afferma verso la fine il protagonista. Non è un film sulla Roma barocca ma è un film barocco. Un’opera quindi sul tempo, sulla morte e sui loro simboli.

Sogni, matrimoni e sadismo

Mente & cervello 101 – maggio 2013

 

La mente umana è un dispositivo semantico così potente, «è talmente portata a costruire significati che lo fa anche con materiali incongrui tra loro, un po’ come accade con il patchwork» (John Allan Hobson, intervistato da D. Ovadia, p. 48). È questa l’origine dell’attività onirica. I sogni «non hanno alcun significato misterioso» (M. Cattaneo, 3), non rivelano nulla né del futuro -come sostenevano indovini e aruspici del mondo antico- né del passato -come afferma la psicoanalisi. I sogni riflettono piuttosto, al pari di ogni altra attività della coscienza, quello che pensiamo del mondo e della vita. E lo fanno in modo particolarmente creativo, sino a presentare come possibile l’impossibile e come reale l’assurdo. Questo accade perché «i sogni sono prodotti della chimica cerebrale, generati casualmente nel corso di un’attività di consolidamento delle tracce acquisite durante l’attività cosciente. Non nascono con un significato: piuttosto possiamo dire  che quando gli stimoli interni, le rievocazioni casuali di eventi e sensazioni occorse durante la veglia, arrivano alla corteccia in determinate fasi del sonno, questa tende a riorganizzarli dando loro un significato coerente. Il cervello umano è infatti costruito per dare un senso alla realtà, sia questa esteriore o interiore, e i sogni non sono altro che fenomeni biochimici reali che avvengono nel nostro cervello. Non c’è nulla di mistico in essi, né di magico […] La loro funzione è consolidare ciò che abbiamo vissuto o appreso durante la veglia» (Hobson, 46-48).

Un sogno è spesso il matrimonio. E i fotografi chiamati a rendere immortale l’effimero “sì” dell’illusione istituzionale sono sempre più indotti a trasformare il loro reportage in un vero e proprio spettacolo costruito a imitazione dello show televisivo. «Un cambiamento anche inquietante» -afferma la semiologa Maria Pia Pozzato, che sta studiando tali immagini- «perché molto narcisistico: queste spose non parlano dello sposo ma di se stesse, anche le valenze estetiche si perdono a favore di esperienze estesiche, fatte di sensazioni» (intervista di P.E. Cicerone, 72). Lo scopo è stare al centro della scena, “farsi vedere”, secondo quella modalità dell’Esse est percipi nella quale Christoph Türcke individua uno degli elementi fondamentali delle società contemporanee. La sensazione è diventata «una necessità vitale. Uno deve fare sensazione e aver sensazione se vuole esserci, se vuole avere un’esistenza sia in senso letterale, sia in senso metaforico» (C.  Türcke, La società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri 2012, p. 87). La sensazione si è trasformata nel sensazionale.

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Cesare / Contro il potere

Piccolo Teatro Strehler – Milano
Giulio Cesare
di William Shakespeare
traduzione Agostino Lombardo
ideazione e progetto scenico Marco Rossi e Carmelo Rifici
luci A.J. Weissbard
costumi Margherita Baldoni
musiche Daniele D’Angelo
adattamento drammaturgico Renato Gabrielli
con: Massimo De Francovich (Giulio Cesare), Marco Foschi (Bruto), Sergio Leone (Cassio), Danilo Nigrelli (Antonio), Federica Rosellini (Porzia), Giorgia Senesi (Calpurnia), Marco Balbi (Cicerone), Max Speziani (Indovino)
regia Carmelo Rifici
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Sino al 6 maggio 2012

Niente toghe, niente templi e colonne, niente piazze. Solo l’essenza del potere. Rome is a room. Questo spettacolo traduce alla lettera l’intraducibile gioco di parole con il quale Shakespeare definisce la struttura chiusa del potere, penetra nella sua dimensione costantemente cospiratrice, segreta, onirica («Now is it Rome indeed and room enough, / When there is in it but one only man», atto I, seconda scena).
La regia di Carmelo Rifici dà grande risalto ai sogni, ai presagi, alla magia. Si comincia con l’indovino che enuncia monconi di frasi, di visioni, di paure e intorno al quale -improvvise- si accendono delle fiamme. Gli incubi di Calpurnia, moglie di Cesare, sono contemporanei all‘insonnia di Bruto e di Porzia. E il terrore della notte si scatena in tempeste, allucinazioni, squarci.
Ma è un sogno, questo, che si intreccia con il razionalistico piano inclinato dell’ambizione che tutti afferra e che si esprime nella elegantissima retorica dei discorsi di Bruto e di Antonio. Il primo tiene la sua conferenza stampa dopo l’assassinio di Cesare, argomentandone la necessità e i vantaggi per l’intera Roma; il secondo parla in un obitorio, con il popolo romano seduto in poltrona nelle proprie case -come fosse davanti allo schermo televisivo-, pronto a trasformare il sostegno ai cesaricidi in impulso di vendetta contro di loro, mano a mano che il raffinato eloquio di Antonio trasforma Bruto e Cassio da “uomini d’onore” in volgari traditori e assassini, rosi dall’ambizione assai più di quanto lo sia stato Cesare.
La scena si volge poi a descrivere i congiurati e i loro nemici nelle stanze degli stati maggiori, a stabilire tattiche belliche, a impartire ordini, a ricevere dispacci, a esultare per la vittoria o a prendere atto del fallimento. Tutti, comunque, burattini in mano alla volontà di potere, guidati da passioni mascherate dietro parole come “libertà, onore, popolo, giustizia”, trasparenti e inutili maschere razionalizzanti.
Nella lettura e nella messinscena di Rifici, Cesare «intuisce la fine e decide di consegnarsi alla morte, innescando lui stesso i conflitti perché l’azione possa precipitare velocemente» (Programma di sala, p. 8); Antonio utilizza il linguaggio come la più potente arma atta a condurlo al suo vero obiettivo: il potere; il popolo è pronto a seguire l’ultimo che parla; una geometrica freddezza intesse il dipanarsi degli eventi con il loro inevitabile esito, la morte.
«Cowards die many times before their deaths;
The valiant never taste of death but once.
Of all the wonders that I yet have heard
It seems to me most strange that men should fear;
Seeing that death, a necessary end,
Will come when it will come».
[I vigliacchi muoiono tante volte prima della loro morte: il coraggioso non assapora la morte che una volta sola. Di tanti prodigi che ho sentito il più singolare a me sembra che un uomo possa averne paura. La morte è una necessaria conclusione: verrà quando verrà» (atto II, seconda scena)]
Sono le parole con le quali Cesare risponde alle paure di Calpurnia. Parole come queste, la loro bellezza, danno ragione a Canetti quando afferma che a contrastare l’aculeo del potere non serve altro potere ma la filosofia, l’arte, il linguaggio: «Così i morti si offrono come il più nobile nutrimento ai vivi. La loro immortalità torna a vantaggio dei vivi: grazie a questo capovolgimento del sacrificio dei morti, tutto prospera. La sopravvivenza ha perduto il suo aculeo e il regno dell’inimicizia è alla fine» (Massa e potere, Adelphi, p. 336).

Mente & cervello 86 – Febbraio 2012

La sezione più interessante di questo numero di Mente & cervello è costituita forse dalle due paginette conclusive dedicate alle recensioni. Vi si parla, infatti, di tre libri fra di loro collegati e dedicati rispettivamente alle dipendenze, al piacere e al determinismo genetico. Nel suo L’istinto del piacere, Gene Wallenstein cerca di spiegare come mai «il nostro cervello è disposto a subire sacrifici, persino sofferenze, prefigurandosi un intenso piacere, anche di breve durata, che ne potrà derivare» (P.Garzia, p. 104). Una disponibilità che ha come effetto la possibile dipendenza da innumerevoli fonti di piacere, molte delle quali dannose. «Ciò che indirizza le nostre preferenze in termini di piacere varia, a volte moltissimo, non soltanto nelle diverse fasi della vita ma pure in rapporto all’ambiente. Potente motore evolutivo, il piacere orienta e guida ogni scelta della nostra vita» (Id., p. 105). “In rapporto all’ambiente”, certo, ma anche con una componente innata di estrema potenza. È quanto sostiene Dick Swaab -recensito da M.Capocci- in Noi siamo il nostro cervello. Il neurobiologo olandese ritiene infatti che noi diventiamo assai presto ciò che siamo: «È la vita intrauterina a decidere molti aspetti della nostra personalità: scelte sessuali, integrazione familiare, fragilità emotive, schizofrenia, nonché altri tratti più o meno patologici sono dovuti alla chimica che il feto esperisce all’interno del ventre materno, oltre che alla genetica ereditata dai genitori» (104).
Ancora una volta, tuttavia, va superata la sterile contrapposizione tra ambiente e genetica. Gli umani sono degli animali sociali che plasmano il proprio cervello in relazione alla cultura e creano cultura con i neuroni. Alcuni esempi? Il sesso: «Per il comportamento sessuale il cervello è essenziale quanto gli organi riproduttivi» (K.Lambert, 41); le malattie, comprese le più gravi: «Negare l’esistenza di una relazione fra sistema immunitario e psicologia non è più possibile ai giorni nostri. Sono infatti troppe le prove che l’organizzazione psicologica o gli eventi stressanti possono influire sulla risposta immunitaria. La branca superspecialistica che se ne interessa è la psiconeuroendocrinoimmunologia, un termine complicato che indica soltanto le possibili interrelazioni fra sistema nervoso centrale, equilibri ormonali e sistema immunitario» (L.Tondo, 7); i sogni, i quali -al di là delle interpretazioni mitologiche o psicoanalitiche (che, in verità, sono quasi identiche, e anzi quelle freudiane sono ancor più arbitrarie di qualunque mito)- non sarebbero altro «che il pensiero di un cervello che si trova in uno stato biochimico diverso. Infatti le esigenze fisiologiche del sonno alterano il suo funzionamento» (D.Barret, 25-26); il sonno stesso -soprattutto quello REM- ha lo scopo psicosomatico di consolidare la memoria.
Ma nell’umano la chimica è inseparabile dalla semantica e quindi «i nostri comportamenti e perfino le nostre reazioni fisiologiche dipendono in larga misura dall’immagine che abbiamo del mondo, più che dalla realtà stessa», come dimostra M.Barberi in un istruttivo e divertente articolo dedicato al bluff in tutte le sue forme e non soltanto in quelle classiche del poker (51-52). Il titolo, infatti, è «la vita è un bluff», per spiegare il quale serve una vera e propria ermeneutica fisiologica oltre che filosofica.

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